[Sherlock BBC] Coffee break and remorses

Oct 25, 2011 12:03

Titolo: Coffee break and remorses
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: John Watson, Jim Moriarty
Rating: NC-17
Betareader: eatintoothpaste
Avvertimenti: Io credo che... sesso in luogo pubblico? L'ospedale è un luogo pubblico? Sì, no? Beh, fate finta di sì. E poi slash. Ma vi stupite? No.
Conteggio parole: 4187 (fiumidiparole)
Note: Oh. Sembra che l'editor sia tornato a posto? Finalmente. XD Bon, comunque non ho niente da dire se non leggete. Scrivere note mi annoia, per bruscolini come questo.

John vorrebbe terribilmente tornare a casa; sente i muscoli delle spalle tendersi fino a fare male, crampi che gridano pietà e chiedono una doccia calda. Potrebbe uscire dall’ospedale e prendere un taxi, pensare a che musica mettere per riempire il silenzio della casa mentre lava via la stanchezza della giornata più lunga della sua vita, ma Sherlock è ancora in obitorio con Lestrade e se andasse via ora sa che si sentirebbe una merda - e probabilmente il suo coinquilino avrebbe da che ridire per tutta la notte, per cui…
Fuori, il cielo è un enorme cumulonembo macchiato della luce artificiale dei lampioni, grigio e arancio che si mescolano e gli danno un lieve senso d’apprensione.
Anche se magari non è proprio tutta colpa del cielo.
John sospira, infilando le mani in tasca e giocando con le monetine del resto della spesa di quella mattina. In fondo un caffè non può far male.
Solleva le spalle e le fa schioccare, gemendo appena di piacere. Spera che il gioco malato dell’amichetto di Sherlock finisca presto, perché è davvero stanco e non è sicuro di poter reggere un giorno di più tra due psicopatici. Con passo pesante, esce dalla sala e prende la prima rampa di scale, sperando che anche il distrubutore di bevande del piano di sopra non sia guasto. La lingua passa tra le labbra, prima che la bocca si apra in uno sbadiglio stanco. È improbabile che vadano via da lì prima dell’una, e ancora non è mezzanotte - ci fosse almeno un letto libero…
Quando raggiunge il piano, c’è un rumore ritmico di sottofondo, basso ma costante, che disturba il silenzio dell’edificio. In fondo alla sala c’è una porta semiaperta, dalla quale fuoriesce un bagliore tenue ed elettrico. John si avvicina piano, il rumore che si intensifica ad ogni suo passo. Si affaccia appena senza farsi notare per vedere poi, in fondo alla stanza, la testa familiare del povero ragazzo che poche ore prima ha osato provarci con Sherlock. Un sorriso affabile e le sue dita tornano alle tasche: per fortuna ha un resto corposo che pesa discretamente, giacché condividere un bicchiere di caffè con qualcuno aiuta le sinapsi a lavorare meglio.
Spera che il ragazzo - Jim, gli pare di ricordare, non è mai stato particolarmente bravo coi nomi - non si accorga della sua presenza: non vuole interrompere il suo lavoro se non per lo stretto necessario. La moneta tintinna dentro il distributore, e rapidamente la stanza si riempie dell’odore amaro del caffè, e già va un po’ meglio.
Quando anche il secondo bicchiere è pieno, John fa qualche passo incerto, dando poi un colpo di sedere alla porta e addentrandosi nella stanza. Il battere le dita sulla tastiera non rallenta, non si interrompe; probabilmente Jim è totalmente concentrato sul suo lavoro - si sente un po’ in colpa a disturbarlo, ma ha seriamente bisogno di scambiare due parole con una persona normale, o diventerà pazzo entro poco tempo.
Imbocca l’ultima corsia di computer, facendo attenzione a non urtare nulla; quando arriva dietro al ragazzo si schiarisce la voce, poggiando un bicchiere sul tavolo. “Se stai davanti al monitor per così tanto tempo i tuoi occhi non ne saranno felici, poi.” dice a bassa voce, accennando un sorriso.
Jim sussulta appena, voltandosi immediatamente. “Oh.” esclama poi, facendo per alzarsi. “Dottor Watson.”
“Stai seduto, non preoccuparti.”
Gli poggia una mano sulla spalla, obbligandolo gentilmente a stare giù. Jim non può far altro che assecondare il suo ordine, portando le mani al bicchiere ancora fumante. “La ringrazio.”
“Non c’è bisogno. Lavori sempre fino a tardi?”
La risata di Jim è morbida e bassa - deve essere la luce fioca della sala, pensa John. Di notte lui tende sempre ad abbassare la voce, come se intorno ci fosse qualcuno che è meglio non disturbare. Il giovane manda giù un sorso e sospira deliziato, prima di guardare lo schermo per qualche secondo. “Sì, di solito mi trattengo fino alle due. Non per altro, semplicemente mi dimentico che devo tornare a casa.”
John lo imita, mentre si poggia al davanzale della finestra, Jim che gli da le spalle mentre ancora digita sulla tastiera. Osserva le scritte sul monitor senza capirne mezza. “Evidentemente è un lavoro che ti piace. Che cos’è?”
“Oh, è un semplice programma di gestione delle risorse dei magazzini. Segna cosa entra, cosa esce, quanta roba si usa… niente di così complesso, solo che vorrei dargli un aspetto grafico che permetta di effettuare le operazioni in maniera intuitiva, sa… non è che tutti capiscano come funzionano queste cose.”
John annuisce, perfettamente consapevole di essere compreso nella categoria appena nominata. “Sarei un bugiardo se ti dicessi che ho capito.”
John manda giù un altro sorso di caffè, cominciando a sentire la stanchezza scivolare verso il basso. Quando Jim si volta per qualche istante, aggiungendo qualche parola strana al suo programma e scusandosi - “Sa, se poi dimentico cosa va scritto è la fine!” - John ne approfitta per studiarlo, in una blanda imitazione di ciò che Sherlock fa quotidianamente.
… tuttavia, l’unica cosa che pensa è che sembra gracilino per la sua età - quanti saranno, trenta, trentadue anni?
“Non dovresti lavorare così tanto.”
“Non mi pesa, almeno finché non torno a casa. Cado sul letto come un sasso.”
Jim non lo guarda ancora, e John sofferma lo sguardo sul suo collo pulito; segni di irritazione sulla pelle gli fanno pensare che si sia rasato da poco, forse per tentare di conquistare Sherlock.
Sorride appena, e gli vien voglia di poggiare la mano su una spalla in un vago segno di compatimento. Vorrebbe dirgli di puntare altrove perché davvero, Sherlock non è qualcosa a cui la gente, normale o meno, può ambire.
Si limita a finire il caffè, e lasciare il bicchiere sul davanzale della finestra.
Finalmente Jim si volta verso di lui, mostrando un sorriso smagliante. “Grazie per il caffè, ne avevo proprio bisogno.”
“Non c’è problema.” John annuisce e ricambia il sorriso poi, abbassando lo sguardo sull’orologio, si chiede se non sia il caso di fare un salto in obitorio. Ma prima che possa solo aprire bocca, Jim fa sfumare ogni sua buona intenzione.
“Può restare un po’ con me? Non mi dispiace avere un po’ di compagnia, ogni tanto.”
John non può fare a meno di annuire. “Non c’è problema. Tanto credo resterò qui ancora a lungo.” risponde, leccandosi le labbra e chinando appena lo sguardo. Riesce a cogliere gli occhi di Jim incollarsi alla sua bocca, ma probabilmente è solo una sua impressione. Intanto, sente il caffè corrergli in vena e stuzzicargli i nervi, facendolo sentire appena più teso.
“Posso chiedere come mai?”
John lo guarda negli occhi e non riesce a vedere nessun accenno di stanchezza. Jim si alza in piedi e gli si mette affianco, continuando a tenere il bicchiere in mano, muovendolo e osservando il liquido agitarsi e macchiare la plastica bianca.
“Siamo impegnati con un caso un po’ complicato. O meglio, Sherlock lo è, io sono solo una specie di spalla un po’ inutile.” Fissa per qualche istante lo schermo, e la luce è così forte da fargli lacrimare gli occhi. “È un po’ difficile da spiegare - e anche da seguire, ma si fa quel che si può. L’unica cosa che posso dirti è che c’è una persona malata di mente che si sta divertendo a giocare con Sherlock. Per ora non sappiamo quanto durerà.”
“Sembra un bel problema, dottor Watson.”
“Lo è.” John tira indietro la testa, guardando il soffitto e strizzando gli occhi; ci sono ombre verdi che ondeggiano dietro le sue palpebre, fastidiose. “Ma in qualche modo si risolverà.”
“Ne sono sicuro. Il signor Holmes è un idolo, dalle mie parti.”
Jim sorride e lo guarda, il tallone puntato sul pavimento e il piede che ondeggia - a John ricorda un adolescente impaziente. “Oh, lo è anche dalle mie.” Solleva lo sguardo e per un momento il respiro si blocca. “… lascia che ti dia un consiglio.”
“Mh?”
John si volta e incontra i suoi occhi grandi - sono così scuri che non riesce a distinguere la pupilla dall’iride, quasi stonano con la sua figura, col suo viso addolcito dai tratti morbidi. “Non girare troppo attorno a Sherlock. Non è cosa per te. Non è cosa per nessuno, in realtà.”
John vede un attimo di smarrimento negli occhi di Jim. Ma poi il ragazzo ride, incrocia una gamba sull’altra e tira la testa all’indietro, abbozzando un sorriso che per un attimo gli fa venire i brividi. “Oh, dottor Watson, la ringrazio. Ma non c’è bisogno che si preoccupi.” Il ragazzo si dà una spinta con le mani, roteando quel poco per finire a poggiarsi sulla scrivania, nello spazio tra un computer e l’altro. John lo guarda chinando appena la testa di lato, la tensione nel corpo che aumenta rapidamente - se non dorme la sua testa esploderà, sta già cominciando a svirgolare. “Sono una persona tenace, sono certo che il signor Holmes si accorgerà presto della mia presenza.”
Il suo volto è disteso, rilassato, di nuovo dolce. Mostra appena i denti mentre le labbra si stirano, e la gamba che prima aveva accavallato ora frega contro l’altra, e il rumore dei jeans sembra così forte in mezzo al silenzio che John lo sente rimbombare nella sua testa, e gli fa un effetto che non gli piace, o almeno così crede.
Le labbra di Jim hanno un taglietto adorabile. Ha bisogno di dormire. Il rumore dei vestiti gli fa pensare ai tentativi falliti di avere un attimo per sé chiuso nel bagno, da due giorni a questa parte. Ha davvero bisogno di dormire. Jim si allunga appena su di lui e china la testa di lato - “Dottor Watson, tutto a posto?”, chiede sincero, le palpebre che sbattono lente mentre lo osserva.
Lui si limita a deglutire, chinando la testa.
Deve essere davvero stanco, perché non riesce a non pensare che ora dovrebbe essere a casa a dormire, invece che a chiacchierare con un ragazzo che sembra più piccolo della sua età e che gli manda messaggi contrastanti - o forse è solo il suo cervello che vede cose che non esistono e di cui lui avrebbe sinceramente bisogno. Spera che da un momento all’altro Sherlock faccia capolino dalla porta e gli dica di muoversi, che è ora di andare a casa, ma passa una manciata di secondi e nessuno arriva, e Jim lo guarda ancora, lo squadra, e le sue gambe per un momento sono troppo pesanti perché possa muoverle.
“Ha bisogno di un altro caffè?”
Ho bisogno che tu stia zitto.
John sospira e si passa una mano tra i capelli, mordendosi velocemente il labbro inferiore. Scuote la testa e assieme ad essa la mano, tentando di scaricare la tensione stringendo l'altra convulsamente. “No, no, Jim, grazie. Sto bene.”
Jim si allunga e gli poggia la mano sulla spalla, e John non può far a meno di pensare che l’espressione costernata sul suo viso sia di plastica. “Sicuro? Vado a prenderle qualcosa?”
È una scarica elettrica.
Se fosse fuori da proprio corpo, penserebbe che ciò che sta vedendo non ha senso. Penserebbe che non dovrebbe stringergli le spalle - non così forte, almeno -, che non dovrebbe spingerlo contro la scrivania col rischio di rompere computer che non potrà mai ripagare, che non dovrebbe premere la bocca contro quella di un perfetto sconosciuto e cominciare a leccarne le labbra, e morderle fino a farle diventare tanto rosse quanto la punta delle sue orecchie.
Sherlock doveva tornare e portarlo a casa per farlo dormire.
John obbliga Jim ad aprire la bocca forzandola con la sua lingua, e quando riesce ad entrare sospira in piacere, sentendolo caldo contro di lui. Lascia che il tecnico trovi sostegno sulla scrivania come meglio crede, troppo impegnato a fregare la lingua contro la sua, a sentire il gusto del caffè mischiarsi nelle loro bocche. Lo sente scivolare sotto i suoi tocchi, la salivazione che aumenta e i muscoli che si tendono ancora - deve scaricare la frustrazione, o impazzirà. Jim tenta di fermarlo, ma la mano preme sulla sua spalla ferita con così poca convinzione che non gli fa nemmeno male. Quando l’altro lo chiama più volte, i suoi denti affondano nel labbro già rosso stringendo quanto può, facendolo gemere di dolore.
Vorrebbe fermarsi, davvero. Ma la sensazione dei suoi nervi che si tendono e rilassano rapidamente gli impedisce di farlo, obbligandolo anzi a premere il suo corpo contro quello del ragazzo, a sentire i suoi gemiti e le sue proteste che in un’altra situazione avrebbe sicuramente ascoltato.
Ma non ce la fa.
Una mano scorre sul petto di Jim, aggrappandosi al collo della canottiera e tirandolo quanto più possibile per mettere a nudo la pelle chiara, appena arrossata. Se ci poggia il naso riesce a sentire appena l’odore del dopobarba - tutto progettato per conquistare Sherlock, tutto progettato per conquistare una persona normale.
Odia che quando c’è Sherlock nessuno si rende conto del resto del mondo.
I denti accarezzano la spalla, prima di affondare piano nella carne. Le sue dita si attorcigliano attorno al bordo della canottiera, sollevandola, sentendo la leggera peluria del petto accarezzargli le nocche.
“D-Dottor Watson!” esclama Jim, chinando la testa verso quella del dottore per cercare di allontanarlo. John può sentire le gambe scalciare ai lati delle sue, il respiro che aumenta, il battito del cuore che accelera.
“Dannazione...” si limita a replicare, prima che la lingua accarezzi la pelle arrossata.
Il problema è che non sente niente nella sua testa che gli imponga di fermarsi; l’unica a farla da padrone è la tensione accumulata in pochi giorni, l’adrenalina che aumenta e diminuisce nelle sue vene senza controllo, il bacino che si struscia da solo, come se non dipendesse più dal suo cervello. Sente il cavallo dei pantaloni tendersi pericolosamente mentre si muove contro il basso ventre dell’altro, e il percepire tra un gemito e l’altro ansiti caldi non lo aiuta a regolarsi.
Avrebbe dovuto incontrare Sarah, ieri. Per colpa di Sherlock non ha potuto nemmeno scaricare la sua frustrazione sessuale.
John stringe le spalle di Jim con una mano e riesce a sentire le ossa attraverso la stoffa. L’altra si muove sotto la maglia, pizzicando la pelle, prendendo tra le dita un capezzolo già turgido e strizzandolo appena, il suo nome che si scioglie sulla punta della lingua dell’altro.
“Non c’è niente di bello in Sherlock.” dice, un tocco di rancore nella voce bassa. Non riesce a guardare il ragazzo in faccia, si accontenta di ascoltare la sua voce, di sentire le dita che premono sulle sue spalle, forte fino a fargli male, stavolta. Strizza ancora il capezzolo, mentre lo succhia piano dietro l’orecchio, immaginandosi la pelle arrossarsi dentro la sua bocca. “Nulla. Niente per cui valga la pena mettersi a tiro, per cui valga la pena farsi notare. Non ti vedrà mai.”
Non sa a chi si stia riferendo, né perché stia sprecando aria. Si sente come se stesse parlando a se stesso, ed è una cosa che gli dà terribilmente fastidio; è come si stesse auto-umiliando. Abbandona il petto e la spalla di Jim per far scivolare le mani sulla cintura, il tintinnio metallico che entra nelle sue orecchie con forza. Quando poggia il palmo sul cavallo dei pantaloni riesce a sentire il rigonfiamento tra le gambe di Jim e mugola appena.
Non sa nemmeno perché lo stia facendo.
Rimane fermo per qualche attimo, la mano che poggia tra le sue gambe, sfregando appena. Jim ha il viso basso, lo sguardo sulla patta slacciata - lo sa perché riesce a vederlo con la coda dell’occhio; il suo respiro è pesante, caldo, gli piace. Comincia a premere piano, muovendosi su e giù lentamente. Osserva intensamente il movimento come se fosse ipnotizzato, i denti che torturano il labbro senza tregua.
Jim trema appena, stringe la sua spalla, muove le gambe nervosamente. John riesce a percepire il suo disagio, eppure riesce a sentire anche la sua eccitazione come una patina sopra la sua pelle, viscosa e piacevole. Non vuole, vuole, non lo capisce, non gli interessa.
Non si fida della sua vista, in quel momento, ma potrebbe giurare di vedere Jim sorridere.
“Forse.” dice soltanto il tecnico, prima di allacciare le gambe sulla vita dell’altro, il mouse sul tavolo che sfrega contro il suo bacino e si sposta appena ad ogni movimento. La sua voce arriva alle orecchie di Jim in modo distorto; c’è una punta di sarcasmo che batte viva al centro della parola, e si irradia per distruggere ogni minima traccia di paura. Le mani spingono sulle sue spalle per inerzia, la sua voce è modulata perché sia bassa ma roca, piccoli ‘no’ che si perdono nell’aria ogni volta che John sfrega la mano contro la patta dei jeans.
È come se non vedesse l’ora di farselo prendere in mano.
“Un cazzo.” replica secco, stringendo la mano sopra la sua erezione coperta. “Non ti vorrà mai. Non è interessato a nulla, nemmeno alle puttanelle come te.”
È un mormorio avvelenato, la lingua che passa tra le labbra per ripulirle dallo schifo che ha appena detto. Jim si contorce appena, quando lui finisce di parlare. John sente le unghie incastrarsi tra la stoffa, nel tentativo di stringersi alla carne. Sospira e lo lascia fare, mentre le mani scivolano dietro il suo sedere, aggrappandosi ai jeans ed obbligando l’altro a farseli togliere, pantaloni e mutande verdi che volano sotto il tavolo, assieme alle scarpe.
John si ferma un momento, e lo guarda. Fissa il labbro inferiore incastrato tra i denti, fissa la punta delle sue orecchie colorata di porpora, gli occhi scuri che sembrano ancora più grandi, ancora più ambigui. Che sorrida o che soffra, non riesce a capirlo.
Lo bacia di nuovo con impeto, mentre si aggrappa alle cosce nude e lo obbliga a sollevarle e stringerle attorno al suo torso. Una mano scorre lenta sulla carne, le dita solleticano la piega morbida delle natiche, e Jim trattiene il fiato, soffocando un singulto.
Sembra quasi un rantolo, quello che scappa dalle labbra gonfie di Jim quando John abbandona una coscia e preme due dita sulla sua bocca, obbligandolo ad aprirla. È bollente, umida; le dita scivolano sulla sua lingua e ci giocano, e subito l’altro diventa reattivo, seguendo il movimento, inumidendolo. John sente la saliva scorrere sulla pelle, e si perde per un istante a guardare il suo viso, gli occhi socchiusi e chini sulla sua mano, le labbra bagnate che brillano appena della luce dei monitor accesi attorno a loro. Nella sua bocca fa quello che vuole; lo scopa piano, andando avanti e indietro, si apre come fosse una forbice e lascia che la lingua si incastri e lo bagni sempre di più.
“Slacciami i pantaloni.” sussurra lento, senza staccare gli occhi dalla sua bocca.
Jim obbedisce con uno scatto nervoso, sospirando e scaldando le sue dita bagnate. In poco tempo John sente i pantaloni scivolargli sulle cosce, l’elastico dell’intimo che tira appena per l’erezione evidente. Il ragazzo davanti a lui non aspetta nemmeno che gli ordini di abbassare anche quelle; afferra l’elastico e ah, finalmente John si sente meglio.
Quando fa scivolare le dita fuori dalla sua bocca, un filo di saliva si stacca dai polpastrelli per adagiarsi leggero sul mento di Jim. John la fissa per un momento, prima di leccarla via, prima di riportare la mano sulla sua apertura, i polpastrelli umidi che accarezzano la carne bollente.
Jim geme, quando John comincia a spingersi dentro di lui. Sospira e lo stringe quando, sorpreso, il dottore sussulta e si ferma per un attimo, voltandosi poi a baciargli il collo, piano, ripetutamente.
“Sei già così largo.” mormora, lasciando scivolare dentro anche il secondo dito. Chiude gli occhi ed ascolta i sospiri lunghi e profondi dell’altro, il rumore delle sue gambe costantemente in movimento.
Lo elettrizza, lo manda in corto circuito. Le dita cominciano a muoversi più veloci, mentre sulle sue palpebre immagina chi possa esserci stato prima di lui - non è passato molto tempo, non sarebbe così comodo scivolare in lui, non sarebbe così facile farlo gemere sempre più forte perché tanto non c’è nessuno lì, e se Sherlock deve arrivare, che almeno abbia la decenza di farlo quando lui ha finito.
Si muove ancora un poco in lui, allargandolo, prima che la noia sopraggiunga ed esca fuori lasciando Jim con il fiato a metà.
“Dottore…”
Sembra quasi un miagolio, una supplica.
È tutto così strano, ovattato dalla stanchezza, dal nervoso, dalla voglia di buttarsi sul letto e dormire.
Entra senza troppi convenevoli, l’erezione che scivola facilmente dentro Jim. Il ragazzo si aggrappa al suo collo, la testa chinata all’indietro e l’aria che esce con forza dai suoi polmoni, mentre il cognome di John muore sulle sue labbra.
La carne delle cosce di Jim sembra diventare sempre più calda, mentre si incastra sotto le unghie corte e si arrossa. Il ritmo del bacino di John accelera lentamente, la bocca che non riesce più a stare chiusa, che continua a emettere suoni gutturali bassi e brevi ad ogni colpo. Sente il corpo scosso dai brividi e il cervello smettere di funzionare, riducendolo a una bestia che soddisfa i suoi istinti primari. Il cuore gli batte forte in gola e sulla pancia, tesa fino a fargli male. E mentre una mano segna la cosca di Jim, mentre lo apre ancora un po’ per entrare fino in fondo, l’altra scivola tra le gambe e si aggrappa alla sua erezione perfetta, appena umida. John segue un ritmo tutto suo, dettato dagli ansiti che aumentano d’intensità, dalle spinte pelviche che ormai non hanno più controllo.
Jim si stringe e geme contro le sue spalle, chiamandolo per nome solo una volta. Si muove su di lui, spingendosi contro il basso ventre del dottore come meglio può - John lo guarda, rosso e appena sudato, e gli morde le labbra con forza, trovandolo irresistibile. Lo lecca, lo succhia, se potesse rimarrebbe lì per ore a giocarci, ma sente di essere quasi al limite.
È quando la mano diventa più scivolosa sull’erezione del tecnico che John non riesce più a trattenersi. Poggia la testa sulla spalla dell’altro, dando spinte sempre più forti, più profonde, mentre la mano schizza avanti e indietro sull’erezione. Bastano pochi colpi di polso e Jim geme alto, stringendosi convulsamente alle spalle di John e venendo nella sua mano, piccoli schizzi che si depositano sulla sua camicia.
È meraviglioso.
John affonda i denti nell’incavo del collo di Jim e stringe, succhiando con forza mentre dà gli ultimi colpi - quel rumore nascosto tra gli ansiti, quel rumore umido che gli sale alla testa e gliela fa girare come una trottola; dà un ultimo affondo, gridando sulla sua pelle, e finalmente la tensione si scioglie, il suo sesso che pulsa e l’orgasmo che si riversa copioso dentro Jim.
John rimane lì, poggiato sulla spalla del tecnico. Respira a fatica, e i rumore dell’aria che esce dai suoi polmoni non gli piace. Intorno a lui c’è il silenzio pesante di una sala vuota, il soffio leggero del respiro di Jim che si infrange sul suo collo.
Non ha intenzione di muoversi.
La tensione se n’è andata via, lasciando spazio ad una stanchezza violenta, che si aggrappa alle sue braccia e stringe forte, distruggendolo. Lentamente, il suo cervello comincia a funzionare di nuovo, mentre gli occhi guardano al pavimento, ai pantaloni di Jim, alle sue mutande, a qualche goccia di sperma scappata dalla sua mano.
Deglutisce dolorosamente, mentre un vago senso di nausea si impossessa del suo stomaco.
“Dottore..?” sussurra Jim, ma lui non ha intenzione di rispondere, né di fare nessun’altra cosa.
Vorrebbe che Sherlock apparisse ora e lo portasse via senza dire una parola. Vorrebbe che Jim lo spingesse via e gli dicesse che è una persona orrenda - che accidenti gli è preso? “Dottore, va tutto bene?”
Non apre bocca, si limita a scuotere la testa e ad uscire dal suo corpo, finalmente. La mano pulita stringe appena il braccio di Jim, mentre sospira. Ha un nodo in gola che gli impedisce di parlare; è sicuro che se aprisse bocca non direbbe altro che “scusa”.
Ma poi Jim poggia una mano sulla sua testa e l’accarezza, sussurrando appena. “Sto bene, dottore. Non si preoccupi.”
Dal tono è quasi sicuro che sorrida. John sospira ancora e preme la fronte con forza contro la spalla di Jim, stringendo gli occhi per trattenersi dal piangere. In silenzio infila le mani nella tasca del giubbotto, prendendo delle salviette per pulire entrambi. Non lo guarda, muovendosi in gesti meccanici, e quando ha finito si china a raccogliere i suoi abiti, rivestendolo con cura. Jim lo guarda, sospirando appena.
“Davvero.”
John si morde appena il labbro, mentre gli riallaccia la cintura. Vorrebbe dire qualunque cosa - vorrebbe cancellarsi dalla faccia della terra, al momento, ma probabilmente non sarebbe abbastanza. “Scusa.” bisbiglia, e si sente la persona più patetica del mondo.
Jim sorride, allungandosi sulle sue labbra. “A me è piaciuto.” dice, prima di baciarlo. “Le conviene rivestirsi, dottor Watson. Credo che il signor Holmes stia tornando, non voglio che le faccia più domande di quelle a cui si darà risposta da solo.”
John butta tutta l’aria che ha fuori dai polmoni, obbedendo. Quando finalmente si è sistemato, guarda Jim per qualche istante, prima di dargli le spalle.
“Dottor Watson?”, dice il ragazzo, obbligando John a fermarsi a pochi passi dalla porta. Si gira e lo guarda, seduto al suo posto, illuminato dalla luce bianca del monitor. “A presto.”
Lui si limita ad un cenno con la testa e se ne va, in silenzio.

fandom: sherlock bbc, personaggio: jim moriarty, personaggio: john watson, !fanfiction, nc17

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