Titolo: Karappo no mirai niwa te wo dasanai (Non posso più tendere la mano ad un futuro senza speranza) HSJ - Time
Fandom: RPF - Hey! Say! JUMP
Personaggi: Yaotome Hikaru, Yabu Kota, Inoo Kei
Pairing: Hikabu
Prompt: “I want to reconcile the violence in your heart”
Genere: angst
Rating: R per i contenuti
Warning: slash
Conteggio parole: 2.173
fiumidiparoleNote: la storia inoltre è scritta per la diecielode per la tabella
think_angst con il prompt 01. Coltello e per fillare il prompt di
simph8 [RPF Musica] {Hey!Say!Jump - Jr. Era}"Che cosa ti passava per il cervello quando hai deciso di tagliarti le vene?" per la
notte bianca indetta da
maridichallenge.
Disclaimer: I protagonisti di questa storia non mi appartengono, non li conoscono personalmente e i fatti di seguito descritti non hanno fondamento di verità. La storia non è scritta a scopo di lucro.
Tabella:
Armi Yabu attendeva, in quell’asettico corridoio d’ospedale; stava seduto su quella scomoda e fredda panca che era stata spettatrice silenziosa di infinite sofferenze e che ora portava il peso del suo di dolore.
Abbassò il capo, stringendoselo tra le mani, passandosi le dita tra i capelli, scivolando sulla nuca.
Si sentiva impotente, si sentiva triste e svuotato: Hikaru era il suo migliore amico, erano cresciuti insieme; Yabu credeva di conoscerlo, credeva di sapere tutto di lui e invece si sbagliava. E di grosso anche.
Perché non si era accorto di niente?
Perché non aveva notato il suo malessere, quel disagio che si portava dentro da chissà quanto tempo.
Era stato così distratto, così preso da se stesso tanto da non rendersi conto che Hikaru stava male, che Hikaru stesse così male.
Quando era rientrato in stanza e l’aveva trovato lì, nel piccolo cucinino, per terra, con i polsi tagliati e il coltello ancora stretto in una mano, gli si era gelato il sangue nelle vene.
Era corso verso di lui, sporcandosi le mani con il suo sangue, l’aveva chiamato, ripetutamente, più volte; l’aveva scosso, l’aveva schiaffeggiato e non si era neanche reso conto di aver iniziato a piangere. Poi, vedendolo immobile e che non riusciva a risvegliarsi, si era scosso a sua volta e aveva urlato, con tutto il fiato che aveva in gola, chiedendo aiuto.
Ricordava poi, in modo sconnesso, quello che era accaduto dopo, qualcuno era accorso sì e l’aveva allontanato bruscamente dal corpo di Hikaru, chiedendogli di uscire, bendando alla bene e meglio i polsi di Hikaru, per tentare di fermare l’emorragia, mentre sentiva la voce di un altro sempai, in piedi dietro di lui, chiamare l’ambulanza.
Non ne aveva voluto sapere poi di lasciarlo da solo. Non l’avevano fatto salire sull’ambulanza con lui, ma ci era andato lo stesso, si era fatto portare dal suo manager all’ospedale, affermando che non avrebbe lavorato per quel giorno in nessun caso. Non l’avrebbe lasciato, non se ne sarebbe andato fino a che non l’avesse visto di nuovo sveglio e sorridergli in quel modo che lo faceva sentire speciale e importante.
Quando alzò la testa, vide il medico uscire dalla camera di Hikaru e si alzò in piedi, avvicinandosi all’uomo, chiedendogli se poteva vedere l’amico.
“Le prometto che non disturberò, starò seduto accanto a lui, la prego, non mi mandi via. La chiamerò se dovesse succedere qualcosa!” assicurò e l’uomo dovette leggere la disperazione sul suo volto e nella sua voce, per cui acconsentì.
Yabu tirò mentalmente un sospiro di sollievo, ringraziandolo ed entrando nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Trattenne il fiato, vedendo la stanza così impersonale e vuota, così grande eppure capace di togliergli l’aria. Tremò leggermente, avvicinandosi al letto sul quale Hikaru stava steso; piccoli tubicini gli restituivano il sangue che aveva perso e i polsi erano fasciati in modo stretto, le sue braccia, così piccole, spiccavano sulle lenzuola. Yabu si avvicinò, sfiorandogli il dorso della mano con un dito, come se avesse paura a toccarlo quasi per non fargli male, per non fargli ancora più male.
Spostò la sedia accanto al letto e si sedette, tirandosi le gambe al petto, poggiando il mento sulle ginocchia e osservando il corpo dell’amico che riposava.
Era stata una fortuna per lui che Yabu fosse rientrato così presto, non voleva pensare a come sarebbe finita se fosse arrivato tardi. Adesso, quello che Yabu si chiedeva era perché? Perché Hikaru avesse tentato di togliersi la vita in quel modo, che cosa l’aveva spinto a desiderare la morte soprattutto. Non ne aveva idea e continuava a ripetersi che, quando Hikaru si sarebbe ripreso, perché lui era sicuro che Hikaru avrebbe lottato per vivere, doveva lottare per vivere, avrebbe fatto in modo di aiutarlo, gli avrebbe parlato, l’avrebbe fatto parlare e l’avrebbe ascoltato. Voleva riconciliare la violenza nel suo cuore e non lasciarlo solo. Non più.
Si addormentò, non avrebbe voluto, si era ripromesso di vegliare il suo sonno, ma la stanchezza accumulata in quei giorni a causa del lavoro e lo shock per quello che era successo quel pomeriggio avevano preso il sopravvento. Si svegliò diverse ore dopo, quando i primi raggi del sole gli infastidirono il viso e la schiena aveva iniziato a dolergli per lo scomodo giaciglio nel quale si era appisolato. Si risollevò, sentendo un plaid scivolargli giù dalle spalle, probabilmente le infermiere del turno di notte l’avevano coperto, intenerite e non l’avevano volto svegliare.
Yabu si mise a sedere composto, alzandosi poi per sgranchirsi le gambe, camminando un po’ per la stanza.
Aveva sete e anche un po’ di fame; si spostò nel bagno, sciacquandosi il viso, per riprendersi e svegliarsi completamente e poi tornò ai piedi del letto di Hikaru. Il ragazzo ancora riposava pacificamente, le sue condizioni nei monitor erano stabili, poteva vedere il movimento del suo cuore sullo schermo delle macchiane, battere piano.
Tu- tum… Tu-tum… Tu- tum…
Quando il suo stomaco protestò vivacemente, si decise ad allontanarsi, infilò le mani in tasca, trovando qualche spicciolo, dirigendosi verso le macchinette e prendendo qualcosa per fare colazione. Non andava bene, ne era consapevole, aveva bisogno di riposare ancora, in un letto e di mangiare in modo normale, ma non aveva voglia di allontanarsi da lì, non voleva andarsene fino a quando Hikaru non si fosse svegliato.
E avrebbe tanto voluto rispettare il proprio proposito, ma, nel primo pomeriggio, il suo manager era andato personalmente a prenderlo per portarlo a casa. Yabu aveva ignorato le sue chiamate, i messaggi e anche le chiamate che gli aveva fatto direttamente in ospedale.
“Non puoi restare qui” gli aveva detto.
“Perché?”
“Perché non è un luogo adatto a un ragazzino. Perché hai bisogno di dormire e di mangiare.”
“Ma io voglio stare qui, voglio aspettare che Yaotome-kun si svegli!” protestò ancora.
“Qui Yaotome-kun avrà le migliori cure, se ci saranno miglioramenti ci chiameranno e ti prometto che quando si sveglierà verrò a dirtelo. Ti porterò di nuovo qui. Ma fino ad allora devi riprendere la tua vita.”
“Hikaru si sveglierà!” affermò Yabu, guardando serio l’uomo.
“Sì, non ho detto ch-”
“L’ha pensato! Lo pensate tutti!” disse con enfasi. “Ha fatto quello che ha fatto, ma lui… lui si sveglierà!” assicurò ancora.
Il manager lo guardò e annuì.
“Lo so anche io, Yabu-kun. E quando succederà tu devi essere in forma per salutarlo al meglio” gli disse, sperando che il ragazzo ragionasse e si avvedesse che quella fosse la soluzione migliore.
Yabu tentennò ancora un attimo, prima di annuire e seguire il manager al parcheggio dell’ospedale.
*
Erano stati giorni intensi per Yabu, con Hikaru in quelle condizioni, i suoi impegni si erano moltiplicati, avevano detto alle televisioni locali e alle riviste che Hikaru si sarebbe assentato a causa di impegni familiari e i medici e gli infermieri erano stati così discreti da non far trapelare, al di fuori dell’ospedale, nessuna notizia su quanto accaduto.
Per tre giorni Yabu non era riuscito a vedere Hikaru, avrebbe voluto andare in ospedale, stare accanto a lui, parlargli per incentivarlo a svegliarsi; si era documentato e aveva letto su internet articoli in cui si diceva che parlare ai pazienti privi di coscienza li avrebbe aiutati a risvegliarsi. Ma nessuno gli aveva dato il permesso di andare in ospedale e una sera in cui ci aveva provato, a sgattaiolare di nascosto, era stato subito scoperto e rispedito in stanza.
Era steso sul suo letto, fissava il soffitto e pensava a Hikaru, rientrare in quella stanza dopo il tentativo di suicidio del più piccolo in un primo momento gli aveva fatto uno strano effetto. Rivedeva Hikaru su quel pavimento freddo, rivedeva Hikaru ricoperto di sangue, rivedeva la lama del coltello macchiata e ancora si domandava il perché. Quesito che non avrebbe avuto risposta, non fino a che Hikaru non si fosse risvegliato. Qualcuno bussò alla porta della stanza distraendolo dai suoi pensieri e Yabu si sollevò a sedere, vedendo un sorriso sincero e rilassato, finalmente dopo giorni, sul volto del suo manager.
“Vestiti, l’auto è già pronta. Yaotome-kun ha ripreso conoscenza!” lo informò e Yabu balzò giù dal letto, restando in tuta, incurante dell’abbigliamento che usava in casa, e infilandosi velocemente le scarpe.
Quando arrivarono in ospedale, Yabu scese dalla macchina, lasciando aperto lo sportello e correndo a perdifiato fino al secondo piano. Rallentò quando attraversò il corridoio, avvicinandosi alla camera di Hikaru dove c’erano i medici che parlavano con alcuni dell’agenzia e con il manager dell’amico. Immediatamente volle avere conferma dai medici sulle condizioni dell’amico, informandosi poi se potesse ricevere visite, chiedendo di poter entrare da solo.
Si chiuse la porta della stanza alle spalle e trovò il più piccolo seduto sul letto che guardava fuori dalla finestra; aveva lo sguardo spaesato e quando si accorse di non essere più solo si voltò verso Yabu, distogliendo lo sguardo quando lo riconobbe.
“Hikka” parlò piano Yabu, una volta raggiunto il letto e la voce gli uscì roca a causa dello sforzo per la corsa.
Hikaru non rispose e il più grande si avvicinò ancora, sollevando una gamba, sedendosi sul bordo del letto, lasciando l’altra a terra per stare in equilibrio.
“Hikaru” lo chiamò di nuovo, scrutando il suo viso.
Aveva tante cose da dirgli, tante rassicurazioni da fargli, voleva dirgli che l’avrebbe ascoltato, voleva dirgli che lui c’era, che poteva contare sempre su di lui, ma in quel momento, nel vederlo lì, i sentimenti che aveva provato fino a quel momento sparirono, il sollievo di vederlo di nuovo sveglio spazzato via da un senso di rabbia e frustrazione.
In un attimo non si sentiva più in sintonia con lui, non voleva più che lui sapesse che c’era, perché avrebbe dovuto saperlo da principio, perché non capiva Yabu perché non si fosse confidato con lui prima di fare gesti tanto avventati e stupidi, voleva solo che gli spiegasse il perché.
“Che cosa ti passava per il cervello quando hai deciso di tagliarti le vene?” glielo chiese in un tono che apparve più duro del dovuto persino alle sue orecchie. “Cosa credevi di ottenere? Cosa pensavi di fare?” incalzò, con voce sempre più alta.
“Volevo morire, Yabu, questo mi sembra abbastanza ovvio!” disse pacato, prima di aggiungere con rammarico. “E, invece, sono ancora qui.”
Lo schiaffo che gli colpì il viso non se lo aspettava, né Hikaru, né tantomeno Yabu che chiuse poi la mano a pugno, pentito dal proprio gesto.
“Scusa” gli disse subito. “Scusa, non volevo… io…” scosse il capo. “Io solo non capisco.”
“Tu non devi capire, infatti.”
“Ma perché? Hikka… perché sei arrivato a tanto. Mi sono preoccupato tantissimo, quando ti ho trovato lì, sul pavimento della cucina… io…” fece una pausa. Hikaru non lo guardava, anzi, sembrava anche infastidito dalle sue parole, dalla sua premura.
“Perché non me ne hai parlato, Hikka? Sono sicuro che qualsiasi problema tu abbia può essere superato. Sai che io ci sono per te, tu sei il mio migliore amico, io farei qualsiasi cosa per te-”
“Smettila!” lo interruppe. “Smettila di parlare, tu… tu non sai quello che stai dicendo. Non mi puoi aiutare. Tu non sai… tu non sai niente.”
Si fermò, guardandolo per la prima volta negli occhi.
“È a causa tua se io sono qui e tu vuoi aiutarmi?”
Yabu lo guardò stranito, tirando appena indietro il busto.
“Io?”
“Dici che vuoi aiutarmi, dici che dovevo parlarti… di cosa esattamente? Del fatto che sono anni che sono innamorato di te? Del fatto che quando avevo finalmente trovato il coraggio per venire a dirti quello che provo, tu eri nella nostra stanza a fare sesso con qualcun altro? Questo dovevo venire a dirti, Kota?” gli chiese ironico, chiamandolo per la prima volta per nome, ricordando il modo svenevole con il quale Kei quella sera l’aveva chiamato, mentre raggiungeva l’orgasmo sotto di lui.
Yabu spalancò gli occhi.
“Hikaru” sospirò e Hikaru sapeva che la sua era un’ammissione di colpa.
Yaotome rise appena.
“Non mi serve la tua pietà, Yabu. Non mi servono le tue scuse, perché non mi devi niente. Non ti ho chiesto niente prima, né voglio nulla da te adesso.”
“Hikaru, senti, io…”
“Sta’ zitto, per favore. Mi sento già abbastanza patetico così, senza bisogno che tu aggiunga altro. E ora per favore vattene” gli chiese.
Yabu restò immobile, non sapeva cosa fare, come doveva comportarsi; qualsiasi cosa avesse detto avrebbe fatto solo del male a Hikaru; era vero che non doveva giustificarsi con lui, era vero che non gli doveva niente, ma ci stava male lo stesso, si sentiva responsabile in qualche modo anche se non poteva farci niente. Non poteva rinnegare i propri sentimenti, non poteva farci nulla se amava Kei e non Hikaru, se non si era mai accorto dei sentimenti che l’altro provasse per lui.
Si alzò dal letto, avvicinandosi alla porta e guardando un istante Hikaru, che aveva ripreso a guardare fuori dalla finestra, ignorandolo, prima di aprire la porta e uscire.
Una volta rimasto da solo, Hikaru sospirò, sorridendo in modo mesto; che persona triste, si disse, raccogliendo le ginocchia al petto: chiedeva solo una cosa, amare ed essere ricambiato ma aveva fallito, voleva solo morire e non era stato in grado di fare neanche quello.