Titolo: In the veil of the night (A beacon)
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson
Rating: NC-17
Conteggio parole: 5.018 (W)
Prompt: Sherlock Holmes, Holmes/Watson, Storpiature @
P0rn Fest #3 (
fanfic_italia)
Warning: AU. E tentacoli. Tanti tentacoli. Non lamentatevi con me se poi stanotte vi sentite cose viscide strisciare su per la gamba.
Quella sera d’estate del ’94 mi ero ritirato presto, complice l’assenza di Holmes che mi aveva lasciato senza compagnia. Holmes era uscito per una passeggiata solitaria, ed io, avendo fatto ritorno a Baker Street solo da un mese, non avevo ancora terminato di traslocare i miei libri dallo studio di Kensington e perciò ero completamente sprovvisto di letture fresche. Non trovando di meglio da fare, ero andato a letto.
Mi trovavo nel sonno più profondo, quello tra due e le tre del mattino, quando fui svegliato da un contatto inaspettato e non del tutto gradevole. Ciò che avvertii fu una “cosa” fresca e viscida, benché asciutta, che si insinuava sotto la mia camicia da notte e strofinava con delicata insistenza una porzione sempre maggiore e più alta della mia gamba destra. Quando ripresi coscienza le “cose” erano diventate due, e una si era attorcigliata mollemente intorno al polpaccio, mentre l’altra proseguiva la sua scalata sopra il ginocchio. Sobbalzai nel letto ed emisi un breve suono strozzato, sorpreso, scalciando istintivamente per liberare la gamba dalla stretta, che si allentò dapprima, poi si avvinghiò con più decisione intorno alla mia caviglia. Il piede destro affondò in un ammasso morbido di quella stessa consistenza viscida; il sinistro, invece, colpì una superficie più robusta, per quanto a sua volta piuttosto cedevole.
Fu allora che udii un suono a metà tra uno sbuffo e un gemito, e aprendo gli occhi alla penombra vidi il mio amico Sherlock Holmes piegato in due sopra la sponda del letto, una mano premuta sull’addome. Le “cose” si ritirarono rapidamente dalla mia gamba.
“Holmes!” esclamai. “Ma che modo è di…”
“Solo un momento, dottore, se non ti dispiace” rispose lui, con una smorfia. “Non avevo idea che le arti marziali fossero incluse nell’addestramento-base dell’esercito britannico.”
“Holmes…” Scostai le lenzuola. “Sono mortificato. Lasciami vedere. Ti duole molto?” Feci per spostargli la mano dal ventre, ma Holmes scosse la testa.
“No, non qui. Sta già passando.” Un leggero scricchiolio mi indusse a spostare lo sguardo alla mia sinistra. Uno dei tentacoli di Holmes era sollevato quasi all’altezza del suo volto, e Holmes lo ruotava e fletteva intorno come per valutarne la mobilità. Poi l’appendice rimase levata nell’aria con l’estremità (corrispondente alle prime cinque ventose) piegata stranamente ad angolo retto.
“È…” esitai, mentre il mio vocabolario medico non riusciva a venirmi in soccorso, “… è rotto?”
“Non dire sciocchezze, Watson” ribatté Holmes, tagliente. Massaggiò un tentacolo con l’altro, con cautela. “Non c’è alcun osso da fratturare.”
“Contuso, allora. Lasciami…” Allungai una mano per prendere la parte lesa, ma quando ne sfiorai la superficie liscia e fredda ebbi come un moto di repulsione, e per un istante ripiegai le dita nell’incavo del palmo. Mi feci di nuovo avanti, ma troppo tardi: Holmes aveva notato la mia reazione.
“Sarà meglio che torni nella mia stanza” mormorò, sollevandosi in piedi (per quanto incongrua e inefficiente sia questa espressione per descrivere il gesto che compì).
“Holmes, no.”
“Mi dispiace di averti spaventato. Non intendevo disgustarti. Se avessi riflettuto più a lungo, mi sarei reso conto di quanto questa fosse, in effetti, una pessima idea. Buona…”
“Holmes, non dire sciocchezze” ribattei, prendendo la sua mano - una mano solida e calda, umana. “Mi hai colto di sorpresa e ho reagito d’istinto, questo è tutto. Non c’è ragione per cui tu debba andare via. Per favore, accendi la lampada e lasciami vedere dove ti ho colpito.”
Holmes rimase fermo, una profonda ruga di corruccio tra le sopracciglia, visibile anche alla scarsa luce notturna. “Non è nulla.”
“Insisto.”
“Non credo sia il caso che tu mi veda alla luce.”
“Holmes, ti vedo ogni giorno.”
“Non… svestito.”
Trovavo la sua riluttanza estremamente affascinante per tutte le ragioni più sbagliate, e per questo evitai di esternare il mio sentimento ad alta voce. “L’abbiamo già fatto” gli ricordai invece, accarezzandogli la mano. “Dopo Reichenbach. Accendi la luce.”
“Proprio perché abbiamo già dormito assieme è stato stupido da parte mia non ricavarne alcuna lezione.” Tentò di ritirare la mano, ma io la tenni stretta. “Dottore, lasciami.”
“No” risposi, con un peculiare sapore di cenere in bocca. “Credevo fosse stato piacevole per entrambi. Diamine, Holmes, ne ero sicuro. E ora tu mi dici…”
Il viso di Holmes restava in ombra, quasi più scuro dell’oscurità stessa. “Piacevole, sì, è stato oltremodo piacevole” mormorò. “Se è questo che ti aspetti da un incontro con la persona che ami, che sia piacevole…”
“Holmes…”
“Il mio corpo com’è ora ti disgusta, Watson. Ti prego di non considerarlo un rimprovero: d’altra parte, è un sentimento condiviso. Mi dispiace. È stato insensibile da parte mia tentare di importi la mia presenza stanotte. Adesso tornerò nella mia stanza, e non ne parleremo più.”
Ne avevo avuto abbastanza. È estremamente raro che io faccia ricorso alla forza quando una soluzione pacifica è possibile; tuttavia, con Holmes, capita che questa soluzione pacifica si renda impraticabile più spesso che con altre persone. E anche se la mia spalla non mi ringraziò per questo, ed io sapevo che avrebbe continuato a dolermi ancora per diverse ore, mi sentii particolarmente soddisfatto della decisione presa quando Holmes fu sdraiato supino sul mio letto e reso impotente per un secondo o due.
“Posso confidare che resterai dove ti ho lasciato mentre accendo la luce, Holmes? Ti prego di non lasciarti sviare dal tono, perché questa non è affatto una domanda. È un ordine del tuo medico.”
“Oh, per l’amor del Cielo, non essere ridicolo, Watson. Mi hai solo urtato. Da come ne parli sembra che…”
Accesi la lampada, e Holmes si fece brevemente ombra agli occhi mentre le pupille si riabituavano alla luce. In maniere più nascoste, la mutazione si era estesa anche alla parte superiore del suo corpo e al sistema nervoso: per esempio, Holmes mi aveva confessato di riuscire a vedere al buio molto meglio di quanto avesse mai fatto, per quanto la sua percezione dei colori in assenza o scarsità di luce ne fosse uscita seriamente compromessa. Ma dato che la maggior parte degli esseri umani non era in grado di distinguere alcunché al buio, non mi sembrava una gran perdita.
“Che io ti abbia ferito in una maniera più crudele che con un semplice calcio, per quanto involontaria? Sì, e per questo ti chiedo di perdonarmi. Ora aiutami a mettere a tacere la voce della mia coscienza, se non ti dispiace. Qual è?”
Holmes si tirò a sedere sul letto, gli otto tentacoli sospesi oltre la sponda. Per quanto in maniera asistematica e poco approfondita, li avevo a mio modo studiati. Singolarmente presi, erano ognuno più debole di una gamba normale; tuttavia, poiché Holmes ne usava ben quattro per camminare, ne ricavava una stabilità e un equilibrio molto superiori alla media. Gli altri quattro, non dovendo reggere il suo peso, erano visibilmente meno sviluppati: più sottili e delicati, con la pelle meno spessa e più facilmente esposta a graffi e bruciature. Quando era in casa, Holmes li utilizzava come mani supplementari, il che ritengo facilitasse di molto il suo lavoro al tavolo di chimica. Dico “ritengo” perché non posso esserne assolutamente certo: Holmes evitava di mostrarmi la sua parte mutata quanto più spesso possibile, e avevo dedotto le nuove peculiarità del suo comportamento solo da incursioni non annunciate all’appartamento di Baker Street e da incontri casuali nel salotto in piena notte.
Il resto del giorno, Holmes nascondeva la parte inferiore del suo corpo in una speciale protesi che Mycroft gli aveva fatto costruire appositamente in Francia. Con i pantaloni addosso, l’illusione era pressoché perfetta, e se qualcuno poteva obiettare che il modo di camminare di Holmes era faticoso e innaturale, ecco pronta alla bisogna la tremenda storia di come alle cascate di Reichenbach si fosse quasi spezzato la schiena, e solo per miracolo, dopo lunga convalescenza, fosse riuscito a rimettersi in piedi e riprendere a camminare. Una tremenda storia, sì, ma preferibile alla verità, che avrebbe distrutto la sua reputazione e il suo lavoro. E, per estensione, la sua vita.
Ciò che Holmes pensava della situazione era scritto a chiare lettere sul suo volto; ciò nonostante, sollevò lentamente l’appendice e la stese nella mia direzione. La presi con delicatezza ma stavolta senza esitare. Era fresca, giacché la temperatura dei tentacoli di Holmes era sempre inferiore al resto del corpo; qualcosa a che fare con la circolazione sanguigna, indubbiamente. Il dorso era di un viola piuttosto scuro e vivo, quasi nero; le piccole ventose che costellavano il palmo - lo chiamerò così, in assenza di una definizione più precisa - erano mobili e dalla consistenza non viscida ma elastica. Si contraevano e riaprivano debolmente, a scatti, come seguendo minuscoli riflessi condizionati.
“Male?” domandai, massaggiando delicatamente, come avrei fatto con un polso contuso. In verità non avevo la minima idea di cosa distinguesse un tentacolo sano da uno ferito; non possedevo nozioni di malacologia, a parte le sporadiche informazioni che si mettono insieme da ragazzo andando a pesca con gli amici.
“Watson, per l’ennesima volta: sto bene. Non…”
Pensando di aver forse colpito il palmo del tentacolo piuttosto che il dorso, lo voltai e passai i polpastrelli sulla serie di ventose, la prima delle quali era più piccola dell’unghia del mio mignolo. La quinta o sesta, tuttavia, era sufficientemente grande da accogliere al suo interno la punta di un dito, e nel toccarne la superficie scivolosa il mio indice vi rimase prigioniero per una frazione di secondo. La ventosa vi si contrasse violentemente intorno, e così tutte le altre, poi la stretta si rilasciò e Holmes si ritrasse come scottato.
“Cosa? Ti ho fatto male?”
“No” rispose Holmes. Aveva un leggero rossore diffuso sulle guance. “Ma ti pregherei di non rifarlo.”
“È sgradevole?”
Holmes fissò con particolare attenzione lo sguardo sul comodino e la lampada. “No.”
“È…”
“Adesso che hai potuto constatare che sono sano come un pesce, se mi passi la pessima battuta,” aggiunse con un certo humour nero, che non gli era mai stato del tutto estraneo, ma che pareva essersi sviluppato in dosi massicce dopo Reichenbach, “posso sperare di riuscire a tornare nella mia stanza, dottore?”
“Francamente non ne vedo la necessità. Spengo la luce, se preferisci” offrii. “Ma non credere che per me faccia qualche differenza.”
Ero sincero, e Holmes doveva saperlo, ma questo non parve sciogliere il nodo di dolore nel suo petto; semmai, stringerlo ancora un po’. Qualsiasi cosa dicessi o facessi ultimamente sembra tendere in quella direzione, e iniziavo segretamente a disperare di ritrovare il mio amico nel guscio mutato e impenetrabile che aveva fatto ritorno dalla morte. “È certo molto nobile da parte tua…”
“No, non lo è. Non è nulla del genere, Holmes.”
“… offrirti di sacrificare te stesso per convincermi che tutto è come prima, Watson. Non credere che io non l’apprezzi. Difatti, lo apprezzo. Lo apprezzo immensamente, così tanto che non so esprimertene la portata. Ma è impossibile, mio caro. Niente è come…”
“Holmes, lo so” lo interruppi, con impazienza. “Stai fraintendendo.”
“No, Watson, non lo credo.”
“Non lo credi mai, eppure nel grande carnet delle cose possibili c’è anche questa eventualità” ribattei, agguerrito.
Holmes rimase in silenzio per un istante. “Senza dubbio” mormorò.
Mi alzai in piedi, dirigendomi alla porta col proposito di chiuderla a chiave; tuttavia scoprii che Holmes vi aveva già provveduto. Naturalmente, pensai, mentre dormivo. Approfittai della nuova distanza per studiare il mio amico nella sua interezza. Per la metà superiore era sempre lo stesso, benché il suo colorito si fosse fatto ancora più pallido; la vestaglia e la camicia da notte, poi, coprivano gran parte del corpo. I tentacoli erano raccolti compostamente in un fascio ordinato oltre la sponda del letto. Nonostante fosse così mutato, la postura era sempre la sua, con la schiena diritta e il mento alto, leggermente guardinga.
Sospirai. Capita a volte, quando si hanno troppe cose da dire, che non si riesca a dirne nessuna; in quell’estate del ’94 mi capitava fin troppo spesso. Alla fine abbandonai la lunga e puntuale argomentazione che avevo preparato per giorni nella mia mente e mi decisi a dire l’unica cosa che sembrava importare al momento.
“Io ti amo, Holmes, forse più di prima. I miei desideri non sono cambiati. Il tuo corpo è cambiato, e in tanti aspetti mi è alieno, tuttavia credo che l’abitudine migliorerà le cose, se solo mi darai modo di provartelo. Non posso darti la mia parola che sarà un successo, ma sono più che disposto a tentare. Ti prego di non pensarlo come un sacrificio da parte mia, quanto più un… esperimento.”
“E tu vorresti essere la cavia di questo esperimento?” disse Holmes, piano.
“Preferirei pensarmi come un libero volontario.”
“Che succederà se l’esperimento dovesse fallire?”
“Decideremo insieme il da farsi.”
Holmes scosse la testa, ma mi sembrò combattuto. Tornai vicino al letto e mi piegai sui talloni, le ginocchia quasi a contatto con i tentacoli, che egli prontamente ritrasse. Le mie articolazioni diedero uno scatto leggero.
“Ti ho osservato, Holmes. Passi in casa la maggior parte delle tue giornate, e quando esci è solo per sfinirti camminando senza sosta da una parte all’altra della città.”
“Mi hai seguito?” domandò Holmes, con una lieve punta di curiosità, ma senza sorpresa.
Scossi la testa. “Te ne saresti accorto. Non sono capace di alcuna deduzione degna di questo nome, ma lo stato delle tue scarpe e dei tuoi calzoni parla da solo. Non stai seguendo alcun caso. Hai rifiutato un cliente dopo l’altro da quando l’ultimo della banda di Moriarty è stato assicurato alla giustizia, e sono tre mesi ormai. Non è solo noia. So” esitai, ”che hai pensato di ritirarti.”
I lineamenti di Holmes si indurirono. “Non puoi aver dedotto una cosa del genere dal fango sulle mie scarpe, Watson.”
“No” ammisi. “Ho visto la lettera sul tavolo, e l’ho letta. Mi dispiace.”
Holmes distolse lo sguardo, stringendo le labbra in una riga sottile.
“Ti chiedo scusa. Non è mai accaduto prima e non accadrà in futuro. Ma Holmes, non serve un genio per capire che sei profondamente infelice. E anche se non ho la presunzione di credere che un millesimo di questa infelicità mi riguardi, penso che… se posso in qualche modo alleviare…”
“Ah, Watson” mormorò Holmes, riportando i suoi occhi grigi su di me. “Mio caro Watson. Il mio Boswell.” Mi prese il viso tra le mani e mi baciò.
Nessuna persona di mia conoscenza è mai stata in grado di procurarmi un tale sconvolgimento dei sensi con un contatto così breve. L’autorità e la ferma coscienza di sé che tanto caratterizzavano il mio amico non venivano meno nei momenti più intimi; ma quando egli riusciva a infondervi anche l’inesauribile passionalità che era il vero motore e il fuoco del suo essere, allora stentavo a credere d’essere vissuto trent’anni senza conoscerlo - senza, follia!, avere bisogno di lui.
“Spegni la luce” bisbigliò.
“Voglio vederti.”
“Non questa volta.”
Obbedii, e piombammo in un buio denso e lento a diradarsi. Holmes, la cui vista non era limitata dall’oscurità, mi prese la mano. Si era alzato dal letto, eppure a parte il cigolio del materasso non aveva prodotto il più piccolo rumore. Distrattamente pensai che questa sarebbe potuta diventare una formidabile arma al servizio delle sue investigazioni.
Ci baciammo una seconda volta, ma Holmes rimase fermo al suo posto, rigido, i tentacoli raccolti in due robuste colonne sotto il bacino, come pronti a infilarsi dentro la sua protesi bipede. Li sentivo contro le gambe nude e sapevo che la posizione gli riusciva fortemente innaturale. Poiché la proposta era stata mia, e le mie reazioni sarebbero state l’ago della bilancia su cui misurarne il fallimento o la buona riuscita, mi feci avanti.
“Sentiti libero di muoverti come preferisci, Holmes” dissi baciandogli uno zigomo. “Non è altrettanto facile impressionarmi da sveglio, te l’assicuro.”
Holmes sembrò rilassarsi, almeno in parte. Erano passati giorni, e l’evidenza del reciproco desiderio era ovvia per entrambi. Questo, almeno, non era in discussione.
Poi, con la massima lentezza ed esitazione, mi sentii accarezzare la caviglia. Se avessi reagito di nuovo come nello sfortunato incidente che aveva precipitato così malamente le cose, avrei rischiato di perderlo per sempre. Tuttavia, nonostante la sensazione fosse strana e inaspettata e da principio non del tutto gradevole, non mossi un muscolo. L’arto era freddo, e il contrasto col tepore delle mani di Holmes mi sembrò sconcertante per un secondo. Ma, ricordai a me stesso, non più freddo di un piede o di una mano, e comunque si sarebbe riscaldato.
Quando mi raggiunse il ginocchio avevo già fatto pace con la sensazione, man mano che essa diventava più tiepida e intensa. Devo sottolineare a questo punto che il tocco di Holmes è sempre stato estremamente abile e attento, e non c’è mutazione che possa cambiare questo fatto. Quando virò verso l’interno della coscia, allargai le gambe per lasciargli tutto lo spazio che desiderava, e per dimostrargli che non avevo remore a un contatto più intimo.
“Non spaventarti, adesso” mormorò Holmes.
“Certamente n-ah!” esclamai, sussultando. “Cosa…?”
Era stata una sensazione particolarissima, come di un morso o di un pizzicotto, ma più delicata, e a ben pensarci più simile all’effetto di un morso coi denti coperti dalle labbra.
“No?” domandò Holmes. La pressione svanì.
“No, è… Di nuovo, se non ti dispiace.”
La sensazione tornò, ma in un punto più alto, quasi all’attaccatura dell’inguine. Svanita la sorpresa iniziale, si rivelò sorprendentemente piacevole; quasi troppo. Mi ritrovai a pensare che non avrebbe dovuto esserlo così tanto.
“Credo che dovrei liberarti da questo inutile impedimento” disse Holmes, raccogliendo l’orlo della mia camicia da notte nelle mani, ma di fatto limitandosi a sollevare la stoffa senza accennare a spogliarmi del tutto. Un secondo tentacolo risalì in una lenta carezza la mia gamba e si avvolse languidamente intorno all’esterno della coscia, depositandovi quella che, alla cieca, mi sembrò una lunga trafila di baci.
“Holmes…” iniziai, ma una mano del mio amico si fece strada giù lungo il fianco e mi strinse una natica con decisa bramosia, gesto che portò il mio bacino a contatto col suo ancora coperto dalla stoffa.
“Sì, mio caro?” mormorò, e avrei giurato che la sua voce avesse l’ombra di una particolare nota compiaciuta che non sentivo dal ’91.
Per tutta risposta strappai l’orlo della camicia da notte dalle sue mani e me la sfilai dalla testa, gettandola sul pavimento. Quando tentai di fare altrettanto con la sua, però, Holmes oppose resistenza.
“Non… credo sia il caso, Watson.”
“Non c’è niente che non abbia già visto, Holmes” lo rassicurai.
“Ugualmente, io…”
Lo spinsi disteso sul letto alle sue spalle. Ho già accennato al superiore equilibrio che Holmes ricavava dagli arti supplementari guadagnati con la mutazione; e tuttavia, forse per la sorpresa, non mi fu difficile avere ragione delle sue proteste per la seconda volta in meno di un’ora.
“Oserei dire, amico mio, che se invece c’è qualcosa che non ho già visto, è questo il momento di rimediare a una simile mancanza.” Montai sul letto, e sul mio amico. Al minimo tentativo di scaricarvi sopra un po’ di peso, la spalla destra mi mise in guardia con una fitta di dolore acuto, per cui lo spostai quasi interamente sull’altro lato. Con la mano destra sollevai l’orlo della sua camicia da notte di qualche centimetro, ma Holmes mi afferrò il polso.
“Watson. Per favore.”
Normalmente non avrei insistito; nessuno meglio di me sapeva che un uomo ha diritto a vergognarsi del proprio corpo quanto e come gli aggrada. Ma Holmes non doveva pensare che io provassi vergogna o ribrezzo, non adesso che lasciargli credere una cosa del genere mi avrebbe nuovamente respinto fuori dal suo cuore.
Sollevai la mano e quella di Holmes con la mia, ancora attaccata al mio polso, e baciai il dorso di ogni singolo dito, finché la stretta non si aprì.
“Sono sempre stato onesto con te, Holmes” mormorai, sulla sua pelle. “Mi devi una risposta sincera.”
“Dio sa che te ne devo più d’una” rispose Holmes, facendo scorrere le dita sul mio zigomo.
“C’è qualcosa… Voglio dire. C’è una ragione particolare per la quale non vuoi spogliarti in mia presenza? La mutazione…?” Lasciai la domanda nell’aria, e attesi la risposta con timore.
Il nostro precedente incontro, che avevo avuto il malaugurato estro di definire “piacevole”, era stato un momento frettoloso e carico di urgenza e vergogna inespressa. Holmes mi aveva dato piacere con la bocca e aveva finito nella sua mano. Il contatto si era ridotto allo stretto indispensabile e - Holmes aveva ragione - per quanto “piacevole”, non era stato del tutto soddisfacente. Questo aveva accresciuto il mio desiderio di ristabilire col mio amico ciò che un tempo, scherzosamente, avevo chiamato “le buone abitudini”; ma d’altra parte mi aveva riempito dell’inesprimibile terrore che il peggio dovesse ancora arrivare.
“No” disse Holmes. “Posso consolarmi al pensiero che hai già visto quanto di peggio c’è da vedere. La parte in questione mi è stata… risparmiata.”
“Allora perché…” cominciai, il sollievo forte e chiaro nella mia voce.
“Watson, per l’amor di Dio, non puoi lasciarmi stare? Ti chiedo solo questa piccola grazia. Non ti negherò nient’altro, non temere.”
Gli baciai la bocca, le guance, la mascella affilata, la gola che pulsava allo scorrere del sangue e tremava debolmente intorno al pomo d’Adamo. Non credevo che avrei mai visto Holmes vicino alle lacrime, e perciò preferii pensare che fosse uno strano baluginio dato ai suoi occhi dalla luce lunare.
“No” sussurrai. “Non posso tollerarlo. Che tu, tra tutti gli uomini, mi ritenga una persona così superficiale e crassa da battere in ritirata alla vista del tuo corpo, mi offende e mi ferisce più di qualsiasi insulto.”
Holmes aprì la bocca come per replicare, ma non uscì alcun suono. Potevo contare sulle dita di una mano le volte in cui il mio amico era rimasto senza parole; non tutte erano state opera mia.
“Hai pensato una cosa del genere?” domandò infine, piano. Non attese risposta. “Mi dispiace. Non è questo.”
“E cosa, allora?” Holmes alzò una mano verso il mio viso ed io la baciai, in preda a una strana frenesia di scoprire e toccare e riverire ogni parte del suo corpo, partendo dalla più familiare per finire con ciò che mi era ancora ignoto. “Di qualunque cosa si tratti, puoi condividerla con me, Holmes. Fidati di me.”
Holmes si portò il braccio al volto, coprendo gli occhi. “È una questione da nulla. Mi pare un insulto a ogni canone estetico degno di questo nome accostare a un corpo così atleticamente ben fatto - una meraviglia del creato soprannumeraria, senza dubbio - un patetico, rivoltante ammasso di…”
Gli chiusi la bocca con una mano, scostando il braccio dal suo volto con l’altra. La gamba ferita a Maiwand iniziava a pulsare. Avrei dovuto cambiare posizione, ma prima dovevo assolutamente chiarire un punto. “Non c’è - e non c’è mai stato - nulla di patetico o di rivoltante in te, Holmes. Rispetterò la tua decisione, se è questa, ma non osare credere che faccia qualche differenza per me.”
Holmes doveva essersi accorto del fastidio che mi procurava la gamba, perché la prima cosa che fece fu spingermi disteso sulla schiena. Si sollevò su un gomito per guardarmi negli occhi. Pensai che mi avrebbe detto qualcosa, invece tornò a baciarmi, appoggiandomi un palmo caldo al centro del petto. I tentacoli sul lato destro del suo corpo si aprirono sopra e intorno alle mie gambe in una carezza lenta e continua e niente affatto sgradevole.
Allungai una mano in quella direzione, sfiorandone la pelle incredibilmente liscia; il contatto alieno mi procurò un brivido di aspettativa e - anche se non posso esserne certo - credo che provocò una simile reazione nel mio amico.
“Dunque. Se non erro, questo ha prodotto qualche buon esito” mormorò Holmes, infliggendomi un piccolo morso all’interno della coscia con una ventosa. Sentii la pelle pizzicare e istintivamente mossi la mano in quella direzione, ma mi trattenni in tempo. Un tentacolo sottile strisciò sul mio bacino e si inerpicò e avvolse con crescente sicurezza intorno alla mia virilità, applicandovi una leggera pressione delle ventose, ma sempre con la massima delicatezza. La precisione con la quale il mio cervello aveva, fino a quel momento, distinto le varie percezioni sensoriali andò sgretolandosi e amalgamandosi in un insieme di stimoli progressivamente più confuso.
“Holmes…” tentai, ma una delle ventose più piccole aveva preso d’assalto l’estremità gonfia e arrossata del mio membro, e la sottilissima punta di un tentacolo si era impegnata in attività che non intendo descrivere in questa sede. Risucchiai un po’ d’aria in gola, incapace di parlare.
“Sono certo per esperienza di prima mano che non è doloroso” bisbigliò Holmes, e c’era della cauta soddisfazione nella sua voce. Cercai di non immaginare l’esperienza a cui alludeva, ma fallii miseramente, e il pensiero mi si marchiò a fuoco nel cervello.
La mia idea era stata di fare gentilmente l’amore con Holmes, vincere le sue reticenze e la sua vergogna, ma non mi sentii frustrato quando il mio compagno vanificò i miei piani e ribaltò completamente le mie aspettative, come spesso faceva, esigendo il pieno controllo. Non so se imputarlo ai lunghi anni di solitudine o alla desolazione che erano state le ultime settimane o ancora alle mille sensazioni aliene e potenti che sperimentavo quella notte per la prima volta, ma è certo che mi abbandonai a lui con raro trasporto.
Mentre un tentacolo continuava a prendersi eccellente cura della mia erezione, in una stretta sempre più esaltante e scivolosa che, con più esperienza, avrei imputato alle leggere secrezioni inodori che le ventose potevano rilasciare a comando, Holmes si spostò silenziosamente sul mio corpo, attaccandolo da ogni fronte. Ebbi le sue labbra sulla bocca e poi sul collo, le mani sul petto e le spalle; una piccola ventosa particolarmente audace mi attaccò un capezzolo con un morso che era anche un bacio e mi fece trasalire. Un tentacolo si insinuò nella curva del mio ginocchio e vi fece leva e lo sollevò, scostando la gamba verso l’esterno, mentre un altro o forse l’estremità dello stesso - diventava sempre più difficile distinguere - si faceva strada alla base del mio corpo. Si mantenne ai margini dapprima, torturandomi con lievissimi morsi delle ventose, poi entrò con una facilità che mi sconvolse, non tanto per qualsiasi facilitazione fosse derivata dalla mutazione, quanto perché non avvertivo la minima tensione in me, il minimo nervosismo. La minima ripugnanza.
Dovevo essermi tramutato in una persona estremamente perversa, se potevo fare una cosa del genere senza avvertire alcun disgusto. Mio Dio, non era nell’ordine naturale delle cose.
Il pensiero colpì e affondò, annidandosi ferocemente nel mio stomaco. Mi salì un conato di vomito, che repressi all’istante, ma non così rapido perché Holmes non se ne accorgesse.
“Watson” sibilò, interrogativo, secco come lo spezzarsi di un ramoscello.
“Scusami” dissi subito.
“Watson” ripeté, iniziando a ritirarsi da me, ad abbandonarmi.
Passai una gamba intorno alla sua schiena, disperato di perderlo. “Non è niente” mormorai, con urgenza. “Resta con me.”
“La tua faccia, pochi istanti fa…”
“Ti sto implorando, Holmes, se mi tieni in qualche riguardo, dimentica pochi istanti fa.” Lo baciai di prepotenza, un atto che non mi è consueto, perché la risposta del proprio compagno tende a essere forzata e sminuita dalla sorpresa e della naturale resistenza. Ma Holmes si lasciò condurre da me, brillantemente, e a metà del bacio sentii che disponeva il mio corpo secondo la sua preferenza, con le mie gambe alte sopra le sue spalle. Il lieve bruciore dei muscoli che si tendevano oltre il consueto mi diede un improvviso sollievo. Sentii la pressione in basso diminuire e poi d’improvviso aumentare con una contrazione giustamente dolorosa, magnifica e familiare, che si distese fino alla completezza.
Holmes ruppe il bacio, esalando un respiro umido sulla mia gola, e non si mosse oltre. Una goccia di sudore mi rotolò giù da un sopracciglio.
“Devi essere pazzo” ansimai, “per aver creduto che intendessi rinunciare a questo.”
“La mia arroganza è senza pari” mi sentii rispondere, in un suono convulso, una specie di singhiozzo liberatorio. “Ma sarei morto se l’avessi creduto davvero.”
Prima di Reichenbach, Holmes aveva preso l’abitudine di dormirmi addosso. Si era rivelato piuttosto piacevole, dopo un breve periodo di assestamento: il corpo di Holmes è sempre eccezionalmente caldo, una rara comodità durante l’inverno.
Quella notte giacemmo vicini per qualche tempo, abbracciati, pigramente soddisfatti. Nessuno dei due aveva voglia di parlare, né di alzarsi, perciò ignorammo lo stato pietoso delle lenzuola e preferimmo fumare insieme in una pace deliziosa, irreale. Mi stavo quasi assopendo quando sentii che Holmes si alzava, e lo chiamai.
Mi disse che andava solo a prendere un paio di asciugamani; mi sembrò sincero e rilassato quanto me, perciò lo attesi senza ansia, e quando tornò, parecchi minuti dopo, mi trovò addormentato. Mi risvegliai con un vago senso di colpa, ma il sonno mi chiamava e non avevo la forza di ribellarmi. Holmes mi baciò nel buio mentre mi aiutava a ripulirmi ed io invero non lo aiutai affatto, quasi fossi un invalido ed egli la mia infermiera.
“Lascia stare” mormorai, tendendo un braccio nel buio. “Ci penseremo domani.”
“Cosa dirai a Mrs. Hudson domani, mi chiedo.”
“Nulla, e non chiederà. Vieni. Ho freddo…”
Tornò a letto, ma l’interruzione sembrava aver danneggiato la serenità di qualche tempo prima, perché Holmes si voltò tutto verso la sponda, rigido e composto, i tentacoli raccolti vicini al corpo. Lo inseguii, passandogli un braccio intorno alla vita, d’improvviso meno assonnato e più preoccupato.
“Sono felice che tu sia venuto nella mia stanza, stanotte” mormorai massaggiandogli un braccio attraverso la camicia da notte.
Holmes non rispose, né si mosse.
“Mi dispiace se qualcosa non è andato come speravi. La prossima volta, certamente…”
Mi interruppi, perché stavo dicendo solo sciocchezze.
“Non andare via” gli dissi all’orecchio. “Resta con me. Dio sa se posso permettermi di perderti ancora.”
Mi voltai dal mio lato, coprendomi fino al naso per arginare un senso di freddo improvviso.
Mi svegliai di nuovo che era quasi l’alba, quell’ora pigra in cui ci si può ancora rigirare per conquistare un’altra ora di sonno, ma io non potei rigirarmi. Non potei muovermi affatto. Holmes mi dormiva sulla spalla, i tentacoli comodamente aperti a ventaglio sulle mie gambe, mollemente attorcigliati intorno alle mie caviglie.
Chiusi gli occhi con un sospiro contento e me ne tornai a dormire.