[RPF] Tanto, con tan poco (DDRRLL)

Sep 22, 2011 18:40

Titolo: Tanto, con tan poco
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Daniele De Rossi/Marco Borriello
Rating: PG14
Conteggio Parole: 2184 (fidipu)
Avvertimenti: slash, linguaggio, Borriello
Note: brahurricane
- Si fa riferimento a Inter-Roma, giocata a San Siro sabato scorso, e poi, vagamente, la prima scena è ispirata a questa foto. *giggles*
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Tanto, con tan poco.

Daniele è alla sua seconda birra, o forse è già la terza, ma il fatto di aver probabilmente perso il conto non riesce a preoccuparlo come dovrebbe. È uscito di casa con l’intenzione di essere contento, o meglio: lui è uscito di casa, dal suo personalissimo tempio, e poi Leandro e Nicolás gli hanno fatto giurare sulla sua testa che sarebbe stato contento, almeno per un po’. Per cui, è contento. Stravaccato comodamente in un divanetto basso di pelle, morbidissimo contro la schiena, Daniele è contento, davvero.
Il locale intero sembra pulsare dal pavimento alle pareti a tempo con i bassi densi di una canzone che lui non riconosce, ma che neppure gli dispiace. Le luci soffuse lo aiutano a restare rilassato, a seguire i contorni spessi delle ombre che inseguono i tacchi vertiginosi delle ragazze, le gambe sottili, lunghe chilometri, e il loro tavolo è nascosto, appartato in un angolo, perciò nessuno riesce veramente a prestar loro attenzione. Daniele è rimasto solo da un po’, perché i ragazzini sono scappati in pista a scatenarsi e gli altri saranno andati a raccattare altre schifezze da bere, ma non gli pesa per nulla, anzi, se ne sta lì tranquillo, col suo cappello di lana e la sua birra e la sua insolita contentezza e ci sono giorni in cui pagherebbe tanto oro quanto pesa per poter avere anche solo un momento così.
Non ha voglia di essere Daniele, per adesso.
Marco spunta fuori dal nulla, o meglio, da dietro un angolo, e si avvicina camminando piano, ancheggiando appena, come a sfottere l’incedere maldestramente elegante delle ragazze. Daniele lo guarda con giusto l’ombra di un sorriso sulle labbra, e gli fa cenno di venire a sedersi con lui sul divano. Marco si lecca le labbra, appoggia un cocktail colorato di viola sul tavolino basso accanto al bracciolo e si lascia cadere forse mezzo millimetro più in là di Daniele, e quando accavalla le gambe appoggia un piede di piatto sul suo ginocchio.
«Ti vedo contento,» dice, piegando la testa di lato. Daniele non lo guarda davvero, ma beve un altro sorso di birra e si concede di appoggiargli una mano sul polpaccio che Marco così gentilmente gli offre, e lo accarezza piano, seguendo col pollice la cucitura del jeans chiaro che indossa, precipitando fino alla caviglia e poi risalendo e spostandosi in avanti, sistemandoselo ancora di più addosso. Marco ride piano, gli si avvicina ancora. «Il posto ti piace, no?»
«Mi piace,» annuisce Daniele, e lo guarda, e Marco è vicinissimo e gli sorride, da sotto in su. Daniele è accaldato, un po’ per la birra e un po’ perché è vestito pesante e un po’ perché Marco gli fa quest’effetto, sfortunatamente. Sbuffa una risata divertita, esasperata, e il sorriso di Marco s’allarga appena, si ammorbidisce, forse.
Daniele vorrebbe dirgli qualcosa, tipo che magari potrebbero tornare a casa, e che la sua macchina ha i vetri oscurati per cui in effetti non c’è neppure bisogno di arrivare fino a Campo de’ Fiori, o che, proprio volendo ridurre al minimo i tempi di attesa, ci sono pur sempre i bagni del locale, però Marco si volta dall’altra parte, allunga un braccio e, anzi, si tende tutto quanto verso sinistra, così tanto che Daniele sposta la mano dal suo polpaccio alla coscia per tenerlo lì, per impedirgli di cadere o di rompersi o Dio solo sa cosa. Marco lo guarda con la coda dell’occhio per un attimo appena, sorride, e quando torna a sedersi composto regge tra due dita una ciliegia innaturalmente grossa, sporcata di un liquido quasi vischioso che a giudicare dal colore fosforescente dev’essere il cocktail di Marco.
Daniele fa una faccia perplessa, Marco arriccia le labbra all’insù e prende la ciliegia tra i denti, staccandola dallo stelo. Rimane lì fermo, come in attesa, poi inclina un po’ la testa di lato e Daniele capisce, sgrana gli occhi, chiude la distanza tra le loro bocche e lo bacia, senza neppure pensarci, e non oppone la minima resistenza quando, nel bacio, Marco gli preme la ciliegia tonda contro la lingua. Ha un sapore tremendo, troppo zuccheroso, quasi caramellato, e un retrogusto di alcol che gli fa girare la testa, ma Daniele la accetta comunque, la morde, la nasconde contro una guancia e cerca più pienamente la bocca di Marco, che quella è buona di certo, pure dopo tutti i disgustosi beveroni alle more e mandarino dell’universo.
Quando si separano, Marco tiene gli occhi socchiusi ed è praticamente seduto a cavalcioni di Daniele, le braccia strette al suo collo e un sorriso sornione appena accennato sulle labbra. La ciliegia è di nuovo nella sua bocca, peraltro, e Daniele è decisamente contento di non averla dovuta mandar giù. Gli accarezza i fianchi, le cosce, sorridendo quando lo sente gemere piano e andare incontro al suo tocco, ma prima che possa dirgli qualcosa - prima che possa ricordarsi che sono in un locale, Cristo di Dio, per quanto semibuio e poco affollato è comunque un luogo pubblico perciò non esattamente il posto ideale per strusciarglisi addosso, - sente un chiasso immane di risate e bicchieri a tintinnare contro altri bicchieri che s’avvicina. Marco si scioglie dall’intreccio delle sue mani e delle sue braccia, lo scavalca ancora e si siede, guardando curioso l’armata dei loro compagni di squadra che avanza con poca grazia dal buio.
«Facciamoci una foto, raga’,» ride Erik, buttandosi tra Daniele e Marco e quasi rovesciandosi addosso mezzo litro di Cuba Libre. Si strizzano tutti sul divanetto, in qualche modo, per questa benedetta foto, e Daniele sa di avere un’espressione cretina, ma la colpa è della birra, della ciliegia, delle dita di Marco che gli toccano una spalla.

*

Daniele si sveglia e non sa che ore sono, non sa neanche se è sera o mattina, non sa neanche se ha dormito davvero, ma in mezzo alla confusione del primissimo dormiveglia, sballottato dal sonno come fosse su una nave, si rende perfettamente conto del fatto che è solo, nel letto, ed è una sensazione insolita, spiacevole. Rotola sulla schiena, tentando di schiarirsi le idee, e senza neppure accorgersene mugola, irritato. Una carezza leggera gli sfiora una guancia, scende piano sul collo fino a raggiungergli il petto, due dita gentili e stronze gli stuzzicano un capezzolo e dal grosso anello di metallo, freddo come una nevicata, Daniele capisce che è Marco, e che s’è vestito.
Perché s’è vestito?
«Dormi,» gli dice la voce di Marco, appunto, da qualche parte vicino alle sue labbra. Daniele neanche apre gli occhi, ma solleva la testa dal cuscino in quella direzione, cercando la sua bocca. Marco ride piano, lo bacia, appoggiandosi al materasso con entrambe le mani, ora. Daniele gli stringe le braccia al collo, pretende la sua lingua contro la propria e poi, quando non ce la fa più a trattenere il fiato, gli morde il labbro inferiore, allontanandosi così poco che praticamente non si muove.
«Buongiorno,» dice, e Marco sorride contro di lui, chiude gli occhi. «Perché sei vestito?»
«Devo andare a prendere mamma alla stazione,» Marco lo bacia di nuovo, brevemente, ora, e Daniele sospira, si lascia cadere sul letto. Mamma, giusto, pensa, stropicciandosi gli occhi con una mano.
«Se vuoi t’accompagno,» mormora, mentre Marco fa il giro del letto per andare ad infilarsi le scarpe.
«Già sono in ritardo, Dani,» ridacchia, come se si volesse scusare. Daniele si volta un po’ tra le lenzuola e lo guarda: camicia giallo canarino sbottonata su una canotta nera, jeans chiaro consumato sulle ginocchia, occhiali da sole rotondi, con le lenti viola, appesi ad una tasca. Si è chiaramente impegnato.
«E vabbè,» concede, stiracchiandosi piano. Marco si ferma, chino sulle ginocchia, e dopo un momento sorride tra sé. «Magna quarcosa pe’ strada, pe’ colazione, sì?»
«Sì, sì,» scuote la testa, fintamente esasperato. «Dani, sto andando da mamma, non so se hai presente. Di sicuro a digiuno non ci rimango.»
Daniele dà un mugolio poco compromettente e poi Marco se ne va, promettendo a mezza voce, quasi imbarazzato, che chiamerà più tardi. Daniele rimane a fissare il soffitto. S’incrocia le braccia dietro la testa, sistemandosi meglio contro il cuscino, e poi dopo un po’ decide di alzarsi, anche se è tanto presto da far schifo, perché gli dà fastidio stare a letto da solo.
All’inizio, Marco restava giusto il tempo di un pisolino dopo il sesso, e poi sgattaiolava via, che Daniele dormisse o meno, a volte baciandolo, a volte no. Era facile e piacevole e riusciva quasi a sembrargli giusto, allora, perché non è niente, no?, quello che fanno. Non è niente, non era niente, dunque non c’era nessun motivo perché Marco restasse.
E poi, una sera, Daniele gli è crollato addosso, esausto, e si è addormentato così, mezzo buttato su di lui, e Marco forse era stanchissimo anche lui, forse non ha avuto cuore di svegliarlo e calciarlo via, ma sta di fatto che non s’è mosso, e la mattina dopo Daniele si è svegliato con la bocca premuta contro la sua nuca, e allora Marco ha smesso di andarsene.
Daniele si fa la doccia, telefona a casa di Tamara per sentire Gaia prima che vada a scuola, mangia latte e cereali guardando i notiziari sportivi e le repliche di telefilm vecchi di cent’anni che non lo annoiano mai. Si sta cucinando un pranzo leggero prima di andare agli allenamenti pomeridiani, quando il cellulare si mette a squillare, e Daniele, quando risponde e sente Marco ridere per chissà cosa, si rende conto di aver trascorso la mattinata ad aspettare di sentirlo.

*

«Te l’ho mai detto che hai un senso dell’abbigliamento imbarazzante, Marcolì?»
Marco scoppia a ridere, posa una sciarpa turchese brillante e ne prende una arancione, decorata con una fantasia di larghe foglie di vite e piena di frange.
«Pensavo che ti piacesse come mi vesto,» dice, ed è così distratto che si dimentica persino di ammiccare, ma Daniele non fa fatica ad immaginarselo. Si seppellisce le mani nelle tasche dei pantaloni e fa mezzo passo in avanti, scrutando con aria critica una cravatta glitterata.
«Non è che non mi piace,» mormora, quando è sicuro che nessuno li stia ascoltando e, soprattutto, che la cravatta non ha intenzione di strangolarlo o, peggio, annodarglisi al collo e abbattere così quel che rimane della sua virilità. «Dico solo che fai spavento.»
Marco ride di nuovo, agita una mano per aria come a scacciare un insetto molesto e poi aggancia due dita ai passanti della cintura di Daniele, trascinandoselo dietro verso una fila di cappotti dai colori sgargianti. Daniele lo segue inciampando appena nei propri piedi, guardandosi attorno come se lo stessero braccando, ed è assurdamente grato a nessuno in particolare per il fatto che l’intera popolazione del negozio sembra essersi smaterializzata, vaporizzata, annullata o comunque, insomma, non stia badando a loro.
«Vieni, mi devo provare questo.»
Marco gli mostra un pantaloncino al ginocchio color caki, pieno di fibbie inutili e tasche gigantesche, che probabilmente è la cosa più normale che Daniele gli abbia mai visto prendere in mano.
«Chi sei, e cosa ne hai fatto di Marco Borriello,» ridacchia Daniele. Marco gli tira un allegro schiaffetto sul gomito, si morde le labbra e Daniele sospira, sorride, lo segue diligentemente verso i camerini.

*

Luis Enrique mette Marco in campo quando la partita, a chiedere a Daniele, è già bell’e chiusa; lo mette in campo giusto per torturarlo, ecco. Uno schifo di partita, naturalmente, frustrante e vuota quando non è stata completamente umiliante, ma comunque chiusa, finita, archiviata, persino, nel cassetto dei fallimenti doppi ed irrecuperabili. Marco comunque trotta via dalla panchina a testa alta contro l’ostilità attonita dello stadio; pesta forte i piedi sull’erba umida, e raggiunge il suo posto con fin troppa solerzia, considerando che mezza squadra sta già pensando al momento in cui torneranno all’asciutto negli spogliatoi, e l’altra mezza ha già la testa alla prossima partita.
Daniele, dal suo nuovo posto un po’ arretrato a centrocampo, una roba che lo fa sentire molto un giocatore del Barcellona, lo guarda un po’, lo guarda molto, in realtà, seguendo la tensione dei muscoli della sua schiena e sentendo il petto contrarsi un po’ perché gli riconosce addosso una voglia incredibile di fare gol, di vincere, e sa che non gli può garantire niente, neanche un’apertura un po’ storta, neanche un’occasione di terza mano. Oggi è finita così, e la settimana scorsa pure, e gli dispiace da morire, ma che può fare, solo lui?
Si distrae a guardarlo, allora, a seguire il modo in cui la divisa candida si aggrappa alla pelle e al corpo di Marco rivelandone ogni forma, ogni curva. Quel poco che rimane della partita, per Daniele è pieno solo della stoffa fradicia che diventa trasparente sui suoi muscoli affusolati, e non arriva abbastanza in fretta il momento in cui l’arbitro fischia la fine della partita e si ritrovano sotto il tunnel, inzuppati e insoddisfatti, Inter e Roma allo stesso modo, e Marco cammina con la testa più china di tutti, e Daniele può stringergli un braccio attorno alle spalle, premere un bacio asciutto contro la sua tempia umida e andarsene così negli spogliatoi, acciaccato, invecchiato di dieci anni invece che di novanta minuti soltanto, e vuoto, però contento, e molto più di un pochino, quando Marco si volta appena nella sua stretta e preme il viso contro il suo collo, per nascondersi contro di lui.

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