[RPF] Dance away that distance

Sep 26, 2011 02:30

Titolo: Dance away that distance
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Daniele De Rossi/Marco Borriello (DDRRLL ♥), Marco Borriello/Osvaldo (Sborsvaldo), tutta 'a Roma ♥
Rating: R
Conteggio Parole: 5142 (fidipu)
Avvertimenti: slash, linguaggio, Borriello, mild angst
Note: ...non guardatemi in quel modo, sapevate tutti benissimo che sarebbe successo, prima o poi. La cena cui si fa riferimento è questa, e come potete ben notare da queste foto e da queste altre, erano effettivamente tutti in maglia bianca. A parte Nico XD <3
- I ringraziamenti (o le lagne, che ne so) fateli tutti alle mie amate Tre, ovvero, in ordine alfabetico al contrario, shizu9, perlinha, brahurricane, senza le quali non esisterebbe a) il mio amore per il DDRRLL, b) il mio asservimento al DDRRLL, c) il mio interesse (per quanto vago e fangirlistico, s'intende XD) per la Roma, d) una ragione per l'esistenza di Osvaldo. A parte il fatto che è bono da far paura, ma chiaramente Sborri è meglio.
- Un'ultima cosa divertente prima di salutarci, la moglie di Cicinho fa di cognome Borriello. LOL, eh?
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Dance away that distance.

Daniele, stasera, ha chiaramente l’intenzione di far impazzire Marco. È di buon umore, di certo perché la pizza prosciutto e funghi che gli hanno servito era spettacolarmente buona, il che è più o meno un miracolo, da questa parte della capitale, e sono due ore e mezza che continua a sporgersi verso di lui per bisbigliargli scemenze all’orecchio - una barzelletta, una storiella, un commento sull’ultimo congiuntivo che Francesco ha bruciato assieme a metà del suo stipendio per pagare la cena e un miliardo ancora di cose, - avvicinandoglisi troppo, davvero, proprio troppo, talmente tanto che Marco sente il suo respiro sulla pelle, e gli sorride, lo guarda da sotto in su, si morde la punta della lingua e ride con una spensieratezza disarmante, quasi insolita in lui, che gli illumina gli occhi. E Marco sta per uscire pazzo per la voglia che ha di baciarlo e prendere per sé tutta quest’allegria, di rubare direttamente dalle sue labbra la prossima sciocchezza gentile che Daniele vorrà dirgli. L’avrebbe fatto da un pezzo, in qualsiasi altra circostanza, perché Daniele gli si avvicina talmente tanto ogni volta che non sarebbe difficile chiudere quel poco di distanza che rimane a separare le loro bocche, le loro ginocchia, ma con tutta la squadra sparpagliata per la tavolata, mogli e fidanzate e figli al seguito, ecco, diciamo che Marco ce le ha, un paio di remore.
Per cui, sta lì seduto e si tortura da solo e, soprattutto, si lascia torturare da questo stronzo integrale di Daniele, che nove su dieci non si accorge neppure dell’effetto che gli fa e continua, imperterrito, a premersi nel suo spazio personale, così vicino che quasi tocca col naso una guancia di Marco, e mormora, mormora, la voce morbida e bassa e Marco ogni tanto cede e chiude gli occhi e immagina di essere a letto, immagina di essere da solo con lui e di avercele addosso, le mani di Daniele, di avere tutto il suo corpo addosso, non solo miseramente seduto lì accanto; immagina il respiro di Daniele lambirgli il bassoventre, piuttosto che la punta di un orecchio, e immagina di intrecciare le gambe alla sua vita stretta, di aggrapparsi alle sue spalle. Immagina, e prima che Daniele abbia finito di blaterare Marco annaspa perché ha bisogno di bere, di distrarsi, di chiudersi in bagno per una mezz’oretta al riparo dal sorriso furbo che Leandro, seduto di fronte a loro e tre persone più a destra, continua a sparargli in faccia, come se sapesse un segreto che nessun altro conosce.
«Oi,» la voce di Daniele si incrina appena in un tono un pelo più preoccupato, e Marco si volta verso di lui quasi di scatto. Se avesse dieci anni di meno, davanti all’espressione corrucciata di Daniele probabilmente sarebbe arrossito. «Tutt’apposto?»
«Sì, sì, scusami, mi sono distratto,» dice, prendendo un sorso d’acqua meravigliosamente fredda per costringersi a non pensare al fatto che, magari, con tutto che ha l’età e l’esperienza e il carattere che ha, è riuscito comunque a farsi scoppiare un piccolo incendio sul viso. Dannati gli occhi troppo limpidi di Daniele De Rossi, e la smorfia da schiaffi di Leandro. «Dicevi?»
Daniele non sembra per niente convinto che vada tutto bene, e lo guarda ancora per un po’, attento come se dovesse contargli le lentiggini praticamente invisibili che gli invadono il naso. Marco arrossisce ancora un po’, e solleva le sopracciglia per tentare di costringerlo a dire qualcosa. Daniele abbozza un sorriso quasi timido, scuote la testa.
«No, niente di che,» dice, e lo guarda lo guarda lo guarda lo guarda - a Marco sta cominciando a girare la testa, un pochino, santo Dio, è ridotto veramente male, - e poi, di punto in bianco, infila una mano sotto il tavolo, come se niente fosse, e la stringe attorno ad una coscia di Marco, disperatamente in alto. Lui, poveraccio, sobbalza, colto alla sprovvista. Sgrana gli occhi, si raddrizza tutto contro la sedia e poi salta in piedi, facendo cadere a terra il fazzoletto che teneva galantemente sulle ginocchia. Daniele lo guarda, confuso e incerto e un pochino ferito, magari, ma soprattutto sorpreso, e Marco si schiarisce la gola, tentando di far dissolvere con la sola forza di volontà il rossore che gli divora le guance.
«Devo, uh, andare un po’ in bagno,» scolla, spingendo all’indietro la sedia e sgusciando via con un’agilità sorprendente, considerando che ha buttato giù mezza bottiglia di vino rosso, per tollerare la vicinanza terrificante di Daniele, e che in effetti la pizza era buona davvero, quasi come quella di casa, e quindi l’ha mangiata intera, e s’è spazzolato pure il cornicione di quella di Erik, che notoriamente non capisce un cazzo di cibo.
Daniele balbetta una specie di suono inarticolato che probabilmente, nella sua testa, sarebbe dovuto servire ad interrompere la sua fuga, ma Marco non si lascia corrompere e a testa bassa prosegue alla carica del bagno, o perlomeno nella generica direzione in cui spera, ti prego Dio sii buono con lui perlomeno ora, che ci sia il bagno. Naturalmente, a metà della sala incappa in Francesco, che è mediamente brillo ed è già un’ora che sta cazzeggiando in giro per la trattoria, sollevando per aria i figli degli altri e dicendo stronzate alla velocità della luce. A quanto pare, è riuscito a trovare lo stereo.
«Daje Marcolì, vie’ un po’ a ballare!» dice, ridendo, gettandogli un braccio attorno alle spalle e trascinandolo via prima ancora che Marco possa anche solo tentare di fargli capire che ha un problemino un attimo più urgente di cui occuparsi. Non che servirebbe a qualcosa, naturalmente, pure se riuscisse a spiegarsi. «Guarda, semo tutti qua!»
Tutti, secondo il corrente stato di ebbrezza di Francesco, significa Fabio, Nicolás e Simone buttati un po’ a caso su dei divanetti, David che tenta maldestramente di ricordarsi i passi della macarena e Osvaldo che se la ride come un pazzo mentre gli confonde le idee e tenta di convincerlo che ci sia da fare una giravolta col casquet tra un ritornello e l’altro. Fabio tira su lo sguardo dal suo piatto di fritturine miste per fare a Marco un sorriso pieno di compatimento, cui lui risponde con una scrollata di spalle molto misera e triste.
Francesco si allontana per mettersi a smanettare con le manopole dell’hi-fi e Marco sta per approfittare dell’attimo di libertà per scappare pure da lui, ma, di nuovo, questa non è la sua serata, - avrebbe dovuto mettersi l’altro jeans, quello fortunato; quello che ha addosso lo brucerà non appena torna a casa, - perché Francesco si raccapezza in fretta e con un grido di trionfo riesce a cambiare canzone. David si congela nel bel mezzo di un molto sentito eeeeeeh, Macarena!, e quasi capitombola all’indietro, perdendo l’equilibrio. Marco ridacchia, s’infila le mani nelle tasche dei pantaloni e Francesco skippa tre o quattro tracce, finché dalle casse sparse per tutta la piccola trattoria non esplode un’elegante fanfara dal ritmo un po’ lento e un po’ no, e Marco magari non è proprio un intenditore di prima categoria, ma non fa fatica a riconoscerci un valzer.
Francesco scoppia a ridere, e mezza squadra con lui, e naturalmente al secondo squillo di clarinetto è già in piedi in mezzo alla sala, le braccia strette all’aria, e ondeggia su se stesso completamente fuori tempo. Grazie a Dio, dopo un attimo Ilary è mossa a pietà e lo prende per le spalle, imponendogli un ritmo e conducendolo in una danza un po’ più accettabile. Non ci vuole nulla perché anche le altre coppie si lascino contagiare dall’epica, piacevole sinfonia sparata a tutto volume nel locale, e Marco si ritrova a sorridere mentre osserva i suoi compagni di squadra dimenarsi come scalmanati e inciampare nei propri piedi.
«Co’ tutte ’ste maglie bianche, veramente sembriamo un corpo di ballo,» commenta, facendo mezzo passo in avanti verso il divanetto, e Fabio ride, pizzicando un’alice fritta.
«Il peggiore di sempre, no?» dice, accennando col mento a Cicinho che è appena riuscito a pestare entrambi i piedi della povera Reem con un solo movimento. E ha ragione, Fabio, e probabilmente Marco dovrebbe filmare tutto ciò e poi piazzarlo in bella vista su Facebook per guarire tutti i suoi fan dalla depressione.
Si concede un’occhiata verso l’altro capo della trattoria, quello da cui è tanto codardemente scappato perché ancora un po’ e Daniele si sarebbe ritrovato sul pavimento, coi vestiti strappati via di dosso e la bocca schiusa attorno ad un gemito piuttosto che ad una barzelletta cretina, e vede lui e i pochi altri rimasti alla tavolata seduti di sghembo sulle sedie, che ridacchiano spudoratamente della generale incapacità dei poveri ballerini.
Nicolás tenta una piroetta molto arzigogolata per cui si ritrova inevitabilmente culo a terra, e Marco quasi si piega in due dalle risate, ma poi un braccio muscoloso gli si arriccia attorno alla vita con confidenza, lui si raddrizza, Osvaldo gli si preme addosso e lo spinge in avanti, verso il centro della sala.
Fa una mezza giravolta a destra e si ritrova davanti la sua stupida faccia, il suo stupido ghigno compiaciuto, i suoi stupidi capelli tirati indietro in quello stupido tuppo alto sopra la testa, la sua stupida barba, i suoi stupidi occhi. Marco non sa neppure come sia successo, ma ha una mano sulla spalla di Osvaldo e l’altra stretta tra le sue dita forti, e in men che non si dica stanno piroettando tra Francesco e Cicinho.
Marco tenta di buttarla sul ridere, anche se gli viene piuttosto difficile evitare di dare di matto, considerando il modo assurdamente possessivo con cui la mano libera di Osvaldo gli preme contro la base della schiena, troppo in basso contro l’orlo dei jeans.
«Non so ballare, ja,» dice, e i suoi piedi maledetti lo tradiscono subito, eseguendo un passo perfetto a tempo col movimento spaventosamente fluido di Osvaldo contro di lui. «Stavo andando in bagno, dai, ma che stai a fa’?»
Osvaldo ride, i denti bianchi e perfetti nella cornice impossibilmente abbronzata del viso, e lo trascina in un giro naturale veloce e preciso, poi un altro, e un altro ancora. Gli fa un sorriso sghembo e furbo, gli occhi castani che praticamente scintillano, e quella mano sulla schiena di Marco scivola ancora un po’ più giù.
«Non mi pare che non sai ballare,» dice, il suo italiano sempre ottimo, e quando il ritmo del valzer diventa quasi affrettato lui cambia marcia senza fatica, stando dietro ai nuovi salti di note e costringendo Marco a sperticarglisi appresso, troppo vicino, troppo circondato del suo odore forte e maschile.
«Non so ballare,» si ostina, dopo un passo particolarmente complesso, e si guarderebbe attorno per implorare aiuto, ma non è tanto ingenuo da credere che non li stiano già tutti fissando e ridendo. Si guarderebbe attorno per sincerarsene, ma non è tanto stronzo da volersi umiliare così.
«Non è vero,» sorride Osvaldo, che solo perché è mezzo argentino e mezzo italiano e ha quella faccia e ha quella voce e ha queste mani invadenti che toccano Marco dovunque - e solo sul polso e in basso contro la spina dorsale, - si crede irresistibile o Dio solo sa cosa. Marco sbuffa, irritato, s’imbroncia.
«Mi lasci stare, per piacere?»
Osvaldo si ferma di scatto e Marco gli sbatte addosso, petto contro petto, - è caldissimo, Osvaldo, come una specie di spiaggia dorata cotta dal sole; è così caldo che pure attraverso i vestiti Marco lo sente bruciare, come se avesse la febbre, - e lo stronzo sogghigna, lo stringe di più, appiattendoselo contro, e poi come se nulla fosse riprende a ballare, a trascinarselo dietro. Marco vorrebbe avere un fucile a canne mozze nelle mutande per aprirsi una presa d’aria nel cranio, o per aprirla a lui e salvarsi, in un colpo solo, pure la carriera alla Roma.
Resta a farsi trascinare in giro per la trattoria a passo di valzer, invece, finché non finisce il brano e Osvaldo lo lascia andare con un inchino galante e un sorriso da seduttore consumato, e ha una paura fottuta di voltarsi a guardare Daniele - Daniele che era così contento di essersi accaparrato il posto accanto a Marco che non è riuscito a smettere di avvicinarglisi per tutta la cena, e adesso non si ricorda più neppure com’è che si fa ad essere felici.

*
Marco si sveglia con una vaga emicrania a ronzargli sul fondo del cranio, e una bestemmia sulla punta della lingua perché ha dimenticato di abbassare la persiana prima di andare a dormire, e ora c’è una lama di luce calda e dolorosa che gli frigge la faccia. Si volta su un fianco, mugolando sottovoce, e si tira appresso mezzo metro di lenzuola. Il materasso accanto a lui cigola, s’inabissa un po’, e un braccio muscoloso gli stringe la vita, attirandolo indietro. Marco sorride, si lecca le labbra ed è d’improvviso molto più contento di non stare ancora dormendo.
Rotola sulla schiena, gli occhi ancora chiusi perché il sole è veramente troppo luminoso, stamattina, e si sporge finché non sente sotto le labbra la punta di un naso. Si sposta in giù, allora, il braccio attorno ai suoi fianchi che rafforza la presa costringendolo a voltarsi un po’, e trova la bocca di Daniele e la bacia, quasi solo sfiorandola, stuzzicandola appena, accarezzandola con la punta della lingua e ritraendosi dopo un attimo per poi tornare in avanti senza preavviso e sfuggire ancora.
Daniele dovrebbe sorridere, perché sorride sempre di queste promesse di baci, e dovrebbe prendergli il viso tra le mani e venirgli incontro, premere la bocca contro la sua senza muoversi per un’eternità, solo per impedirgli di respirare, e poi, poi, soltanto poi finalmente baciarlo davvero, ma non lo fa, ed è sbagliato, e in realtà è sbagliato pure l’odore che ha, è sbagliata la forza invadente con cui la sua mano accarezza il fianco di Marco, ed è sbagliato tutto, e allora Marco apre gli occhi, si scosta ed è improvvisamnete ovvio che sia tutto sbagliato, è giusto che sia tutto sbagliato, perché contro di lui non c’è Daniele, c’è Osvaldo, che abbozza un sorriso e continua ad inventarsi disegni insensati contro la sua pelle.
Marco sgrana gli occhi, si siede di scatto e annaspa all’indietro fin quasi a cadere giù dal letto.
«Cristo!» esala, senza fiato, fissando Osvaldo, il letto sfatto, le sue gambe nude che spuntano dalle lenzuola spiegazzate, le proprie gambe nude e, oh, Cristo. «Cristo. Che cazzo abbiamo fatto?»
«Secondo te?» ride Osvaldo, tranquillo come nessuno dovrebbe essere, di prima mattina, nudo nel letto di Marco Borriello.
«Cristo,» ripete Marco, la bocca che fa fatica a chiudersi bene attorno alle sillabe, e poi: «Cazzo,» e poi: «Uè Marò,» e poi: «Oh san Gennaro, fammi la grazia.»
Osvaldo ride di nuovo, gettando indietro la testa, e si lascia cadere di schiena sul materasso. Incrocia le braccia dietro la nuca, perfettamente a proprio agio, e si volta un po’, guardandolo da sotto le ciglia scure, lunghissime. Arriccia gli angoli delle labbra all’insù, e Marco se le ricorda con vividezza terrificante, quelle labbra, che lo baciavano, assaggiandolo ovunque, spingendosi in basso senza un’esitazione, e si ricorda anche le dita di Osvaldo, più lunghe e sottili ed esperte persino di quelle di Belen, che frugavano svelte e attente ogni centimetro del suo corpo, accarezzando ogni muscolo, studiando e quasi misurando ogni palmo di pelle. Ricorda gli insulti esasperati e bollenti che Osvaldo gli ha fatto mormorare mentre scendeva con lentezza crudele lungo la sua schiena, ogni respiro un bacio sul rilievo delle vertebre, finché non è arrivato al solco tra le sue natiche e l’ha lambito piano, con la punta della lingua, spingendosi poi più avanti e più giù, strappandogli un gemito aperto, vocale e quasi osceno, lungo più o meno una vita.
Ricorda il tuonare cupo, sensuale del cuore di Osvaldo premuto contro il suo mentre lo prendeva, quasi a ritmo di valzer, frenetico e asfissiante, pieno di voglia, pieno e basta. Se lo ricorda, e avvampa.
«Ti assicuro che t’è piaciuto,» sorride Osvaldo, famelico, e allunga una mano per toccargli una gamba, forse l’interno morbido di una coscia, ma Marco la schiaffeggia via, mordendosi le labbra.
«Ero ubriaco,» dice, convinto, assolutamente convinto. Osvaldo si stringe nelle spalle, come se non gl’importasse.
«Eri bello,» sghignazza ancora, ma con una certa dolcezza, e si tira su a sedere, gattona fino a puntellarsi con le mani ai lati delle ginocchia di Marco e ferma il viso ad un respiro di distanza dal suo. «Sei bello anche adesso,» mormora, piano, la voce densa come miele, e Marco rabbrividisce, ma chiude gli occhi, affoga la voglia che avrebbe di piegare la testa in avanti e baciarlo. Non si è ancora concesso di pensare a Daniele, non per davvero.
«È meglio se te ne vai,» dice, la voce che s’incrina impercettibilmente. Osvaldo sorride, si avvicina ancora, lo tenta con una carezza delle sue labbra e Marco ha scopato con lui per tutta la notte, Dio santo.
«Sei sicuro?» bisbiglia ancora, ed è praticamente una pantera, se ci pensi, e Marco non ha neanche un cespuglio o un ciuffo d’erba dietro cui scappare a nascondersi. Potrebbe andare a chiudersi nel bagno, ma ci ha provato anche ieri sera e non è andata per niente bene. «Com’è quel detto che avete? Hai fatto il trenta, puoi benissimo fare anche il trentuno,» sogghigna, lo stronzo, tutto furbo e seducente. «O farti il ventidue, per esempio.»
Marco trasale, chiude gli occhi.
«Non fa proprio così, il proverbio,» mugola, e pianta le mani sulle spalle di Osvaldo, spingendolo via. Deve macellare senza pietà una buona metà del proprio cervello, per riuscirci, ma gli rimane quella saggia ed equilibrata, quella a cui piace restare sul divano tra le gambe di Daniele a guardare un film e a farsi imboccare di popcorn da lui, perciò non è tanto male.
Osvaldo finalmente si arrende e si ritrae, senza rimangiarsi quel sorrisetto irresistibile che ha, e comunque pure così continua, Cristo benedetto, a sembrare un predatore.
«Mi posso almeno rivestire?» domanda, il tono improvvisamente più leggero, e Marco smette di trattenere il fiato.
«No, guarda, voglio che esci da casa mia col pisello al vento. Sai che bello il primo piano del tuo culo su Chi, domani mattina?» sbotta, tirandogli contro un cuscino, e Osvaldo scoppia a ridere, si scioglie i capelli e subito li riannoda in un codino più basso del solito.
«Mia madre sarebbe contenta,» dice, buttando le gambe giù dal letto per alzarsi e stiracchiarsi, poi, pigramente. Ha una bella schiena, non c’è che dire, muscolosa e ben abbronzata e larga quanto basta e Marco lo sta un po’ fissando, ma è solo perché non c’è altro di interessante nella stanza, davvero. «Dice sempre che non mi so scegliere una ragazza decente, ma a te ti tiene puntato da un sacco di tempo.»
Un brivido freddo precipita come un cubetto di ghiaccio lungo il collo di Marco, costringendolo a raddrizzarsi e tirare su le spalle. Osvaldo si sta infilando le mutande e i pantaloni, perciò Marco tossisce, per attirare la sua attenzione.
«Non... non farti venire idee strane,» dice, sollevando le mani, e ogni lettera gli costa una fatica immane. «Solo perché abbiamo, insomma... no, eh. No.»
Osvaldo, confuso, aggrotta le sopracciglia, ma dopo un momento scoppia a ridere, e con la maglietta bianca che aveva addosso ieri sera tra le mani fa il giro del letto e raggiunge Marco per sfotterlo con un bacio sulla fronte.
«No che non sei la mia ragazza, figurati,» dice, e Marco, di nuovo, smette di trattenere il fiato. «Stavo scherzando, hai presente? La gente scherza.»
«Eccome se c’ho presente,» brontola Marco, spintonandolo via. Osvaldo s’infila la maglietta, si sistema la miriade di collane sul petto - certi giorni, quando lo guarda, Marco si sente spiacevolmente plagiato, - e poi parte alla ricerca delle scarpe. Marco ne approfitta per allungarsi oltre il bordo del materasso e ripescare da sotto il letto il pantalone di una tuta. Se lo infila, è troppo largo e la stoffa morbida subito gli abbraccia le gambe. Marco rimane lì a fissare le strisce bianche che si rincorrono sui due lati del pantalone finché Osvaldo non ricompare, completamente vestito e non meno insopportabilmente bello di quanto non fosse da nudo, e gli si piazza davanti con le mani sui fianchi stretti.
«Mi accompagni alla porta, perlomeno?» chiede, inclinando la testa di lato, e Marco annuisce, si tira in piedi, lo precede fuori dalla stanza, in corridoio, fino al disimpegno dell’ingresso. Osvaldo lo segue ridacchiando sottovoce, e un attimo prima che Marco spalanchi la porta gli tocca una spalla per farlo voltare verso di sé. «Al posto tuo io glielo direi, a Daniele,» dice, ammiccando con fare da saputello.
Marco sbatte gli occhi un paio di volte, confuso.
«Dirgli che?» scolla, alla fine, aggrottando le sopracciglia, e già sente lo stomaco contrarsi per il terrore perché oh, Dio, che cazzo si è lasciato sfuggire, stanotte?
«Che ti piace chiamare il suo nome mentre stai avendo un orgasmo,» risponde Osvaldo, e il suo sorriso non tentenna neppure un attimo, mentre invece Marco sta morendo soffocato dal proprio stesso respiro.
«S-scusami?» balbetta, con gli occhi sgranati e le guance rosse. Osvaldo ridacchia, gli accarezza il viso con una gentilezza che stride paurosamente innanzitutto con la voglia ancora densa e malcelata nel suo sguardo, e in secondo luogo con la sublime cazzata che ha appena detto.
«Dai che hai capito,» sghignazza, e la faccia di Marco esplode in un elegante color bordeaux molto in tinta con le pareti. «Veramente, diglielo. Non si può mai sapere.»
«Oh, ma per piacere,» sbotta Marco, tirandogli un pugno molto misero contro la spalla. Osvaldo ride, inarca le sopracciglia. «Non-- ma stai zitto, che è meglio. E comunque, non esiste mica solo il nostro Daniele,» non è vero, esiste solo lui, e Marco arrossisce ancora e, davvero, qualcuno gli restituisca i gloriosi giorni in cui era lui a far avvampare gli altri con la sua sola presenza, e non il contrario. Dio santo, Daniele non ha neppure bisogno di essere lì per ridurlo ad una tredicenne con le palpitazioni.
«Come no, è un altro Daniele, allora,» dice Osvaldo, chiaramente divertito, poi stringe gli occhi, sorride. «Solo un beso callará mi boca,» bisbiglia, avvicinandoglisi di quel mezzo passo che basta a privare Marco di qualsiasi speranza di riuscire a respirare normalmente, dannazione al giorno in cui la convenzione di Ginevra non ha proibito ai calciatori di essere così sessualmente rilevanti. Marco, comunque, lo spagnolo non lo parla, però non è che gli ci voglia un interprete per capire cos’è che vuole Osvaldo da lui.
Lo bacia, possibilmente per l’ultima volta da qui alla fine dell’eternità, a meno che Daniele non si svegli un bel mattino e decida di voler essere completamente eterosessuale, perché in quel caso Marco dovrà pur riprendersi in qualche modo dalla tragica perdita, e Osvaldo, con la sua bocca impaziente e quella lingua prepotente e i braccialetti che premono contro la pelle di Marco, Osvaldo sta rapidamente guadagnando terreno. Se ne va senza un’altra parola, il che è l’ennesimo punto a suo vantaggio, e Marco rimane almeno per mezz’ora fermo con la fronte appoggiata alla porta, a maledire se stesso in tutti i modi che gli vengono in mente, coi pantaloni troppo larghi di Daniele bassissimi sui fianchi.
Decide di chiamarlo, poi, quando finalmente si schioda da lì. Decide di chiamarlo e non sa esattamente cos’è che vuole dirgli, e forse il punto è che non vuole dirgli un bel niente, ma solo sentirlo, aggrapparsi alla sua voce fosse anche solo per sentirsi mandare a quel paese - perché ci sarà un motivo se Marco è tornato a casa con Osvaldo e non con Daniele, ieri sera, no? Il fatto che non riesca a farselo venire in mente non significa che non ci sia.
Per cui, lo chiama. Lo vuole chiamare, veramente, e siccome ogni cosa, tra lui e Daniele, esiste solo per voglia, lo chiama. Il cellulare non fa in tempo a squillare tre volte che Daniele risponde, e una risata limpida e allegrissima fa sorridere Marco in meno di un attimo.
«Amore,» dice, le labbra che tornano ad incurvarsi all’insù un po’ di più dopo ogni respiro. «Buongiorno. Come stai?»
«Buongiorno,» pigola Gaia, prima di ridere ancora un po’. «Anche papà dice buongiorno, zio. Stiamo andando a scuola.»
«Aww, ma che brava,» sorride Marco, e si butta sul divano, piega un braccio dietro la nuca e accavalla le gambe. Getta un’occhiata all’orologio, poi, e si acciglia. «Gaia, amore, ma non è un po’ tardi? Sono già le otto e mezza.»
«Eh, infatti,» Gaia abbassa un pochino la voce e sospira. «Però lo sai papà com’è.»
Marco scoppia a ridere.
«Lo so, lo so,» dice. «Allora è meglio se a scuola ti ci porta zio Marco, la prossima volta, eh?»
«Sì!» strilla Gaia, entusiasta, e Marco sorride talmente tanto che gli fanno male gli angoli delle labbra. «Papà, hai sentito che ha detto zio?» continua la bambina, e Marco sente in lontananza la voce bassa, gentile, divertita di Daniele, e gli viene la pelle d’oca. «Ha detto che mi ci porta lui a scuola, domani!»
«Se papà vuole, facciamo venire anche lui,» dice Marco, conciliante.
«Ma poi facciamo tardi, zio,» osserva Gaia, giustamente, e Marco ride, scuote la testa.
«Ma no, lo vengo a svegliare all’alba, promesso.»
Gaia ridacchia, riferisce la proposta a Daniele e Marco non capisce la sua risposta, ma francamente gl’importa poco. Gaia dà una specie di miagolio a metà tra il deluso e l’entusiasta, un attimo dopo, e in sottofondo si sente il rumore di una portiera che sbatte.
«Zio, siamo arrivati,» dice la bambina, e Marco ci prova, ci prova davvero, a non rimanerci male. «C’è la maestra che mi sta aspettando.»
«Hmm, va bene, tesoro, allora buona giornata.»
«Sì!»
«Prometti che farai la brava?»
«Tu prometti che vieni a scuola con me, domani?»
Marco riesce quasi a vedere il suo broncetto testardo, le guance gonfie, lo zaino rosa pieno di luccichini stretto tra le braccia come un bambolotto.
«Te lo prometto, amore,» sorride, con la sua voce più seria. Gaia ridacchia, lo saluta ancora, gli manda un bacio e poi Marco la sente salutare anche Daniele. C’è un po’ di rumore indistinto, ovattato, di traffico e vociare di bambini, e poi dei passi; l’antifurto di un’auto, una portiera, di nuovo, aperta e richiusa, e, nel silenzio improvviso, il respiro un po’ troppo forte di Daniele, che Marco, maledizione, riconoscerebbe tra mille.
«Buongiorno,» mormora Daniele, con la voce che ha quando sprofonda contro una sedia particolarmente comoda. Marco cambia posizione sul divano, si sdraia, incrociando le caviglie sul bracciolo.
«Buongiorno a te,» dice. Si lecca le labbra, tentando di non farsi venire un’erezione per il semplice fatto che Daniele è al telefono con lui e sta, pensa un po’, respirando. «Davvero la maestra la stava aspettando?»
Daniele ride un po’, a disagio.
«Sì, cioè, no, stava fori tutta la classe,» risponde, poi sospira, sospira di nuovo, Marco suppone stia digrignando pure un po’ i denti. «Marco, senti, pe’ ieri sera...»
«Dani, ti va di passare da me?» lo interrompe Marco, di punto in bianco. Si ricorda del letto sfatto, di là, dell’odore forte di Osvaldo, e trema. «O vengo io da te, come vuoi. Ci vediamo?»
«Sì,» esala Daniele, come se fosse tormentato sempre pure lui da questo stesso, spaventoso bisogno di vederlo - di toccarlo, soprattutto. «Sì, va bene. Vedemose. Da me? Sto più vicino, dai.»
«Va bene,» annuisce Marco, e balza in piedi, la schiena percorsa da un brivido elettrico. «Va bene. Arrivo.»

*
Daniele gli permette di fare tre passi - contati - in casa sua prima di spingerlo contro il muro e assalirgli la bocca con un bacio che Marco vorrebbe continuare in eterno, che è innocentissimo, dapprima, una carezza quasi gentile che poi Daniele sforza in un contatto intimo, prepotente, aperto e nervoso, terrorizzato e possessivo al tempo stesso. Marco non ha difficoltà ad ammettere di essere innamorato della sensazione. Ha il fiato corto, quando Daniele si allontana, e si appoggia al muro, incrocia le braccia dietro il suo collo, scalcia via un angolo del tappeto che gli si era arricciato sotto la scarpa.
«Ciao,» mormora Daniele, gli occhi fissi alle sue labbra piene, rosse. Esita per una frazione di secondo, poi si sporge ancora e le lecca, le accarezza con le proprie, senza premere oltre.
«Ehi,» sorride Marco, pianissimo, e Daniele scende a lambirgli il mento con la bocca, e poi la curva della mandibola, e ancora il collo, che Marco gli offre, reclinando la testa di lato. Il prossimo allenamento è per domani pomeriggio, perciò Daniele sfiora la pelle tenera coi denti e poi affonda, mordendo più forte di quanto non abbia mai fatto, succhiando per stemperare di piacere il dolore che a Marco comunque non scoccia. Il segno che Daniele gli lascia è rosso e gonfio ma farà in tempo a sbiadire per quando dovranno ripresentarsi alla squadra, e comunque lui quasi spera di trovarlo ancora lì, mentre Luis Enrique li terrà sotto il sole a spiegare l’ennesima giocata tattica in cui Marco non è contemplato se non come riserva. Daniele quasi spera di potersi voltare, tra un affondo e un passaggio, e dall’altro lato del campo vedere il marchio dei propri denti spiccare sulla pelle di Marco, magari proprio mentre Fabio e Francesco si staranno divertendo a cercare d’indovinare quale bella signorina gliel’abbia lasciato.
Marco, pensa Daniele certi giorni, lo rende più possessivo di quanto non faccia Gaia, in un modo che minaccia di farlo impazzire.
«Scusa,» dice, risalendo a baciargli la bocca. Marco risponde quasi con pigrizia, inarcandoglisi contro come un gatto. «Pe’ ieri sera, che non t’ho salutato. Non ho salutato nessuno, veramente, prima de annarmene.»
Marco gli si struscia addosso per un momento senza dire nulla, poi abbozza un sorriso.
«Non c’è problema,» dice, col cuore in gola perché Daniele ha delle occhiaie che fanno a gara con le sue, quindi non c’ha dormito, su questo fatto, e lui intanto assaggiava il sapore della pelle di Osvaldo. «Veramente, Dani. Statti tranquillo.»
Daniele ci pensa su, sospira.
«Se me devi sveglia’ all’alba, domani,» brontola, quasi sorridendo, «magari è meglio che dormi qua direttamente, no?»
Marco scoppia a ridere, si guarda bene dal fargli notare che sono ancora le nove di mattina; lo bacia, si lascia baciare e gli mugola contro, contento come se fosse Natale.

*
Gaia già dorme da un’ora, perciò Daniele e Marco tengono bassissimo il volume della televisione, anche se, peraltro, nessuno dei due sta davvero prestando attenzione al film, Daniele troppo concentrato a tracciare arabeschi senza senso sulla spalla nuda di Marco e Marco distratto dal tocco gentile delle sue dita. Durante l’ennesima pausa pubblicitaria, Daniele si volta un po’ verso di lui.
«Sei bravo a ballare,» dice, con una voce strana, tesa. Marco si raddrizza appena, sorpreso, sfiorandogli l’addome in una carezza lievissima. «Che roba era, comunque? La mazurka?»
«...ma che ne so,» mormora Marco, arricciando il naso. «Ha fatto tutto quel cretino.» Daniele mugola, poco convinto. «Che c’è, Dani?»
«Ma niente,» scrolla le spalle, lo bacia, e poi aggiunge, sottovoce e tutto d’un fiato, arrossendo come un pazzo: «Pensavo che magari me potevi insegna’, ecco.»
Marco lo fissa, le sopracciglia inarcate così tanto che un altro po’ e gli volano via. Daniele sbuffa, imbarazzato, e lui ride, più piano che può per non svegliare Gaia due stanze più in là, e si allunga a baciarlo, tutto pieno di un assurdo, piacevole tepore.

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