Titolo: Regal Maria Madre de Dios
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Xabi Alonso, David Beckham/Iker Casillas, Raul, Alvaro Arbeloa, José Mourinho, Pepe Reina, Steven Gerrard, Nagore Aranburu
Rating: PG14
Conteggio Parole: 8000 (
fidipu)
Avvertimenti: medical!AU, vago crack, slash
Note: La metto qui fuori ad asciugare perché un giorno spero di ampliare il 'verse, magari con qualcosa di più sostanzioso, e questo sarà il mio tristO memento. Chi doveva leggerla l'ha già letta, comunque *ride*
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.
~ Regal Maria Madre de Dios.
«Oh mio Dio, sei ancora qui.»
Xabi fa fatica anche solo ad alzare gli occhi dalla tazza di caffè che ha tra le mani e che, al momento, costituisce il suo unico legame con la realtà - ha operato non meno di sei pazienti tutti di fila, perché certi giorni capita che tre quarti dei chirurghi decidano di non sentirsi abbastanza perfetti per presentarsi al lavoro e quindi, sì, puoi anche essere ancora un tirocinante ma sei il miglior cazzo di tirocinante che questo ospedale abbia mai visto e sembri praticamente fatto per essere sommerso da responsabilità che non ti competono, va bene?, perciò ti tocca incidere il torace e smanettare con gli organi interni di sei persone differenti una dopo l’altra, senza mettere piede fuori dalla sala operatoria per Dio solo sa quanto tempo esattamente; e poi, quando finalmente torni al gioioso e non perfettamente asettico mondo al di là, il pronto soccorso è sommerso di sangue e gente che sviene e muore, perché a quanto pare c’è stato un incidente gigantesco sull’autostrada o qualcosa di simile, e un paio di mani e di occhi in più fa sempre comodo, giusto? Giornate così capitano, davvero, è solo routine, terrificante, normalissima routine, - perciò si limita a sollevare gli angoli delle labbra forse di mezzo millimetro, perché è tutto quello che ha la forza di pretendere dalla propria faccia, e un po’ a fatica spunta l’ennesima, inutile voce sull’ennesima, inutile, vitale cartella clinica. O almeno spera di averla spuntata. La sensazione di averlo fatto - di aver effettivamente mosso la penna contro la carta, cioè, e che sia apparsa una sottile striscia d’inchiostro nel quadratino esatto, quello in cui intendeva tracciare una sottile striscia d’inchiostro, - gli si arrampica lungo il polso fino al cervello, ma il problema è che con una stanchezza così abissale e così tanto caffè nelle vene diventa un po’ difficile essere sicuri persino di aver fatto cose tipo respirare.
«Xabi, da quante ore sei sveglio?»
Stavolta Xabi fa il sommo sforzo di alzare la faccia dai documenti, e il modo in cui Iker sobbalza non può essere un buon segno sullo stato della sua faccia.
«Secondo te?» gli chiede Xabi, con una voce che sembra strisciare direttamente fuori dall’Inferno, e pure con tutta la stanchezza e la vaga sensazione di stare impazzendo riesce ad essere perfettamente, impeccabilmente educato. Si tratta di Xabi, dopotutto.
Iker gli fa un sorriso un po’ sghembo, ed è solo perché lui e Xabi si conoscono da una quantità spropositata di anni che si arrischia a sollevare una mano e premere gentilmente un indice contro quelle che Xabi suppone siano le enormi, no, mastodontiche occhiaie sui propri zigomi. È un gesto fin troppo intimo e casuale, forse, e Iker potrebbe tranquillamente ficcarglielo nell’occhio, quel dito, da un momento all’altro, più o meno volontariamente, se non fa attenzione, ma Xabi è troppo stanco anche solo per avere l’istinto di scansarsi da lui e mettere al sicuro i propri bulbi oculari dai suoi polpastrelli invadenti.
«Non lo so,» tentenna Iker, ancora con quella smorfia divertita sul volto; Xabi non riesce ad impedirsi di notare la sua barba perfettamente curata, i capelli in ordine, il vago odore di bagnoschiuma che emana dalla sua pelle e per un minuto intero lo detesta, perché, Cristo, ha bisogno di una doccia. Lunga tre o quattromila anni, possibilmente. «Diciotto? Venti?»
«Prova a superare la trentina,» brontola Xabi, e normalmente non gli piace fare la lagna, non per sofferenze che praticamente si è autoimposto con un sorriso, peraltro, correndo loro incontro a braccia spalancate e col bisturi già in mano, vaffanculo il giorno in cui ha deciso di voler fare il medico, Cristo, ma in questo momento non è propriamente in sé, per cui potrà anche lamentarsi di questo turno che non finisce mai e delle emergenze e di tutto il cazzo di universo che sembra cospirare contro il normale decorso del suo bioritmo sonno-veglia, d’accordo?
Iker sembra leggergli nel pensiero - sembra che riesca a vedere esattamente quanto Xabi sia vicino ad un collasso nervoso, e si tratta di millimetri, davvero, - e il suo ghigno si scioglie in un sorriso più affettuoso, amichevole, prima che, da bastardo manipolatore quale è, approfitti del momento di debolezza di Xabi per sfilargli di mano la cartella che stava compilando e, già che c’è, rubargli anche il caffè.
«Ehi!» si lamenta Xabi, ma debolmente, perché da un paio d’ore sta avendo problemi anche solo a restare in piedi. «Ridammelo.»
«Niente più caffeina per te,» sorride Iker, - e quella era una citazione da Lilo & Stitch o Xabi sta già avendo le visioni? - e per dispetto beve un sorso del caffè di Xabi; non una mossa esattamente astuta, comunque, perché quella brodaglia è rimasta a fermentare nel bicchiere per almeno tre quarti d’ora, e non ha esattamente il miglior sapore di sempre. «Cristo, Xabi, quand’è che sei passato a bere piscio di cammello per tenerti su?»
A dispetto del bisogno fisico di un letto che gli invade ogni singola cellula - e Xabi, nonostante la laurea e la specialistica e le conoscenze di biologia e gli approfondimenti e tutte le stronzate non riesce davvero a capire come sia possibile, ma ogni singolo osso del suo corpo sta urlando dalla necessità di sprofondare su un materasso o una qualsiasi superficie sufficientemente morbida e orizzontale, bontà di Dio, - Xabi riesce a ridacchiare e scuotere piano la testa.
«Era caffè, due, tre ore fa,» dice, e Iker sta fissando la tazza come se quella avesse personalmente offeso i suoi calzini - il che, da quello che riesce a scorgere Xabi, non sarebbe neppure particolarmente difficile, o ingiustificabile. «Sul serio, Iker, color senape? E io che pensavo che almeno tu in questo ospedale avessi un minimo di classe.»
«Di che cavolo stai-- oh, i calzini. Sono di David, in realtà,» e, chissà perché, Xabi non aveva il minimo dubbio. «E comunque, adesso ti stai confondendo davvero, dottor Alonso. Qui in giro sei tu the classy one, ricordi?»
«Sì, beh, di certo non in questo momento,» brontola Xabi, per tutta risposta, e si passa una mano sul viso, quasi rabbrividendo nel sentire la barba folta, troppo folta sotto le dita.
«In effetti,» annuisce Iker, incrollabile come suo solito nell’offrire supporto, e poi, con una delle sue tipiche, assurde magie - o forse è solo che Xabi è un po’ troppo distratto per seguire esattamente tutti i suoi movimenti, - ha fatto sparire la tazza e i documenti che aveva in mano e sta spingendo Xabi lungo il corridoio affollato dell’ospedale, verso gli ascensori. «Adesso tu vai a casa, d’accordo? Se sei davvero in piedi da più di trenta ore di fila, sei praticamente un pericolo pubblico, Xabi.»
«Ho dormito un po’ nei momenti di calma,» si lagna Xabi, perché è vero, è vero davvero, e comunque è assurdo, lui non è un pericolo pubblico, prende il suo lavoro molto seriamente e il suo cervello ha imparato ad adeguarsi alla sua morale e quindi è in grado di reggere ritmi molto più serrati e inumani di questo: una volta, durante la specialistica, ha eseguito una perfetta operazione a cuore aperto dopo essere rimasto sveglio praticamente per tre giorni di fila per una maratona di Friends, e c’è riuscito semplicemente comandando ai propri centri nervosi di mantenere la concentrazione su quello che stava facendo, a prescindere da quanto esattamente i suddetti centri nervosi avessero bisogno di un’aspirina per combattere la sbronza o di un elettroshock per ricominciare a sentire qualcosa. Certo, stavano giocando a L’allegro chirurgo e, più che un’operazione cuore aperto, era solo un’altra sfida tra ragazzi troppo ubriachi e troppo pieni di compiti da fare, ma il maledetto naso del maledetto omino non ha neanche accennato l’intenzione di lampeggiare e Xabi era così pieno di alcol e noccioline stantie e battute divertenti che avrebbe potuto cominciare a camminare sulle mani e nessuno se ne sarebbe stupito perciò, Cristo, quella la conta come operazione ben riuscita, grazie tante.
«Xabi? Xabi,» Iker sta schioccando le dita davanti alla sua faccia, e Xabi non riesce a ricordare quando, esattamente, il suo amico abbia cominciato ad avere un colorito così blu, o ad assomigliare così tanto ad uno stetoscopio. Forse c’è davvero qualcosa che non va in lui. «Xabi, ti sto perdendo. Ascoltami, ti accompagnerei a casa io stesso, ma non abbiamo abbastanza personale al momento e non posso allontanarmi e per la verità non dovrei neppure essere qui a perdere tempo a parlarti, ma comunque -- mi fiderò di te, Xabi. Prendi un autobus, un taxi o qualcosa del genere. Ok? Vai a casa, dormi un po’, fatti una doccia. Ti consiglierei la doccia per prima, veramente, ma temo che potresti annegarci visto lo stato in cui sei, perciò. Dormi. Dormi, va bene?»
«Va bene, va bene, mamma,» si arrende Xabi, quando arrivano davanti alle porte dell’ascensore principale - perché, in tutta onestà, ci ha pensato anche lui un paio di volte, durante la notte, che magari avrebbe potuto perdere il controllo dei propri nervi, per un attimo, e quell’attimo sarebbe potuto essere la rovina di qualcuno. E non è così tanto irresponsabile, Xabi, da mettere consapevolmente a repentaglio la vita dei pazienti, neppure quando è stanco oltre ogni livello e definizione di stanchezza. «Ci vediamo domani, penso. O dopodomani. Non lo so, mi sembra di aver lavorato abbastanza per il prossimo anno, sai?»
«Se io fossi in lei non mi aggrapperei a quel pensiero, dottor Alonso,» commenta distrattamente José Mourinho, primario di chirurgia e sergente istruttore e chissà che altro dell’ospedale, nonché Signore dell’Universo o qualcosa di equivalente, almeno a giudicare dalla disarmante sicurezza in se stesso con cui emerge dall’ascensore alle spalle di Xabi, e Dio, davvero, c’è qualcosa di profondamente inquietante nel modo in cui quell’uomo riesce ad essere ovunque ci sia la possibilità di sparare, con quella faccia da schiaffi, una delle sue terribili, compiaciute battute.
«Buona giornata a lei, capo,» gli risponde Xabi, e Mourinho si limita a liquidarlo con un cenno vago prima di sparire dietro un angolo, probabilmente inghiottito dalla sua stessa stronzaggine o da un buco nero o da una botola per il laboratorio segreto in cui da almeno vent’anni ha trovato la cura per il cancro.
«Xabi, non ti distrarre, devi andare a casa,» lo rimprovera Iker, allungando un braccio per impedire alle porte dell’ascensore di richiudersi, e un attimo dopo, prima ancora di poter sollevare un’altra protesta o almeno insistere un pizzichino di più, Xabi si ritrova a fissare una lastra di alluminio lucido e può solo aspettare di arrivare al pianterreno. Una volta lì, l’odore del mondo esterno è troppo forte e inebriante perché gli si possa resistere - forse ha bevuto qualche caffè di troppo, d’accordo, - e allora Xabi traballa un po’ verso le porte, che grazie a Dio sono automatiche, perché altrimenti ci avrebbe sbattuto contro davvero, e finalmente è fuori, è fuori, sta andando a casa e non gli sembra possibile.
Nella sua quieta esaltazione, Xabi evita per un soffio di scontrarsi con una donna incinta e poi quasi inciampa in una sedia a rotelle che qualche matto più distratto di lui ha lasciato proprio nel mezzo del viale dell’ospedale, ma non riesce, arrivato al parcheggio, ad evitare la disastrosa collisione con un uomo che, naturalmente, aveva con sé un caffé che, altrettanto naturalmente, si rovescia grandiosamente sull’asfalto.
«Oh, Dio, mi dispiace,» scatta Xabi, a mezza voce, un istante dopo, e si sta toccando la spalla, sopra il camice, nel punto in cui ha urtato con il tizio, ma non se ne rende conto davvero. «Mi dispiace, sono-- sono in piedi da trentadue ore e non ho proprio un’idea chiara di chi sono o dove mi trovo, perciò--»
«Ehi, Xabi, tranquillo, non è niente,» gli sorride l’uomo, ed è un sorriso dannatamente familiare, d’accordo? Tutto denti bianchi e perfetti e assurdamente attraente, e poi anche la voce, sì, Xabi conosce questa voce e, ah, ma certo, guarda, è David.
«Becks,» brontola, rilassandosi subito, perché potrà anche aver ricevuto un’educazione impeccabile ed essere, effettivamente, l’eleganza su gambe, ma questo non gli impedisce di essere comunque un ragazzo timido per il quale è ancora incredibilmente spiacevole dover rivolgere la parola a persone pescate a caso. «Ehi. Ciao.»
«Ciao a te,» replica David, e Xabi non ha bisogno di guardarlo in faccia, davvero, non ne ha bisogno, per sapere che è ridicolmente divertito dai suoi riflessi rallentati, Cristo, dal suo cervello rallentato per la stanchezza. Lo guarda comunque, perché David è tipo tanto bello da far resuscitare i morti o cazzate del genere, per cui guardarlo non fa mai male, anzi, semmai il contrario. E non è che Xabi sia interessato a David in quel senso, comunque - non che non sia incredibilmente, irrecuperabilmente gay, Xabi, è solo che, beh, David è intoccabile. Per chiunque non sia Iker, cioè, ma anche in generale, perché uno bello così, insomma, ce l’ha la sua bella dose di irraggiungibilità da divo del cinema. «Non mi avevi neppure riconosciuto.»
«Ma certo che ti avevo -- beh, ok, sì, cioè, no. Dio, ho detto trentasei ore? Facciamo trentaseimila, grazie, e credo di aver sviluppato un qualche tipo di assuefazione alla caffeina, un’immunità o cose del genere, perché non mi fa più effetto, il che non è per niente una buona cosa,» e adesso Xabi sta davvero delirando senza controllo, e quando tornerà in sé si vergognerà per tutta la vita di questo momento, per cui David, essendo l’anima caritatevole che è, fa l’unica cosa giusta da fare in questi casi: gli piazza un dito sulle labbra e lo zittisce, sorridendo con l’aria intenerita di una bambina che ha appena trovato un adorabile coniglietto bagnato fradicio sul portico di casa. Xabi è il metaforico coniglietto, naturalmente, ma David è una bambina bionda con le trecce e il vestitino rosa e i calzini col bordino di pizzo, perciò probabilmente possono considerarsi pari.
«Piantala, Xabs,» gli intima, e poi gli dà un’amichevole pacca sulla guancia e magari è la stanchezza che parla, ma a Xabi comincia a piacere tutta questa generale preoccupazione nei suoi confronti, tutte queste persone che ardono dalla voglia di prendersi cura di lui. Potrebbe seriamente pensare di mettersi a fare le fusa, o qualcosa di altrettanto ridicolo. «Ti porto a casa, non sei in condizione di guidare.»
«Oh. Sì, non sono proprio in condizione di camminare, per cui credo sia legittimo da parte tua ritenere che io non sia in grado neppure di giud -- guir -- guidare. Guidare,» Xabi si acciglia, ma David ride e lo spinge educatamente verso la propria macchina, una mano premuta con confidenza contro la base della sua schiena e Dio, anche lui profuma di doccia e dopobarba e Xabi, Xabi, perché non sei già a casa? Perché sei uscito di casa, comunque? «Oh, aspetta, aspetta un attimo. Non-- non hai il turno? Voglio dire, adesso? Ho visto Iker, su, prima, e tu cominci praticamente con lui, quindi --»
«Non preoccuparti, il mio turno non comincerà prima di mezz’ora, grazie tante per l’interessamento,» gli sorride David, con una punta appena d’imbarazzo che Xabi, ora come ora, proprio non riesce a spiegarsi - già si stupisce di essersene accorto, in realtà. Dieci punti di merito al suo cervello, yo. «E comunque, davvero, Xabs. Non riusciresti a guidare fino a casa neanche se abitassi a tre passi da qui, in tutta onestà sono scandalizzato dal fatto che Iker ti avrebbe lasciato metterti al volante.»
«Mi ha detto di... prendere un autobus, o qualcosa del genere. Non stavo davvero ascoltando, ero distratto. Credo,» risponde Xabi, ed è consapevole del fatto di aver praticamente strascicato almeno metà della frase, ma David si limita a ridacchiare, apparentemente deliziato, perciò la questione può tranquillamente essere archiviata. Sono arrivati alla macchina di David, finalmente, solo che non è la macchina di David, è la macchina di Iker, Xabi conosce la differenza, e in qualche modo la cosa fa scattare una qualche scintilla nel suo cervello e un paio di neuroni tornano in vita, semi-impazziti per il fastidio, tra l’altro. «Oh, aspetta un attimo, aspetta un attimo. Siete arrivati insieme, tu e Iker?» David annuisce, restando fermo in piedi accanto alla portiera, ed è una cosa così rara, vederlo anche solo vagamente in imbarazzo, che Xabi non riesce a non sorridere come un coglione. «E tu attacchi alle sette e mezzo, lui alle sette meno un quarto. Perciò sei rimasto in macchina ad aspettare-- sei rimasto in macchina per mezz’ora ad aspettare, prima di scendere e avviarti?»
David si ripulisce la giacca da immaginari riccioli di polvere, e poi si stringe nelle spalle, tentando di sembrare indifferente al sorriso divertito di Xabi, e fallendo miseramente.
«Ho aspettato venti minuti, grazie tante,» brontola, e Xabi allora ride, piano, come tra sé, poi lo guarda, al di sopra del tettuccio dell’auto, e arriccia il naso.
«Sei adorabile,» dice, e David si limita a sbuffargli contro, ma finalmente apre la macchina e Xabi non è mai stato più contento di abbandonarsi contro un sedile in tutta la sua vita.
«Avresti potuto almeno toglierti il camice,» lo rimprovera David, bonariamente, dopo un minuto, e Xabi grugnisce appena una risposta, perché s’è accoccolato piacevolmente contro la portiera e non ha davvero voglia di articolare una giustificazione sensata, è già sorprendente che abbia prestato attenzione alle parole di David, davvero - altri dieci punti, cervello, e in queste condizioni, poi. Complimenti, davvero. «Avresti potuto almeno sfilarti la mascherina dal collo,» e ora David sta ridendo, non c’è modo di sbagliarsi, gli alberi ai lati della strada stanno miracolosamente fiorendo anche se è ottobre inoltrato: David sta ridendo. «Dio, Xabi, sei un caso perso.»
E Xabi lo insulterebbe, normalmente, con la sua immancabile eleganza, cioè, ma adesso è troppo impegnato ad essere addormentato contro il finestrino.
*
Xabi parte con l’intenzione di concedersi ventiquattro ore di riposo totale, possibilmente divise in venti di sonno e quattro di doccia, con eventuali pause per il pranzo, la pipì e magari il telegiornale. Si sveglia alle sei del pomeriggio, però, dopo sole undici, misere ore da che David l’ha messo a dormire rimboccandogli persino le coperte; un po’ deluso da se stesso, s’infila sotto la doccia e gli sembra di essere praticamente risorto. È una sensazione meravigliosa.
Dopo aver mangiato una gigantesca insalata di pollo ed essersi fatto un tè e poi aver vagato per l’appartamento come un’anima in pena per tre quarti d’ora abbondanti, però, decide di averne avuto abbastanza, e di voler tornare al lavoro.
Il problema di Xabi è il fatto che tende a ridurre la sua intera esistenza attorno ad una cosa alla volta: finché aveva sedici anni respirava soltanto calcio, calcio, calcio, passava ogni momento libero ad allenarsi, anzi, viveva per il solo scopo di avere qualche momento libero per mettersi a rincorrere un pallone con suo fratello Mikel. Quando studiava economia c’erano solo numeri, numeri da tutte le parti, grafici e azioni e strategie di mercato e sostanzialmente solo numeri, ecco, e poi ha deciso di voler diventare un dottore e da allora, apriti cielo, tutto quello che esiste, per lui, è la medicina, la chirurgia. Non riesce a stare senza fare niente, o meglio, lavora tutto il tempo, e quando non ha niente da fare la sua mente gli tira i capelli per costringerlo a tornare al lavoro. È l’unica cosa che abbia senso.
È un maniaco del dovere, e non è che non se ne renda conto, ma purtroppo è fatto così: il suo tempo non ha significato se non quando si infila il camice e può affondare i pollici nelle ferite degli altri, perciò Xabi butta giù l’ultimo sorso di tè, recupera il cappotto e lo stetoscopio dall’attaccapanni, intasca le chiavi di casa e scappa via, come se l’aria dell’appartamento fosse, per lui, velenosa.
Scende le scale praticamente correndo, sfilandosi dalla tasca il cellulare per chiamare Iker e avvisarlo - non ci tiene a ricevere una ramanzina epocale nel bel mezzo dell’atrio dell’ospedale, meglio cominciare a farlo urlare già per telefono, così magari per quando Xabi l’avrà raggiunto si sarà un po’ calmato, - però al quinto squillo la chiamata passa alla segreteria telefonica, ma non è una cosa fuori dall’ordinario, Iker sarà in sala operatoria.
Xabi si ferma alla caffetteria in fondo alla strada e ordina il suo solito caffè da portare, lungo, lunghissimo, poco zuccherato, con un goccio di latte; Alvaro, il proprietario tuttofare che lo conosce da una vita o due o magari anche tre, gli fa l’occhiolino e, invece dello zucchero, versa nel caffè un cucchiaino di miele di castagno. Xabi ne sente l’odore persino dal retro del bancone, e gli sfugge un sorriso estasiato.
«Fammi da cavia,» dice Alvaro, porgendogli il bicchierone, e Xabi annuisce, perché, ehi, sta andando al lavoro, ha lo stomaco pieno ed è ancora tiepido per la doccia e non potrebbe essere di umore migliore.
Beve un sorso di caffé, allora, e, Dio santo, è veramente delizioso. Alvaro ride, perché Xabi potrebbe aver dato un gemito di piacere, forse, magari, chi lo sa.
«È ottimo,» dice, comunque, giusto un po’ d’imbarazzo che gli arrossa le guance ma grazie al cielo ha la barba - perfettamente curata, adesso, una lontana, rossiccia parente di quel cespuglio incolto che gli si è gonfiato spontaneamente sul mento durante le trentasei ore di fila in ospedale, - che lo nasconde. Mette mano al portafogli, ma Alvaro rifiuta in tutte le lingue che conosce di accettare i suoi soldi.
«Non essere sciocco, sei la mia cavia,» dice, ridendo, e Xabi si acciglia, insiste, insiste un altro po’, poi però il cellulare si mette a vibrargli come un pazzo nella tasca, dev’essere Iker, e Xabi deve davvero rispondere. Con un sorriso di scuse, allora, scappa via, promettendo solennemente ad Alvaro che gliela pagherà per non avergli fatto pagare il caffè, e magari non è la cosa più intelligente che Xabi abbia mai detto, ma Alvaro ride contento e lo manda scherzosamente a farsi fottere.
Una volta fuori dal locale, Xabi si concede un altro sorso di quella delizia ambrata che gli seduce il palato - potrebbe aver appena trovato un nuovo caffè preferito, che meraviglia, - prima di sfilarsi il cellulare dalla tasca - l’apparecchio è ormai sull’orlo di una crisi di circuiti per quanto istericamente vibra e si dimena nella sua stretta, - e accorgersi che no, non è Iker a chiamarlo, ma Raúl Gonzalez, probabilmente il miglior medico diagnostico che il Real Madrid abbia mai avuto.
«Raúl, buonasera,» saluta, incamminandosi in direzione della fermata dell’autobus più vicina - la sua macchina è ancora nel parcheggio dell’ospedale, naturalmente. «Va tutto bene?»
«Xabi, non ho molto tempo,» bisbiglia Raúl, per tutta risposta, e, un momento, perché sta bisbigliando? Xabi si acciglia, ma prima che possa dire qualcosa Raúl ha già ricominciato a blaterare, talmente piano e talmente in fretta che Xabi deve fermarsi per potersi concentrare bene sulle sue parole e cercare di capirci qualcosa. «So che sei a riposo e che ti sei ammazzato di lavoro e tutto quanto, e se Iker mi trova mi distrugge, ma non posso non dirti niente, sarebbe crudele da parte mia e... Xabi, ma sei a casa? Era un clacson, quello che ho appena sentito?»
«Uhm,» Xabi tentenna, pondera la possibilità di mentire spudoratamente, e alla fine sospira. «No, e sì. Sto andando a prendere l’autobus. Per tornare in ospedale.»
«Dio santo, sei incorreggibile,» ride Raúl, ma non lo sta rimproverando. «Però probabilmente me lo dovevo aspettare.»
Xabi sorride, e riprende a camminare verso la fermata.
«Allora,» dice, «cosa c’è di tanto importante?»
«Oh, beh. Ho una paziente affetta da aniridia. Pensavo potesse interessarti venire a dare un’occhiata, visto che, beh, è una cosa che non si vede spesso,» e ridacchia, vagamente imbarazzato, e Xabi non è mai stato così felice di avere, nell’ordine, un collega così strepitoso, e, soprattutto, la stima di un collega così strepitoso.
«Sei un angelo, Raúl,» dice, e, tanto per coronare il miracolo, dalla curva duecento metri più in là sbuca proprio il suo autobus. «Tra venti minuti sono là.»
«Fantastico,» replica Raúl, il sorriso paterno ancora chiaro nella sua voce. «Non dire ad Iker che ti ho chiamato,» aggiunge, e poi: «Comunque non c’è nessuna fretta.»
«Oh, per favore, non mi perderei un’aniridia neppure se fossi sul letto di morte.»
Raúl ride di nuovo.
«Lo immaginavo,» dice. «Ma ho voluto precisarlo, sai, per scrupolo di coscienza.»
*
Tutto l’ospedale è in subbuglio per l’aniridia spuntata a sorpresa nel pronto soccorso e per l’incidente a catena di questa mattina, perciò nessuno bada più di tanto al fatto che Xabi sia di nuovo in camice: alcuni - per esempio Iker, che Xabi incontra uscendo da un controllo di routine ad una ragazzina appena operata di appendicite, lo saluta con il solito cenno del capo, e gli ci vogliono ben tre passi e mezzo per processare il fatto che, ehi, Xabi non dovrebbe essere qui; tre passi e mezzo, comunque, sono un tempo più che sufficiente perché lui se la dia a gambe, rifugiandosi nella camera di una partoriente - perché sono troppo stanchi o troppo impegnati; tutti gli altri, invece, sono da un pezzo rassegnati al fatto che Xabi, semplicemente, non se ne va mai.
*
«Non riesco a credere che abbia avuto la faccia tosta di tornare,» dice Iker, arrabbiato e offeso come se fosse un ebreo che ha appena assistito al Secondo Avvento o qualcosa di simile. David, impegnato a controllare che il sugo non si attacchi al fondo della pentola, sorride, e un po’ si volta per osservare il suo compagno sfogare la sua furia indomabile su un’innocente carota. «Riesci a crederci? È stato in piedi due giorni ed è tornato così, come se nulla fosse. È pazzo, è veramente pazzo.»
«È solo un maniaco del lavoro,» lo blandisce David, la voce più bassa di un’ottava rispetto al solito perché, ehi, è un uomo sveglio e sa come far impazzire il suo Iker. Già che c’è, si sporge a dargli un bacio leggerissimo sulla punta dell’orecchio, e sorride, il cuore gonfio di tenerezza, quando Iker s’imbroncia un po’ di più, avvampando come un ragazzino.
«Finirà per ammazzarsi,» sbotta, gettando la carota praticamente polverizzata in un’enorme scodella già piena di insalata e passando ad affettare un pomodoro.
«Speriamo almeno che riesca a finire il tirocinio, prima, altrimenti sarebbe un peccato,» replica David, allegramente, e quando Iker si volta a lanciargli un’occhiataccia ne approfitta per premergli contro le labbra una cucchiaiata di sugo. «Com’è?»
Iker assaggia con la punta della lingua - David deve respirare molto a fondo per impedirsi di mandare al diavolo sugo, cena e tutto quanto in nome dell’impossibile voglia che gli si mette a ruggire nel petto, - chiude gli occhi per un attimo - respira, David, respira, - e alla fine sorride.
«È buono,» sentenzia, e poi piega il collo in avanti per prendere in bocca l’intera cucchiaiata di sugo. David non ce la fa più a respirare. «Puoi buttare la pasta.» E solleva un pollice, forse perché vorrebbe ripulirsi le labbra, ma non esiste che David lo lasci fare; mette via il cucchiaio e il coperchio, ferma la mano di Iker afferrandogli il polso forse con un po’ troppa forza e si china quel tanto che basta per baciarlo pienamente sulla bocca, attirandolo a sé.
Iker mugola piano, rispondendo all’istante al suo bacio e sollevando la mano libera per intrecciare le dita ai capelli di David e giocarci distrattamente, mentre permette alla sua lingua di invadergli la bocca. Si separano con un gemito umido, le labbra arrossate e lucide e le guance di Iker in fiamme; David sorride e spegne il fornello, prima di baciarlo di nuovo.
«La cena,» bisbiglia Iker, separandosi un attimo da lui e strofinando il naso contro il suo, il più dritto e perfetto del mondo; intanto una mano di David sta disegnando ghirigori insensati sulla sua schiena ed è tutto così fantastico che neppure gli evidenti tentativi di ammazzarsi di lavoro di Xabi hanno più importanza.
Non sono molte le cose capaci di distrarre Iker dalla sua missione di vita - ovvero, fare da chioccia a chiunque nell’ospedale, con la medesima ossessività che c’impiega Raúl e un pizzico di acidità in più, - ma David Beckham ha dimostrato, in più di un’occasione, di essere forse l’unico in grado di far fare ad Iker qualsiasi cosa, e questo comprende dimenticarsi del benessere dei suoi pupilli, andare sulle montagne russe e mettere ordine nei cassetti delle mutande. E tornare a casa, da intendersi come la casa in cui è nato e cresciuto, casa con mamma, papà, Unai e una caterva di parenti assortiti, ogni anno, per la cena di Natale.
*
«Alonso, ma sei di nuovo qui?»
«Uhm, sì, dottor Mourinho, evidentemente sono di nuovo qui. Ma le assicuro che ho dormito più che a sufficienza, non costituisco un pericolo per me stesso né per gli altri.»
«Voglio sperare, ragazzo,» Mourinho sbuffa, e poi: «Scommetto che sei qui almeno dalle sei, e non ho nessuna intenzione di pagarti gli straordinari, perciò finisci questo giro di visite e tornatene a casa, prima che qualche sindacalista mi salti alla gola.»
«Naturalmente, dottor Mourinho.»
«Sono serio, Xabier. È un ordine..»
E Xabi è troppo intelligente per disubbidire ad un ordine, corsivo incluso, soprattutto quando Mourinho usa il suo nome per intero, perciò finisce il giro e, come promesso, alle due meno un quarto è in macchina, pronto a tornare a casa. Non crede che i sindacalisti lavorino, a quest’ora, ma non gli costa nulla sperare che almeno qualche cane rabbioso abbia voglia di assaggiare sangue portoghese, stanotte.
*
Il grande giorno arriva senza che nessuno se ne ricordi, e Steven Gerrard varca la soglia del Real Madrid - il vero nome dell’ospedale sarebbe Regal Maria Madre de Dios, ma i camici dei dottori sono bianchi e Regal Maria Madre de Dios è veramente lungo e il senso dell’umorismo dei dottori uomini è quello che è, perciò ormai il soprannome ufficiale è quello e lo usano pure i pazienti e tutti quanti in città, e non c’entra nulla il fatto che Florentino Pérez abbia finanziato praticamente di tasca propria la ristrutturazione dell’intero edificio, davvero, non c’entra niente, - senza tappeto rosso né fanfare né trombe né rulli di tamburi né folle di infermiere entusiaste a chiedergli l’autografo.
Non è che si aspettasse un’accoglienza del genere, per carità, capita tutti i giorni di assumere il miglior neurochirurgo al mondo, no? No, infatti, non capita, e, d’accordo, magari Steven - Stevie, meglio ancora, - si rende conto che organizzare un concerto in suo onore nell’atrio sarebbe stato un po’ eccessivo, ma perlomeno potevano mandare qualcuno a fargli da guida, a offrirgli un dolcetto.
E invece no.
Come un novellino qualsiasi, Stevie deve farsi largo tra le persone accalcate nella sala d’aspetto principale - è già periodo di influenza, pensa, resistendo all’impulso di coprirsi la bocca con la manica del maglione solo perché sarebbe immensamente maleducato ma soprattutto perché si rende conto che neppure la metà di questi pazienti è davvero affetta da qualcosa, la maggior parte sono solo disperati in cerca di attenzione e ipocondriaci, - per raggiungere la reception, dove impiega cinque minuti buoni ad attirare l’attenzione di un’infermiera.
«Sa dirmi dove trovo l’ufficio del dottor Mourinho?» chiede, e si acciglia quando il suo spagnolo più che decente gli fa guadagnare un’occhiata stranita da parte dell’infermiera suddetta.
«Terzo piano, subito a destra, la porta in fondo al corridoio,» dice la donna, sgarbatamente. «Non scomodarti fin lì, se non hai un appuntamento.»
«Grazie mille,» sbotta Stevie, anche se tutte le cellule del suo corpo gli strillano a gran voce di schiantare un cazzotto infinito in mezzo agli occhi dell’infermiera e insegnarle le buone maniere e com’è che ci si rivolge al miglior neurochirurgo del mondo, e si avvia in direzione degli ascensori.
Si ferma accanto ad altri due dottori in attesa di un ascensore, mantenendo, tuttavia, una cortese distanza da loro. I due non si avvedono di lui, comunque, tutti presi da un’animata conversazione che, per quel che Stevie riesce a cogliere - anche se non sta affatto origliando, - riguarda il colore delle tende di un qualche soggiorno e poi il preoccupante stato di salute di un certo... Shabbi, che dev’essere tipo il nome - pessimo - di un cane o qualcosa di simile.
L’ascensore arriva con un pigolio soddisfatto, i due dottori entrano e Stevie li segue, restando rispettosamente indietro di un passo, facendo una mentale danza di vittoria sull’infermiera maleducata al grido di è così che ci si comporta tra persone civili, razza di barbara.
Uno dei due dottori - incredibilmente biondo e bello, ma non è che Stevie sia abituato a notare cose come la bellezza degli altri uomini, chiaro, - si allunga a premere il bottone per il quarto piano sulla pulsantiera, e poi si volta verso Stevie.
«A che piano va?» chiede, e per un attimo Stevie pensa, chissà che non sia inglese anche lui, perché c’è un vaghissimo accento britannico, nel suo spagnolo, e poi, andiamo, è un tale gentiluomo.
«The thir-- al terzo,» risponde, mordendosi un attimo la lingua per l’inglese che gli è scivolato spontaneamente dalle labbra, ma il dottore sorride un po’ di più e pigia anche il suo bottone. Le porte si richiudono con un sibilo sottilissimo, e Stevie si distrae a bestemmiare mentalmente la propria lingua madre traditrice.
L’altro dottore, intanto, - non il biondo, quello moro e così evidentemente spagnolo che non potrebbe essere più spagnolo neppure se si dipingesse la faccia di rosso e di giallo, - bisbiglia qualcosa, e Stevie si sente improvvisamente osservato. Sospira, ma continua a maledire parole a caso dal suo Collins mentale.
David - il dottore biondo ed educato, naturalmente, - piega lievissimamente il collo di lato verso Iker, e aggrotta le sopracciglia.
«Non dire sciocchezze,» mormora, così piano che, più che sentire la sua voce, Iker deve interpretare il movimento delle sue labbra. Non che sia un’attività spiacevole, comunque, per carità. «Non è abbastanza alto per essere lui.»
«Ti dico che è lui,» dice Iker, ficcandogli due dita nel costato e strappandogli un sibilo indispettito. «Deve essere lui, sono sicuro che Mourinho disse che sarebbe arrivato oggi.»
«Ma non può essere oggi. Non può essere oggi, Pepe è rimasto tranquillo tutta la settimana.»
«Sì, ma ha avuto un sacco da fare,» ragiona Iker, avvicinandoglisi di più. «E poi lo sai com’è Pepe, è un disastro con le date. E poi scusa, se non è lui allora che ci fa un inglese in un ascensore del Real Madrid? E hai visto che va al terzo piano, deve per forza avere un appuntamento con Mourinho!»
«Amore, non lo so,» bisbiglia David, e poi si morde l’interno di una guancia, accorgendosi dell’errore. «Sì, sì, scusami. Non lo so, Iker, va bene così? Non lo so.»
«Magari se la piantiamo di bisbigliare come due adolescenti impiccioni e glielo chiediamo?»
«E se poi è lui? Ti rendi conto della figura di merda?»
«Peggio di aver passato mezz’ora a bisbigliare sotto il suo naso come due adolescenti impiccioni?»
«Amo-- Iker, ho capito che ti senti un adolescente impiccione, ma ripetilo di nuovo e potrei decidere di invitare Guti a cena, uno di questi giorni,» anche se non lo farebbe mai, o almeno Iker spera che sia così. Santo cielo, ti prego, fa’ che sia così. «Comunque, va bene, ora glielo chiedo, sei contento?»
Ma l’ascensore si ferma al terzo piano con un arzillo scampanellìo, e Stevie, il ritratto stesso della più distratta ingenuità, ne esce, con un brevissimo cenno di saluto ai due dottori.
«Oh, fantastico,» brontola Iker, mentre le porte si richiudono. «Ora dovremo aspettare almeno due ore per sapere se era lui. Se solo non ti piacesse così tanto bisbigliare come un adolescente impiccione.» David gli dà un leggero - ma neppure troppo - schiaffo sulla nuca, allora, e poi tira fuori il cellulare per mandare un messaggio a Guti.
*
L’ufficio di José Mourinho è arredato con poco più dell’essenziale - un’ampia scrivania di legno scuro davanti alla vetrata che dà sul cortile dell’ospedale, due grossi schedari, anch’essi di legno, allineati contro la parete e, di fronte, una libreria alta fin quasi al soffitto, stipata di tomi dall’aria antica e polverosa; due poltrone davanti alla scrivania e in un angolo un divano di pelle dall’aria vissuta, con un basso tavolino da caffé e una lampada a stelo lungo di rame, piegata come un girasole verso la seduta, - e Stevie si ritrova ad annuire pensosamente a se stesso, in sincera approvazione della semplice eleganza dell’ambiente.
Il dottor Mourinho è chino su una pratica e gli fa cenno di aspettare un secondo, senza neppure guardarlo; passa davvero soltanto un secondo, però, prima che metta via la penna e i documenti e si rilassi contro lo schienale della poltrona, sollevandosi poi in piedi e puntando su Stevie uno sguardo incredibilmente acuto e invadente.
Gli va incontro, allora, e Stevie è quasi a disagio sotto l’esame dei suoi occhi castani screziati di verde, ma Mourinho gli sorride appena, con una certa difficoltà, come se il suo viso non sapesse bene come fare, e tanto basta a tranquillizzare un po’ l’inglese.
«Dottor Gerrard, è un piacere incontrarla di persona,» dice Mourinho, porgendogli una mano, e Stevie la stringe, sorride, annuisce, ma prima che possa replicare qualcosa Mourinho riprende: «Prego, si accomodi,» lo invita, indicando le due poltrone al di là della scrivania, e Stevie si avvia ad occupare quella a destra senza neanche più l’ombra di un’esitazione nel cuore.
«Mi chiami Stevie,» dice, prima ancora di sistemarsi la giacca, e Mourinho, di nuovo seduto al suo posto, sembra, per qualche assurda ragione, piacevolmente colpito.
«Stevie,» dice, come se volesse assaggiare il nome e familiarizzare con il suono. «Molto bene, Stevie. È un piacere averla qui a Madrid. La città è di suo gradimento?»
«Per quello che ho avuto modo di vedere, è splendida,» annuisce Stevie, quasi distrattamente, poi si morde la punta della lingua per trattenere un sorriso. «Dottor Mourinho, la prego, siamo due uomini adulti. Se mi conosce come un appassionato di convenevoli, devo rivelarle che non è affatto così.»
«La conosco come un uomo educato,» ribatte Mourinho, senza sarcasmo e senza scomporsi minimamente, ma c’è uno scintillio furbo nei suoi occhi che suggerisce a Stevie che, finora, si sta comportando nel migliore dei modi, e che a Mourinho piace. «Se abbiamo finito con le sciocchezze, allora, direi di passare ad argomenti seri.»
«Non chiedo di meglio.»
*
Iker sa che dovrebbe ritenersi un uomo vergognosamente fortunato, davvero, lo sa: fa il mestiere che ha sempre sognato di fare, non ha problemi economici e non ce li avranno neppure i suoi eredi per le prossime tre o quattro generazioni almeno, ha una famiglia un po’ disfunzionale ma tutto sommato affettuosa e unita, è innamorato da morire di un uomo splendido sotto tutti i punti di vista, che è anche il suo migliore amico e che, sorpresa delle sorprese, ricambia appieno l’assurdamente intenso sentimento che Iker nutre nei suoi confronti, quale che sia il nome di questa cosa, eppure, quando Mourinho compare nel suo reparto nell’unico minuto di qualcosa come gli ultimi cinque anni in cui Iker ha deciso di prendersi una stracazzo di pausa, beh, non può fare a meno di pensare, Dio, sono uno sfigato pazzesco.
Però Mourinho non si gonfia tutto e non comincia a urlare improperi in tutte le lingue del mondo, come di solito fa quando li becca a oziare in orario di lavoro, quando dovreste essere in giro per questo stracazzo di ospedale a sputare sangue e meritarvi i soldi di cui vi riempio ogni fine del mese, razza di presuntuosi scansafatiche viziati annegati nel benessere, per usare una delle sue espressioni formulari preferite, e questo fatto va dritto dritto ad aggiungersi alla lista di motivi per cui, se una giustizia esistesse, Iker andrebbe bruciato al rogo per la quantità di fortuna che gira nella sua esistenza. Oh, beh.
Semplicemente, il portoghese gli scocca una brevissima occhiataccia, e Iker si affretta a mettere giù il caffè e farsi apparire tra le mani una cartella su cui comincia a scrivere furiosamente. Accanto a lui, Pepe, infermiere capo e giullare di corte, brontola qualcosa sulla generale iniquità dell’universo, perché l’ultima volta che Mourinho ha visto lui con un caffè in mano ha tirato giù una quantità tale di santi dal Paradiso che avrebbero potuto riempirci uno stadio.
«E non ero neppure al lavoro, stavo comprando un regalo di compleanno per Grecia insieme a Yolanda!» sbotta, scandalizzato, ma Mourinho impone il silenzio con un colpetto di tosse.
«Signori,» dice, apostrofando il cospicuo gruppetto di infermiere, infermieri e medici che si è affrettato a raccogliersi nel piccolo atrio, incuriosito dall’insolitamente tranquilla apparizione del capo. «Da oggi avrete un nuovo collega, il dottor Steven Gerrard,» si sposta di un passo, e l’attenzione di tutti si concentra sull’uomo alto e sorridente ora accanto a lui, che rivolge un cenno di saluto un po’ imbarazzato alla platea sbalordita. «Potreste aver già sentito il suo nome,» prosegue Mourinho, senza neppure far finta di trattenere il ghigno compiaciuto che gli si fa spazio sul viso. «Ma non c’è da stupirsi, è soltanto il miglior neurochirurgo del mondo.»
Stevie vorrebbe ucciderlo, vorrebbe davvero, ma viene assaltato da mezza dozzina di tirocinanti praticamente in estasi mistica, ed è troppo occupato a ripetere, «Chiamatemi Stevie, chiamatemi Stevie,» e a tentare di resistere all’istinto di scaraventarli contro una parete.
La miriade di domande da cui si ritrova tempestato non è esattamente fanfare e trombe, ma come inizio - come secondo inizio, - comunque non c’è male.
*
Per una volta, Xabi è molto felice di lasciarsi cadere su una delle spaventosamente scomode seggiole di plastica della mensa. È ora di pranzo, la sala è strapiena di colleghi in camice che chiacchierano gioiosamente e si foderano lo stomaco di roba plausibilmente commestibile ma che, al di fuori del disperato microcosmo di un ospedale, nessuno toccherebbe neppure con un bastone lungo cinque metri, e lui può godersi la compagnia di Nagore, tirocinante come lui, nonché l’unica, in tutto il Real, che capisca e condivida la sua stakanovista devozione al mestiere.
A giudicare dalla dimensione e dalla tonalità dei cerchi scuri sotto i suoi occhi, Nagore è in piedi da almeno sedici ore, e quella che ha davanti dev’essere la quarta o quinta tazza di caffè da quando ha iniziato la veglia. Tormenta distrattamente un uovo con la forchetta di plastica della mensa, e non batte ciglio quando Xabi, sedendosi di fronte a lei, sospira.
«Ciao,» dice, continuando a infilare e sfilare i rebbi dal tuorlo sodo come se stesse studiando chissà che forma di vita aliena. «Non pranzi?»
«Già fatto,» dice Xabi, e non è una bugia, davvero, potrebbe giurarlo sulla sua collezione di DVD del Dottor House. Nagore lo guarda, finalmente, e il suo sguardo un po’ assente si fa d’improvviso serio e concentrato. Alla fine, gli spinge davanti il suo budino. Xabi ci si tuffa su senza farselo ripetere due volte, sfilandosi un cucchiaino di plastica da una tasca segreta del camice, perché il budino è più o meno l’unica cosa dal sapore davvero decente che si trovi alla mensa eppure, per qualche assurda ragione, di tutto il personale lui è il solo ad apprezzarne le qualità.
«Buon appetito,» ridacchia Nagore, e Xabi annuisce appena, distratto dalla quantità di dolcezza e zucchero che gli esplode sulla lingua e, Dio, sì. «Hai sentito la novità?»
No, Xabi non ha sentito nessunissima novità, perciò dà un grugnito che spera suoni sufficientemente negativo. Nagore ricomincia a tormentare l’uovo sodo, e Xabi ingoia un boccone particolarmente grosso di budino.
«No, non ho sentito,» articola, e il modo in cui ha la bocca ancora impastata di budino è forse la cosa più bella del mondo dopo un’operazione ben riuscita, e sicuramente la più buona. «Che è successo? Un’altra malattia rara?»
«No, no,» scuote il capo Nagore, e lo guarda da sotto in su con un’espressione che significa, vorrei tanto, ma no. Xabi sospira e si ricorda una volta di più del perché Nagore gli piaccia tanto: laddove tanti altri si sarebbero scandalizzati, accusandolo di essere un mostro insensibile e senza cuore e bla bla bla, lei è sinceramente partecipe dei suoi desideri, delle sue difficoltà, del suo gelido interesse scientifico. «No, pare che Mourinho ce l’abbia fatta.»
«A fare cosa?»
Un’altra cucchiaiata, e il budino è quasi finito.
«Hai presente quel neurochirurgo inglese, quello cui stava facendo la corte da anni... Steven Gerrard?»
«Uh-huh,» e addio, budino, sei stato buonissimo, per cui Xabi gratta il fondo della confezione distrattamente col cucchiaino, raccogliendo fino agli ultimi atomi.
«Ecco. L’ha assunto, alla fine. È arrivato stamattina, ha già fatto un’operazione di routine per familiarizzare con la sala.» Nagore si morde le labbra. «È un bell’uomo davvero, sai?»
«Nagore!» ride Xabi, mettendo giù cucchiaino e vasetto e chinandosi appena verso di lei. «Nagore, non pensavo fossi una di quelle donne!»
Lei si sporge sul tavolo e gli dà una sonora manata in piena fronte, oltraggiata.
«Non partire per la tangente, Alonso,» dice, sorridendo appena quando lui si lagna per il dolore. «Non ho mica detto che me lo porterei a letto per avere un posto fisso in questo ospedale o per convincerlo a svelarmi i suoi segreti del mestiere, oh.»
Xabi ridacchia, e guarda un po’ il pulitissimo vasetto di budino prima di risollevare gli occhi su di lei.
«Mi farebbe piacere conoscerlo,» dice, e Nagore solleva un eloquente sopracciglio. «Non per sedurlo a fini molto poco etici, grazie tante,» ride. «È un santone della chirurgia di fama mondiale, no? Ho letto cose interessanti sul suo lavoro e mi farebbe piacere conoscerlo in via del tutto professionale.»
Nagore sbuffa, divertita.
«Dimenticavo che passi quel poco tempo libero che hai a farti una cultura su cose che non c’entrano nulla con la tua amata cardiochirurgia,» dice, e poi nota qualcosa alle spalle di Xabi. «Comunque ehi, se vuoi conoscerlo non potresti essere più fortunato. È lì, il tuo Dottor Fantastic,» e fa un cenno col mento dritto davanti a sé. Xabi si volta, non molto discretamente, e distingue subito il profilo dell’inglese, seduto ad un tavolo assieme ad altri dottori e infermiere che sembrano pendere miseramente dalle sue labbra. Steven Gerrard - Xabi ha visto una caterva inquantificabile di sue fotografie, in camice e in borghese, in sala operatoria e fuori, - sta raccontando qualcosa di evidentemente divertente a dei suoi colleghi, ed è un po’ surreale, a pensarci, che un giovanissimo luminare della neurochirurgia sia volato nel giro di una notte dall’Inghilterra a Madrid e ora lavori qui semplicemente perché Mourinho è un bastardo fottutamente convincente e ha alle spalle una quantità di finanziatori così pieni di soldi da fare schifo.
Xabi scuote lievemente la testa, quindi; Nagore lo guarda con un’espressione curiosa, affonda la forchetta in una fetta di pomodoro e la usa per indicare di nuovo Gerrard.
«Che aspetti?» chiede, e Xabi si morde la punta della lingua, perché come fa a spiegarle che si sente tremendamente simile ad un tredicenne terrorizzato dal ragazzino più popolare della scuola? Dio santo, lui non ce li ha mai manco avuti, tredici anni. Mentalmente, almeno. «Xabi? Xabi? Ci sei? Ehi? Xabi?»
«Va bene, va bene, ci vado a parlare,» si arrende lui, esasperato, perché sa perfettamente che Nagore non lo lascerebbe in pace prima di vedere il suo cervello saltar fuori dal cranio, e poi passerebbe perlomeno mezza giornata ad esaminarlo per capire esattamente come funziona; si alza in piedi, cerca di darsi un contegno, si aggiusta il camice sulle spalle e lei sorride, soddisfatta, mentre Xabi si avvia a distruggere la propria - futura - reputazione di chirurgo rimediando una tremenda figura di merda con nientemeno che Steven Gerrard.
Nei cinque, sei metri che li separano, Xabi tenta disperatamente di trovare un argomento di conversazione possibilmente più articolato del semplice, patetico ‘salve, sono Xabi Alonso e sono un suo grande ammiratore,’ che continua a ronzargli tra le tempie, e quasi non si accorge di aver praticamente raggiunto il suo tavolo. Oh, cazzo.
Si riscuote solo quando sente la voce di Steven - conosciuta attraverso centinaia di interviste e documentari e programmi radio e persino una conferenza cui Xabi s’è trovato ad assistere proprio all’inizio dei suoi studi medici, quando Steven era già una giovane promessa e lui appena un ventiquattrenne laureato in Economia che stava cercando una nuova, più interessante materia di studi, - parlare uno spagnolo sorprendentemente buono, e Xabi impiega un attimo a sintonizzarsi sulle sue parole, perché già si aspettava di sentirlo chiacchierare in quella terribile e incomprensibile variante dell’ostrogoto che alla gente di Liverpool piace far passare per inglese.
«Sì, infatti, sono assolutamente d’accordo,» sta dicendo Steven, in risposta al dottor Schuster seduto di fronte a lui. «Questi budini sono tremendi.»
E fu così che Xabi Alonso cominciò a detestare Steven Gerrard.