[RPF] There is something in the Thursday (8/14)

Jan 14, 2011 19:29

Titolo: There is something in the Thursday (that makes a body feel alone)
Fandom: RPF Liverpool/Real Madrid/Napoli
Personaggi/Pairing: Steven Gerrard/Xabi Alonso, più o meno tutto il Liverpool, Ezequiel Lavezzi (♥)
Rating: NC17
Conteggio Parole: 6040 (*si va a nascondere*) (fidipu)
Prompt: Steven Gerrard/Xabier Alonso, "You should've seen the look on Gerrard's face" (Coro di Xabi Alonso) per il p0rn fest #4 di fanfic_italia.
Avvertimenti: slash, ANGST, MA TANTO, A PALATE, NON FATEVI INGANNARE, porni vari ed eventuali, Jamie Carragher nudo
Note: Il titolo è rubato a Johnny Cash, amor della mia vita, (~ Sunday Mornin' Comin' Down), con una lieve modifica perché, beh, nell'originale si parlava di domeniche, a me interessava il giovedì.
- Liverpool-Napoli (girone di ritorno dell'Europa League) si è giocata ad Anfield giovedì 4 novembre 2010. Da tifosetta sentimentale come sono, l'ho amata come poche altre partite nella mia vita. Se avrò dei figli, li costringerò a guardarla ogni domenica. Il nostro Natale sarà il quattro novembre. Capitemi, non ce la potevo fare a non scriverne. Non ce la potrò fare a non scriverne ancora.
- QUESTA STORIA E' MATTA. Io spero che si capisca, che non vi faccia cascar gli occhi per la confusione, che, non lo so. Insomma. Vi voglio bene? *si va a nascondere ma siccome ride la sgamano tutti subito*
- Il bene che voglio a Lavezzi non è quantificabile. ♥
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.



~ There is something in the Thursday
that makes a body feel alone.

Then I headed down the street,
And somewhere far away a lonely bell was ringing,
And it echoed through the canyon
Like the disappearing dreams of yesterday.
Johnny Cash - Sunday Mornin' Comin' Down

Well it started out just like a dream
And like a dream I knew that
what we had would have to end,
because I was lookin' for a lifetime lover.
Jim Croce - Thursday

Steven è così completamente felice che gli sembra di stare sognando. Gli riesce sempre più difficile trattenersi dal sorridere mentre percorre il campo in lungo e in largo per salutare gli avversari, stringere mani e sentirsi borbottare contro complimenti che suonano come insulti. Anfield canta dappertutto attorno a lui, così forte da disturbare la quiete della notte fino alla fine dell’universo, ed è tre volte più bello di qualsiasi altra cosa Steven abbia mai visto - per un momento, lo stadio è più bello persino delle sue figlie.
Lavezzi gli viene incontro con una smorfia, dritto dritto e piccolissimo nella sua maglia azzurro cielo, e lo strattona a sé, stringendolo in un abbraccio impacciato e goffo, sincero. Nascosto contro la sua spalla, finalmente Steven cede alla risata che gli tira gli angoli delle labbra, e poi, quando Lavezzi si scosta da lui, vagamente indispettito, gli rivolge un sorriso incerto di scuse. L’argentino scuote la testa, alzando gli occhi al cielo, e poi scrolla le spalle e si allontana senza una parola; Steven segue per un attimo i suoi passi decisi sul campo, la folla di fotografi e telecamere che si congela e si affretta a fargli spazio, poi torna ad incantarsi sullo spettacolo di rosso che invade lo stadio.
Sorride, dondolandosi un po’ scioccamente sui piedi indolenziti, e trema, quando si accorge di avere ancora nelle ossa l’eco dei tre tonfi duri e netti del pallone sbattuto contro la scarpa e poi spedito a sfondare la porta.
È un rumore sempre perfetto e spaventoso che Steven aspetta ogni volta che scende in campo: lo teme, perché quella del gol è una responsabilità brutta e pesante, ma soprattutto lo ama, perché la sua divisa e la fascia di capitano acquistano un senso solo per quel suono, per quel lamento del cuoio, quasi impercettibile sotto il frastuono dello stadio. È un rumore terribile, quando lo senti nella tua metà del campo, ma è il più bello di tutti, quando per tre volte nella stessa partita ti squassa la gamba, promettendo e giurando che andrà a segno.
Steven chiude gli occhi, sotto la Kop, le braccia spalancate a stringere a sé ogni singola voce che ancora non s’è stancata di tuonare il suo nome. Questa è una bella notte, decide, travolto da tutto, ed è così felice e andato - ha segnato una tripletta, lui, Steven Gerrard, rivoltando come una Gesùcristo di frittata una partita che sembrava già assolutamente chiusa, - che quasi non sente la mano che gli stringe forte una spalla. Quando finalmente si volta, sulla faccia un sorriso che si rifiuta di spegnersi, il suo cuore, che finora si era comportato così bene, un piccolo motore a benzina piantato a martellargli testardo nel petto, che spingeva furioso il sangue da tutte le parti, di punto in bianco smette di funzionare, senza neppure un gemito di preavviso. Si ferma, pacifico, strizzato nell’ennesima sistole della nottata, e poi goffamente si contrae ancora, come volesse annullarsi su se stesso, e Steven deve respirare a fondo due o tre volte perché quel poveraccio si riavvii per bene.
«Dio,» soffia intanto, a corto di fiato e parole e anche soltanto della capacità di credere a quello che ha sotto gli occhi. «Dio.»
C’è Xabi, con una sciarpa rossa su cui è ricamato in enormi lettere bianche You’ll Never Walk Alone avvolta intorno al viso fino alle orecchie, ma comunque è Xabi, Steven lo riconosce subito: Dio, non può essere che Xabi, chi altri nel mondo ha degli occhi così? Ecco, c’è Xabi e Xabi fa un sorriso così grande che gli angoli della bocca spuntano da sotto la lana e, prima ancora che si decida ad allargare le braccia, Steven gli si è già buttato addosso per stringerselo contro, perché per un secondo ha pateticamente pensato che questa notte bellissima potesse essere una sua piccola Istanbul personale, e nessuna Istanbul va bene senza Xabi.
«Dio!» ripete ancora Steven, adesso ridendo direttamente sull’orecchio di Xabi. «Che cazzo ci fai qui?»
Anche Xabi scoppia a ridere, stringendo un po’ la presa attorno ai fianchi di Steven e seppellendosi di più contro il suo collo. Con la sua sciarpa e il cappotto e chissà quanti miliardi di maglioni e magari un po’ anche l’emozione Xabi è impossibilmente caldo, e per Steven è una sofferenza scostarsi da lui, sciogliere l’abbraccio per cercare i suoi occhi e il suo sorriso e darsi una parvenza di dignità mentre dentro si sente morire di gioia.
Vorrebbe chiedergli ancora perché è ad Anfield, perché proprio oggi, - vorrebbe ringraziarlo, in effetti, per essere ad Anfield oggi, ora, così, con la punta del naso rossissima per il freddo e gli occhi enormi e le mani troppo in basso sui suoi fianchi, - e soprattutto vorrebbe baciarlo, ma questo non è una novità, perché baciarlo è una cosa che Steven vorrebbe non dover mai smettere di fare. Non riesce a spiccicare neppure l’ombra di una parola, comunque, le mani ghiacciate premute sulle guance tiepide di Xabi e il suo sguardo addosso, e a salvarlo arriva tutto il resto della squadra, tutto il resto del mondo, che si lancia su di loro urlando, festeggiando il Captain Fantastic che, per come la mette Pepe, stanotte è tre volte più fantastico del solito.
In qualche modo arrivano tutti indenni fino allo spogliatoio, e l’intero tragitto è per Steven un insieme confuso e sfocato di grida, pacche sulla schiena e magliette rosse sventolate contro il cielo nero e le facce bianche dei tifosi avversari. Si accorge di aver percorso mezzo campo e poi tutto l’intricato labirinto di corridoi sotto Anfield solo quando Jamie lo scaraventa su una panca a caso, lanciandosi poi a coronare il saltellante abbraccio di gruppo che sta soffocando Christian, David e qualche altro poveraccio che Steven non fa neppure in tempo a riconoscere perché gli si para davanti un cappotto e dentro il cappotto c’è Xabi e non è che esista qualcosa che possa davvero distrarlo da Xabi.
«Ehi,» lo saluta Steven, sorridendo, e quando fa per alzarsi Xabi lo inchioda dov’è, chinandosi verso di lui.
«Sei stato incredibile,» mormora, la bocca e quel respirare caldo quasi sul suo collo e il sorriso tremendamente vivido nella sua voce, e Steven rabbrividisce; chiude gli occhi, sospira e non riesce a non voltarsi un po’ verso di lui e baciarlo. Nemmeno gl’importa che lo spogliatoio intero possa vederli, e Xabi gli viene incontro dopo un momento, premendo pienamente le labbra sulle sue, ed è come ritrovare al buio la strada di casa. Steven cerca a tentoni le sue mani e, quando le trova, intreccia le dita alle sue e le stringe forte.
Jamie e Pepe, tre metri più in là, si danno da fare per distrarre il mondo dal momento molto privato del capitano, e in qualche modo riescono a convincere tutti che è ora di farsi una doccia. Jamie sbotta contro Steven una battutaccia da sopra la propria spalla, ma rimane miseramente inascoltato e schioccando piccato la lingua segue gli altri nella stanza accanto.
Steven allontana le labbra da quelle di Xabi con un sospiro impercettibile, ma si rifiuta di aprire gli occhi e gli resta comunque vicinissimo, respirando l’odore buono del suo viso. Xabi, muovendosi piano, si accovaccia tra le sue gambe, schiuse quel tanto che basta per fargli spazio, e attira a sé le loro mani strette insieme. Steven sorride, tranquillo, in pace. Intreccia le caviglie dietro la schiena di Xabi, intrappolandolo lì, ed ecco, adesso Liverpool è davvero Istanbul.
«Sono felice di vederti,» dice, alla fine, riaprendo gli occhi e scostandosi da Xabi quel tanto che basta a guardarlo bene. Lui sorride, appena un po’ imbarazzato, e annuisce piano.
«Sono felice anch’io,» bisbiglia, gli occhi bassi per chissà quale pensiero che gli ha attraversato la testa, e Steven si sente scoppiare d’amore. «Giocare mi manca un sacco,» sospira. «Giocare con te, voglio dire.»
Steven fa del proprio meglio per ricacciare sul fondo della gola tutte le battute indisponenti e amare che gli premono sulla lingua, e si limita ad accarezzargli una guancia col dorso della mano, invitando Xabi a guardarlo per incontrare il sorriso lieve che gli solleva gli angoli delle labbra.
«Lo so,» mormora Steven, soltanto, e si spaventa, all’improvviso, quando, in un battito di palpebre, gli occhi di Xabi non sono più umidi di lacrime ma solo grandi ed emozionati, felici. Non ci capisce più niente, poi, quando Xabi lo bacia brevemente e ridacchia, strizzando contento le dita contro le sue.
«Ho una bella notizia,» dice, e Steven spalanca gli occhi, a questo punto, perché, se è vero che non riesce a trovare una logica nell’improvviso entusiasmo di Xabi, è vero anche che la sua frase è così incredibilmente chiara che non c’è verso di interpretarla male, e allora nella sua testa cominciano ad affollarsi un miliardo di ipotesi riguardo questa bella notizia, e sono una più meravigliosa dell’altra - la finestra invernale di mercato la aprono tra meno di due mesi, no? E con la nuova presidenza e le nuove strategie e Hodgson che si sarà sicuramente reso conto del fatto che al loro centrocampo manca quella classe che nell’universo soltanto Xabi Alonso possiede, beh, Cristo, non è proprio proprio proprio da pazzi ubriachi pensare che Xabi potrebbe - potrebbe - tornare, no? Cristo. «Domenica posso giocare.»
«...eh?»
Steven è piuttosto sicuro di aver sentito male. Domenica posso giocare? Non ha alcun senso. Si rigira in testa le parole di Xabi - la sua bella notizia, - da tutte le parti, cercando di capire a quale domenica, a quale partita, a quale universo stia facendo riferimento, ma riesce solo a confondersi di più.
Xabi, per tutta risposta, ride. È bellissimo, tra l’altro, e Steven si distrae da morire, tanto che quasi si perde le parole immediatamente successive.
«Lo so,» sta dicendo Xabi, gli occhi che, un po’ entusiasti e un po’ nervosi e un po’ mortalmente educati, con quel fare così tipico di Xabi, insomma, volano dal viso di Steven alle loro dita ancora intrecciate e poi indietro, e di nuovo, e di nuovo. «I dottori avevano detto che prima di dicembre non sarebbe stato prudente farmi giocare, lo so, ma pare che avessero, com’è che si dice? Esagerato di proposito.» Ridacchia. «Sono a posto, Stevie. Torno a giocare.»
«...eh?»
Xabi ride di nuovo della sua espressione completamente persa, e se Steven riuscisse a non distrarsi così tanto dietro alla sua risata - Dio, quanto gli è mancata, - potrebbe anche fargli presente che purtroppo non sta scherzando, è seriamente incapace di mettere insieme i pezzi del puzzle che Xabi gli sta così gentilmente porgendo.
«Lo so, lo so,» dice ancora lo spagnolo, scuotendo appena la testa. «È incredibile e avrei voluto strozzarli, non capisco come abbiano potuto mentirmi tanto spudoratamente - è una cosa tremenda da dire, no? Ancora un mese senza giocare, come se una stagione intera non fosse bastata, e poi stamattina, dopo la visita, il dottore mi guarda con un sorriso che non finiva più, mi dà una pacca sulla spalla e mi fa, “Allora domenica fa’ un buon lavoro in campo, mi raccomando!” Che tipo! Riesci a crederci?» Fa un sorriso minuscolo, imbarazzato, e aggiunge, sottovoce: «Oggi dev’essere la nostra giornata.»
Steven riesce a trattenersi per miracolo dall’esalare il suo terzo “...eh?” consecutivo, e soltanto perché l’espressione di Xabi è così mortalmente adorabile da strappargli l’aria dai polmoni e, dalla testa, qualsiasi pensiero che non sia soffocato da cuoricini e zucchero di pessima qualità. La sua perplessità, comunque, deve trasparire in maniera piuttosto evidente dal suo volto, perché Xabi si acciglia.
«Steven?» lo chiama, pizzicandogli col pollice e la punta dell’indice il dorso di una mano. «Non sei, non saprei, contento di sapere che torno a giocare?»
Contento.
Steven ci pensa su seriamente, “Sono contento?”, si domanda, e la metà del suo cervello rimasta inceppata al terzo gol si mette subito a strillare istericamente “Sì, sì, sì, sì che sei contento, pezzo d’idiota! Sei euforico, sei in Paradiso, sei il fottuto Steven Gerrard, you’re big and you’re fuckin’ hard, e hai appena segnato una tripletta al Napoli! Certo che sei contento, ma ti sembrano domande da fare?!”; quell’altra metà, quella che è andata in black-out totale nell’istante in cui ha riconosciuto gli occhi nocciola di Xabi, dà un sospiro estasiato e annuisce, incapace di formulare un pensiero coerente. E a questo punto, a rigor di logica, il suo cervello dovrebbe essere finito, ma no, c’è una terza, minuscola briciola di materia grigia, neanche troppo importante, che, dal fondo della sua scatola cranica, continua ad arrovellarsi testarda sulle assurde parole di Xabi. E quel piccolo guastafeste d’un ammasso di neuroni dice che no, Steven non è proprio contento: perplesso, esterrefatto, confuso, istupidito sono gli aggettivi che meglio descrivono il suo stato mentale del momento.
Ad ogni modo, nella testa di Steven Gerrard vige la democrazia, perciò la maggioranza vince e la sua espressione incerta si scioglie immediatamente in un sorriso.
«Non sai neanche quanto,» mormora, e scioglie l’intreccio delle sue dita con quelle di Xabi per potergli stringere il volto tra le mani e baciarlo per bene, baciarlo con il cuore sulle labbra e poi la lingua persa nella sua bocca a ritrovare la curva familiare del suo palato, la chiostra perfetta dei denti e quel sapore incerto tra amaro e dolcissimo che è Xabi, da sempre.

*

Steven vorrebbe fare la doccia con Xabi, ma Xabi ride e lo bacia, scuotendo la testa.
«Domenica,» promette, con un sorrisetto malizioso, e Steven, sebbene non abbia ancora la più pallida idea di quello cui Xabi si riferisce, sente un brivido caldo di piacere corrergli giù lungo la schiena.
«Non te ne andare già,» dice, prima che Xabi faccia anche solo mezzo passo per allontanarsi da lui. «Puoi stare da me, Alex e le bambine non- non ci sono.» Rabbrividisce di nuovo, ma quasi di freddo, e dissimula il timore che ha con una scrollata di spalle - come se poi fosse possibile, per lui, ingannare Xabi. «Se ti va,» aggiunge, con un filo di voce, e Xabi gli si avvicina di nuovo, sorridendo appena.
«Ti aspetto nel parcheggio,» mormora, lo bacia ancora e poi, mentre varca la porta, si volta per fargli un brevissimo occhiolino. Steven rimane paralizzato sulla panca per almeno cinque minuti, felice ed eccitato e confuso e miserabilmente innamorato, poi sbuffa una risatina contenta e si lancia verso la stanza delle docce, da cui sente provenire i soliti canti e le battute di cazzo e i tristissimi tentativi di Jamie di parlare napoletano.
È proprio Jamie a farglisi incontro, in mezzo all’umidità fitta fitta e alle risate, con un ghigno immenso e la parodia di un applauso; Steven si sfila più in fretta che può la divisa e le mutande, ma non fa in tempo a togliersi i calzini che si sente afferrato praticamente di peso e scaraventato poco gentilmente sotto la doccia più vicina - «Il bagno dei campioni!», urla Pepe, e Steven fa del proprio meglio per non ridere ma non ci riesce, e quasi si strozza con l’acqua che prontamente tenta d’infilarglisi nei polmoni.
Mezz’ora più tardi tutta la squadra riemerge dalle docce, ed è uno spettacolo magnifico di pelle raggrinzita, capelli bagnati e asciugamani impugnati come fruste che scattano in tutte le direzioni. Steven non bada alla buona educazione, per una volta, e raggiunge il proprio borsone completamente nudo: va piuttosto di fretta, la doccia gli ha rubato già troppo tempo, ma è un rituale cui non si sottrarrebbe per niente al mondo e sa che Xabi - Xabi, Dio, è impressionante anche solo pensarci ancora, - più di ogni altro può capirlo, e non se la prenderà.
Fernando, che solo il cielo sa da dove è sbucato fuori, nota la rapidità con cui il suo capitano si friziona i capelli, tentando contemporaneamente d’infilarsi un paio di boxer puliti, e scoppia a ridere.
«Ehi, Stevie, rilassati, mica hai un appuntamento,» lo sfotte, e Steven si limita a scoccargli un’occhiataccia da sopra il suo quarto tentativo di tirarsi su i pantaloni con una mano sola mentre ha ancora le mutande attorcigliate all’altezza delle cosce. Dovrebbe rispondergli per le rime, in realtà, perché se pure i ragazzini si sentono in diritto di prendere per il culo il loro capitano ben presto l’intera squadra collasserà su se stessa, ma, sul serio, va troppo di fretta.
«Nando, Nando, lascialo perdere, sprechi fiato! Lo sai che, quando si tratta di Xabi, Stevie non capisce più niente, figurarsi se coglie le provocazioni,» ride Jamie, passando accanto a Steven e pungolandolo appena con una gomitata nel costato. Il povero torturato si volta appena per dirgli di tapparsi la bocca, che non è vero che non capisce niente, ma questo pensiero gli fa trillare un paio di campanelli in testa e allora Steven allunga un braccio e lo stringe attorno al collo di Jamie, strattonandoselo contro. Il suo vice inciampa nei suoi stessi piedi e precipita in avanti in un modo che sarebbe sicuramente mortale, se Steven non avesse l’accortezza di spingerlo seduto sulla panca che hanno davanti.
«Diiiiiiio, ma ti sei impazzito?» mugola Jamie, massaggiandosi il fondoschiena offeso, ma Steven non gli dà retta; si sistema in fretta e furia mutande e jeans e poi si siede accanto a lui, avvicinando il più possibile la testa alla sua, con fare molto cospiratorio.
«Jamie, è successa una cosa,» mormora, e si preoccupa di guardar male tutti quelli che si voltano nella loro direzione, agitando una mano in un cenno che chiunque nell’universo saprebbe tradurre come “stiamo avendo una conversazione privata, prego, gira al largo”. «Si tratta di Xabi.»
Jamie, che fino ad un attimo prima aveva messo su un cipiglio preoccupato, sospira teatralmente.
«Mi avevi quasi convinto che fosse una cosa seria,» borbotta, esasperato, e fa per alzarsi, perché non ha poi tutta ’sta voglia di farsi prendere per il culo, ma Steven lo trattiene afferrandogli un gomito.
«No, ascoltami, ascoltami,» dice, come se avesse da dire qualcosa di davvero urgente, e tanto basta per far capitolare ancora lo scetticismo di Jamie. «È una cosa seria.»
«Di che si tratta?» domanda, allora, paziente come gli capita di essere soltanto una volta al secolo - soltanto dopo partite tanto belle, e dopo che, tormentando per ore l’intero spogliatoio, è riuscito a sfogare le tonnellate di cazzonaggine che lo appesantiscono in continuazione nella vita di tutti i giorni.
«Prima, mentre eravate sotto la doccia e noi, beh, eravamo di qua,» Steven tossicchia, per un momento in imbarazzo, poi recupera il controllo di sé: «Insomma, prima, Xabi ha detto una cosa assurda. Ha detto,» si prende una pausa per scrutare l’espressione impassibile di Jamie, e poi scuote la testa, impressionato. «Senti, non prendermi per il culo e giuro che non me lo sto inventando, ma mi ha detto che domenica torna a giocare, e sono piuttosto sicuro che intendesse che torna a giocare con noi.»
La reazione di Jamie non è esattamente quella che Steven si sarebbe aspettato, se avesse sprecato anche solo un atomo della propria energia per immaginarsela - cosa che non ha fatto, naturalmente, ma questo non gli impedisce, comunque, di restare esterrefatto e piuttosto deluso quando vede il suo vice balzare in piedi, gli occhi e la bocca spalancati a dismisura, e poi mettersi a piroettare su se stesso strillando versi incoerenti di gioia.
«Jamie...?» chiama, allungando incerto una mano verso di lui, ma Jamie non ci sente: in tre salti raggiunge Fernando, pover’uomo, e, incurante del fatto di aver perso per strada l’asciugamano che aveva avvolto attorno alla vita e che era l’unico indumento che avesse addosso, gli si arrampica sulla schiena, agitando i pugni per aria con un altro ululato vittorioso.
Fernando non è per niente felice di essere assaltato da un uomo così gloriosamente nudo e gli urla contro per un po’, almeno finché Jamie, seduto in equilibrio più che precario sulle sue spalle, non si china su di lui e gli stampa un bacio disgustosamente umido sulle labbra, zittendolo.
«Domenica torna Xabi!» esclama, prima che Fernando possa riprendersi dallo shock, e tanto basta perché tutto lo spogliatoio si volti a guardarlo; tanto basta perché nessuno faccia caso al suo culo nudo e alla faccia di Fernando, che non sa se andare a vomitare - Dio che orrore, Carra l’ha davvero baciato ed è nudo sulle sue spalle, contro i suoi capelli, - o mettersi a urlare pure lui. «Domenica torna Xabi!!»
E in dieci secondi, sotto lo sguardo scandalizzato di Steven, lo spogliatoio torna ad esplodere con la stessa vitalità ed euforia di mezz’ora prima: non c’è nessuno che riesca a stare fermo o zitto, volano vestiti e amichevoli schiaffi e gavettoni e non si capisce più niente finché il mister non spalanca la porta, mandandola a sbattere violentemente contro il muro e spaccando l’intonaco di mezzo stadio.
«Ragazzi, ma che diavolo succede?» tuona Hodgson, che getta occhiatacce a caso lungo tutto lo spogliatoio, soffermando lo sguardo un po’ più a lungo solo su Steven, che se ne sta seduto sulla sua panca, con la faccia di uno che non sa neppure perché abbia due gambe e non cinquantasei. «Stevie, ma insomma! Capisco l’euforia per la vittoria, e avete ragione, è stata una bellissima partita, ma vi si sente strillare fino in sala stampa! Cosa siete, un asilo?»
Steven vorrebbe spiegare al mister che in questo momento lui è la persona meno adatta nell’universo a disciplinare lo spogliatoio, perché fa fatica anche a credere di essere ancora nella stessa squadra in cui s’è svegliato stamattina, - il suo Liverpool, quello da cui Xabi se n’è andato due anni fa? Ehilà? - ma Jamie lo precede, parandosi davanti ad Hodgson a gambe larghe, in tutta la sua magnifica nudità.
«Mister,» dice, spalmato in faccia un sorriso da Barbie che ignora con gran talento il broncio scandalizzato e sull’infuriato andante di Hodgson. «Xabi domenica può giocare.»
E Steven prega che perlomeno Hodgson sia ancora sano di mente, prega di vederlo sgranare gli occhi non tanto per l’erezione assolutamente fuori luogo di Jamie quanto, piuttosto, per l’assurdità di quello che ha appena detto, prega perché non regga il gioco ai suoi compagni e scoppi a ridere e gli riveli che in realtà è tutto un enorme scherzo architettato ad arte per rovinargli la sua nottata più bella dall’inizio del campionato, ma naturalmente non succede nulla di tutto questo - o meglio, qualcosa sì: gli occhi di Hodgson si fanno così tondi da sembrare palline da ping pong capitate per sbaglio in mezzo alla sua faccia, ma quella che subito dopo si dipinge sul viso del mister è un’espressione di gioia educatamente stupita e non, come Steven s’era augurato, di ansiosa preoccupazione per la sanità mentale del suo difensore maggiore.
«Oh,» sillaba Hodgson, semplicemente, e poi sorride. Guarda brevemente Steven, poi annuisce, compito, affettuoso, e torna a rivolgersi a Jamie. «Continuate pure.» Detto questo, si volta - l’ombra del suo sorriso enorme s’intuisce anche così, come se fosse lo Stregatto, - e, dopo essere uscito senza un’altra parola, si richiude la porta alle spalle.
Steven sente lo scatto della serratura rimbombargli nel petto, e sa di avere bisogno di qualcosa di alcolico.

*

Xabi, come aveva promesso, lo aspetta nel parcheggio, seduto sul cofano della sua macchina. Non appena distingue e riconosce le sue spalle, la sua schiena dritta, Steven accelera un po’, sistemandosi meglio la cinghia del borsone. Xabi gli sorride da lontano, allargando le braccia per invitarlo a stringerlisi addosso e Steven sta praticamente correndo, mentalmente grato che non ci sia nessun testimone della sua imbarazzante impazienza. A parte Xabi, naturalmente.
«Ehi,» gli brontola contro il collo - contro la sciarpa, in effetti, - e Xabi ride, un suono delizioso che si riverbera istantaneamente in un brivido lungo la gabbia toracica di Steven.
«Ehi a te,» risponde Xabi, premendogli il naso su una guancia e lisciando con le dita pieghe inesistenti sul cappotto pesante di Steven. «Andiamo a casa.» E Steven non può che annuire, scollandosi da lui un po’ a malincuore, rubandogli un bacio piccolissimo prima di fare il giro dell’auto ed infilarsi al posto di guida. Per prima cosa accende il riscaldamento, perché è novembre e Liverpool non è esattamente Madrid, anche se Xabi non ha mai sofferto davvero il freddo; senza neanche doverci pensare coscientemente, Steven fa del proprio meglio per sgusciare fuori dallo stadio senza incappare in compagni di squadra ancora in vena di chiacchiere o, quel che è peggio, in orde di tifosi impazziti d’amore per lui, sfruttando rampe secondarie del parcheggio e cancelli automatici riservati allo staff e se riuscisse a rendere la macchina invisibile non avrebbe tutti questi problemi, davvero.
Alla fine, riesce a condurli fuori più o meno rapidamente, e la strada da Anfield a casa non gli è mai sembrata così lunga e piena di semafori, davvero, e la mano di Xabi, leggermente premuta sul suo ginocchio, pare che sappia come dilatare il tempo all’infinito.

*

Steven stava praticamente tremando, su per le scale, e pensava che non sarebbe riuscito mai ad aprire la porta di casa, e invece - e invece non ha avuto neppure un’ombra di difficoltà e prima ancora di rendersene conto ha Xabi premuto contro un muro, il borsone buttato da qualche parte in salotto e poi le sue mani sui fianchi. Mugola qualcosa, Xabi, sulle sue labbra, prima di lasciarsi baciare, ma Steven è impegnato a sciogliergli la sciarpa dal collo, a tentare di capire come sbottonargli il cappotto, ad assaggiare la sua bocca provando a controllare almeno un po’ la voglia famelica che gli strilla di spingere Xabi giù sul pavimento e divorarlo.
Scappano in corridoio, quando Steven riesce ad avere la meglio sui bottoni impossibili del cappotto di Xabi, e ogni due passi c’è un bacio lento e aperto a fermarli, e Xabi che inciampa lungo la cerniera della felpa di Steven.
«Lascia,» ridacchia lui, spostandosi leggermente ad assicurarsi che il collo di Xabi abbia ancora l’esatto sapore che ricordava. «Faccio io.»
Xabi brontola qualcosa d’incomprensibile contro di lui, gli intreccia le dita tra i capelli sulla nuca e lo costringe a baciarlo di nuovo. Steven lo asseconda con piacere e intanto si sfila la felpa, la abbandona dove capita e si ricorda a stento di scavalcarla quando Xabi lo spinge all’indietro verso la camera da letto. Precipitano sul materasso in una confusione di gambe intrecciate, le mani di Xabi ancora perse attorno alle tempie di Steven e Steven che non sa dove toccarlo, perché vorrebbe poterlo stringere tutto. Lo spinge pienamente sotto di sé, ad un certo punto, piantando le ginocchia ai lati del suo corpo e avventandosi sul suo collo e tirandogli i jeans giù lungo i fianchi; Xabi si tende subito e meravigliosamente, la testa che scatta all’indietro e le labbra schiuse in un gemito. Sfila la canotta di Steven e gli si aggrappa alla schiena, offrendogli per riflesso più pelle attorno alle clavicole da baciare.
Steven quasi gli strappa di dosso la camicia, nella foga; sicuramente qualche bottone si perde sul copriletto, ma Xabi sta vibrando sotto di lui in un modo che annulla qualsiasi altra cosa nel mondo e, davvero, un bottone non basta a distrarlo.
«Steven, Dio, ti prego,» mormora Xabi, e le sue dita si stringono attorno ad un polso di Steven, lo dirigono giù lungo il suo ventre piatto fino all’elastico dei boxer, spingendo la mano eloquentemente più in basso; Steven si risolleva dall’incavo morbidissimo della spalla di Xabi, su cui è impresso forse indelebilmente il marchio dei suoi denti, della sua bocca, e lo bacia, toccandolo, contemporaneamente, da sopra la stoffa sottile e morbida - seguendo il profilo della sua erezione con un dito, palpandolo con troppa attenzione e stuzzicando la pelle sensibile del suo bassoventre.
Xabi gli morde le labbra, a un certo punto, soffiandogli subito dopo un gemito morbidissimo che scioglierebbe le nevi perenni dell’Himalaya, e Steven capisce che non è il caso di torturarlo oltre. Gli accarezza l’interno caldo di una coscia con una mano, mentre con l’altra gli sfila i boxer, spingendoli finché gli riesce oltre le ginocchia di Xabi, ancora piegate sul bordo del letto. Xabi, dal canto suo, si riprende quel poco che gli basta per indaffararsi coi jeans di Steven e spogliare anche lui, rubandogli un brivido quando gli accarezza lievemente le natiche e la base della schiena.
«Xab,» gracchia Steven, toccandogli una guancia col dorso di una mano, godendosi la sensazione piacevole di solletico della barba di Xabi contro le dita, e socchiude gli occhi perché gli sembra di stare sognando, gli sembra che Xabi possa sfuggirgli se non lo intrappola in fretta tra le palpebre. Gli sembra di stare sognando, ma ad ogni bacio il corpo di Xabi sotto di lui si fa più caldo e più vero e Steven si convince che sia vero - si convince che sia vera la facilità con cui è entrato in campo e ha segnato tre gol e vinto come non gli riusciva da tempo; si convince che sia vero- e non è che ne abbia mai dubitato, comunque, - il sospiro di Xabi, quando si china ad assaggiare la pelle del suo collo. Si convince che siano stati un sogno, i due anni di distanza e nostalgia e interminabili voli da Madrid a Liverpool che gli pesano sulla schiena; distingue, un po’ confuse sul fondo della propria mente, le immagini dell’ultima volta che Xabi ha giocato con lui: Anfield, i giocatori del Chelsea - è sempre il fottuto Chelsea - che corrono orgogliosamente su e giù con quei loro stemmi blu da prendere a martellate, e poi il tackle di Terry, incazzatissimo e nervoso per la tripletta di Steven e il rigore di Fernando, un tackle cattivo, intenzionale, e Xabi è a terra ed è un déja-vu terribile, lo schiocco della caviglia spezzata. E le complicazioni, Steven ricorda vagamente intere legioni di medici spiegare al mondo perché forse Xabi Alonso non avrebbe potuto mai più giocare - Steven ricorda la paura incredibile negli occhi di Xabi, gli interventi, la riabilitazione che non finiva mai, il primo allenamento di nuovo insieme e i guai tutto da capo, e adesso Xabi dice che domenica potrà tornare a giocare ed è magnifico, è magnifico davvero.
Steven è felice nello stesso, irresistibile modo in cui erano felici tutti nello spogliatoio, e accarezza ancora una guancia di Xabi.
«Non sei andato a Madrid,» dice, con una punta di stupore che, nella sua rinnovata conoscenza della realtà, non riesce a spigarsi neppure lui, e Xabi ride, sotto di lui, bellissimo.
«Certo che no,» gli risponde, con la delicatezza con cui Steven rassicura, ogni anno, Lexie e Lilly-Ella dell’esistenza di Babbo Natale.
E niente più ha importanza, al mondo, a questo punto, se non il fatto che le labbra di Xabi non siano abbastanza arrossate di baci, e che la sua pelle non scotti quanto Steven vorrebbe: in un attimo dimentica ancora qualsiasi esitazione, e si lascia rapire ancora dal corpo morbido sotto le sue dita. Xabi si muove in maniera incredibile, assecondando esattamente ogni bisogno di contatto di Steven prima ancora che Steven possa pensarci; e geme contro la curva morbida del suo collo, eccitando in lui brividi caldi che si arrampicano immediatamente lungo la sua erezione.
Steven ruggisce piano, spingendosi pienamente contro Xabi, sollevandosi da lui di pochissimo, il necessario per non pesargli addosso; struscia il bassoventre contro il suo e sospirano assieme, Xabi attira a sé la sua bocca e Steven prende a dondolare i fianchi, il suo sesso contro quello di Xabi e il petto premuto al suo e le labbra che vagano distrattamente sul suo viso, finché Xabi non gli stringe forte un fianco e lo guarda, gli occhi scuriti dal piacere.
Steven annuisce e lo bacia, poi scivola giù dal materasso, oltre le ginocchia di Xabi. C’è un freddo tremendo, lontano da lui, ma non dura che un attimo, giusto il tempo di arrivare al comodino, spalancare tuti i cassetti finché nel quarto non trova un preservativo e il barattolo di lubrificante, e di nuovo Steven è su di lui, che intanto ha gattonato fino al centro del letto e si è sistemato contro i cuscini, seduto per metà, le gambe schiuse, e Steven quasi ha una vertigine a guardarlo così, offerto a lui e invitante e assolutamente perfetto. Xabi.
Lo bacia, quasi annaspando, e Xabi si irrigidisce appena contro di lui quando Steven lo penetra già con due dita fredde e scivolose. Sospira, poi, e chiude gli occhi e gli stringe le braccia attorno alle spalle, attirandoselo contro, quando Steven le dita le muove, descrivendo piccoli cerchi dentro di lui, allargando la sua apertura congestionata e stuzzicandolo con cura.
«Joder, Steven, ah, por favor--» bisbiglia, e Steven non si prende neppure il disturbo di sfogliare il suo limitatissimo vocabolario mentale di spagnolo per capire cos’è che Xabi sta brontolando; semplicemente, lo prepara ancora per un secondo, s’infila maldestramente il preservativo e poi, impossibilmente duro e impaziente e già un po’ umido com’è si spinge contro di lui, e deve chiudere gli occhi e mordersi le labbra per non prenderlo in un’unica spinta quando Xabi gli regala un gemito lungo, vocale, irresistibile.
Si spinge fuori e dentro di lui e un po’ più a fondo con ogni pressione del bacino, Xabi che lo accoglie senza difficoltà e gemendo ora più timidamente, e alla fine trova un ritmo quasi febbricitante che è perfetto per entrambi e gli sembra di aver continuato a muoversi così per un’eternità profonda quanto gli occhi di Xabi quando alla fine viene - e vengono insieme, - cercando la bocca di Xabi per ancora un bacio famelico, che rallenta pian piano mentre l’orgasmo smonta attraverso di loro, lasciandoli senza fiato a guardarsi.
Steven sorride appena, forse neppure quello, perché ha un’incredibile paura che qualsiasi movimento possa distruggere l’universo. Xabi quasi non respira, perso nello stesso, identico terrore, ed esita un attimo, prima di rispondere al tocco leggero delle labbra di Steven - non ha resistito, e come avrebbe potuto? - sulle proprie. È un po’ più tranquillo, poi, quando riapre gli occhi ed è tutto ancora al proprio posto, e guardando l’espressione incredibilmente soddisfatta di Steven, pensando che giocherà, domenica giocherà di nuovo accanto a lui, esultando, ancora, per la partita bellissima che Steven solo ha gestito, Xabi scoppia, sinceramente, a ridere.

*

Steven è così completamente felice che gli sembra di stare sognando. Con gli occhi chiusi, sorride, le orecchie piene soltanto della risata calda e ricca di Xabi, che si fa incomprensibilmente distante, poi, come un’eco ingrigita dal ricordo e dalla lontananza, e il canto di Anfield straccia, per lui, l’universo.
Steven si guarda attorno, e non è a casa, non è a letto, non si è appena distrutto di piacere tra le gambe di Xabi. Facce familiari di avversari e compagni di squadra gli passano accanto, sorridendo e borbottando congratulazioni e insulti, ma lui non riesce davvero a metterle a fuoco. Lo stadio è pieno del suo nome, cantato da voci rauche e perse d’amore per la sua maglia stanotte tre volte più bella di qualsiasi altra cosa, ma Steven si sente bloccato in una pozza di ghiaccio.
Non c’è traccia di Xabi.
Lavezzi gli viene incontro, e ha sul viso una smorfia storta che è quasi un sorriso. Il suo abbraccio è fermo ed energico, forse il complimento migliore che potesse fargli, e Steven si morde le labbra e finalmente cede alla disarmante tristezza che gli morde la bocca dello stomaco, destabilizzandolo al punto che deve premere la faccia contro la spalla azzurro cielo di Lavezzi, altrimenti crollerebbe a terra. Quando, dopo un minuto intero, l’argentino si scosta, vagamente sorpreso, Steven gli rivolge un sorriso incerto di scuse, e si stropiccia duramente gli occhi con i palmi delle mani.
Un lampo di comprensione - e chissà che ha capito, si chiede Steven, Dio, magari può aiutare me, - passa sul viso di Lavezzi, che gli dà una specie di gentilissima pacca su un fianco, annaspa un attimo, aprendo e chiudendo la bocca, ma non gli viene in mente nulla da dire e sembra sinceramente dispiaciuto quando, richiamato dal suo capitano qualche metro più in là, si allontana senza una parola. Steven, immobile dov’è, incapace anche solo di lasciarsi scorrere il sangue nelle vene, segue per un po’ il modo in cui avanza deciso sul campo, il mare di fotografi e telecamere che si apre al suo passaggio, e poi torna ad annegare nello spettacolo di rosso che invade lo stadio.
Non c’è davvero traccia di Xabi, non ad Anfield, non in città, neppure in tutta la fottuta Inghilterra, ma solo giù, nel continente. Steven non riesce a sorridere, trema di freddo, e deve distogliere lo sguardo dalla Kop, perché è bella, ma non quanto Xabi, e il solo pensiero basta a fargli a pezzi il cuore.

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