[Inception] This is the way the world ends (Arthur/Eames)

Jan 12, 2011 18:09

Titolo: This is the way the world ends
Fandom: Inception
Personaggi/Pairing: Arthur/Eames
Rating: R
Conteggio Parole: 3220 (unf!) (fidipu)
Prompt: Arthur/Eames, Solo nei suoi sogni per il p0rn fest #4 di fanfic_italia.
Avvertimenti: slash, forse un po' di linguaggio?
Note: Il titolo è rubato a T. S. Eliot (~ The Hollow Men), e alla stessa opera è un riferimento il "lamento lunghissimo" (This is the way the world ends: / not with a bang, but a whimper) che appare a un certo punto nella fic.
- Secondo me Eames non ce l'ha, un totem, però è una cosa che non avrebbe trovato spazio in questa che tutto sommato è una PWP, perciò vi beccate la chip (che sarebbe la fiche, ma chip mi piace di più xD) ♥
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ This is the way the world ends.

Eames sta sognando, e ne è piuttosto sicuro. Innanzitutto perché il black russian che sta bevendo è veramente perfetto, in secondo luogo perché il casinò è pieno di persone che ha impersonato in qualche sogno, nel corso della sua carriera, e poi perché ha palesemente segnato le carte per tre mani di seguito e tutti quanti, attorno al tavolo, croupier compreso, continuano imperterriti a sorridergli, anche Arthur, che si dondola su una sedia precisamente di fronte a lui, e, beh, in effetti è principalmente per questo che Eames è piuttosto sicuro di stare sognando.
Non è un brutto sogno, comunque, ma i sogni artificiali non sono mai brutti - a meno che uno non lo voglia, naturalmente, o a meno che Yusuf non sia in vena di scherzi, altrettanto naturalmente, ma Eames ricorda di aver controllato di essere rimasto solo, nel capannone, prima di mettersi a trafficare col PASIV, perciò su questo fronte è piuttosto tranquillo.
Una ragazza indiana - Maia, ricorda Eames, uno dei suoi primi lavori con Cobb: la figlia di un multimiliardario che voleva essere assolutamente sicura che il proprio fratello non avesse ammazzato il suo gatto solo perché lei gli aveva rovesciato dell’aranciata sulla Play Station; sì, la vita lavorativa di Eames, come ogni donna, sa essere anche tremendamente patetica, e non solo incredibilmente eccitante, - gli passa accanto, gli tocca una spalla e sorride, poi accenna, con uno sguardo più che eloquente, ad un enorme drappo di velluto rosso scuro che, Eames lo sa perché è il suo sogno, accidenti, nasconde le scale per l’albergo sopra il casinò.
Eames risponde educatamente al suo sorriso e per un po’, ipnotizzato dal suo lento ancheggiare, si distrae a guardare la sua schiena dorata allontanarsi; scuote la testa, poi, e torna a prestare attenzione ai numeri, alle carte, ad Arthur, che adesso s’è imbronciato e Eames deve fare leva su tutto il proprio invidiabilissimo autocontrollo - ovvero, ingurgita quel che rimane del suo drink tutto in un sorso, - per non gettare il tavolo all’aria e lanciarglisi addosso. Sul serio, un’espressione così è legale sventolarla in giro senza neppure uno straccio di avviso?
Bara ancora una volta, rubando un asso di cuori dal mazzo quando scarta un otto di picche che s’era provvidenzialmente ritrovato in una manica, ma lo fa con tanta pigrizia che anche un piccione in Arabia Saudita se ne sarebbe accorto; va in all-in, e quando spilla ai suoi avversari pure le mutande tutti ridono e si complimentano con lui.
Un battito di ciglia, e lui e Arthur sono soli al tavolo, il bicchiere di Eames è di nuovo pieno e Arthur sta di nuovo sorridendo, ma meno apertamente di prima; Eames non riesce a dispiacersene, comunque, perché è più verosimile, più giusto, più Arthur, il modo quasi incerto e appena percettibile in cui, ora, le sue labbra s’incurvano all’insù.
Eames lo guarda, al di sopra del tavolo, e Arthur beve un sorso di quello che è indiscutibilmente scotch liscio, senza schiodare gli occhi dai suoi neppure per un attimo. Eames sospira, si alza, lo raggiunge, il black russian stretto in una mano e l’altra che, spontaneamente, si solleva ad accarezzare il collo pallido, lunghissimo di Arthur. Ed Eames sta sognando, naturalmente, perché Arthur chiude gli occhi e si rilassa contro il suo tocco.
Un battito di ciglia, e sono in un corridoio arredato splendidamente secondo il gusto di Eames: sul soffitto e le pareti, arabeschi dorati si rincorrono sul fondo arancione della migliore seta italiana; i ricchi lampadari barocchi pendono bassi, i pendagli color rame che quasi toccano la testa di Eames al suo passaggio. Magnifici quadri delle più varie età della storia adornano i muri tra una porta e l’altra, - c’è una Gioconda, e accanto un Kandiskij, e poi una natura morta che dovrebbe essere la riproduzione di un affresco di Pompei, - e di tanto in tanto compare una pendola, una cassettiera, un pianoforte verticale di legno scuro, insomma, mobili di classe e sobrietà inimmaginabili.
Arthur rabbrividisce appena ed Eames, accanto a lui, ridacchia, molto soddisfatto del proprio subconscio.
«Che c’è?» dice, fermandosi davanti ad una porta qualunque e sfilandosi dalla tasca una chiave magnetica che non sapeva di avere. «È elegante.»
Arthur si limita a sbuffare, e lo segue con tranquillità nella camera; Eames richiude la porta alle sue spalle - non ce ne sarebbe bisogno, ma è una deformazione professionale di cui Eames si accorge a stento, - e ne approfitta per sbattercelo contro, perché non è esattamente in vena di perdersi in chiacchiere o aspettare ancora molto a lungo o Dio solo sa cos’altro. C’è solo un motivo, a parte il lavoro, per cui Eames ricorre al PASIV, ed è perché il suo subconscio ha smesso di funzionare spontaneamente da anni e un uomo, di tanto in tanto, ha pure bisogno dei suoi stracazzo di sogni erotici - soprattutto quando, per dire, i suoi sogni erotici sospirano in questo modo meraviglioso e osceno e sono tanto intensamente belli e tesi e, Dio, Arthur, sotto di lui.
«Eames,» brontola Arthur, separandosi appena dal bacio per riprendere fiato ed Eames non riesce a non voler di nuovo premere le labbra sulle sue perché i suoni che Arthur fa, dal fondo della gola e direttamente nella bocca di Eames, sono qualcosa di incredibile. Lo bacia ancora, quindi, stringendogli una mano sulla nuca e con l’altra andando a trafficare con i bottoni della giacca. Non ha mai odiato gli abiti di sartoria come in questo momento, Eames, perché gli impediscono di arrivare in fretta alla pelle calda di Arthur, e d’altra parte, quando finalmente sotto le dita gli esplode la morbidezza inaspettata del suo ventre piatto gli pare che la sensazione sia quintuplicata dall’impegno con cui ha condotto la sua battaglia contro il panciotto, la cravatta e la camicia.
Eames sospira pesantemente contro il collo di Arthur, mordendolo - e vorrebbe parlare, vorrebbe davvero, vorrebbe dire cose magari incredibilmente sciocche e prenderlo in giro e tutto, perché Eames è uno a cui piace parlare, pure durante il sesso, ma c’è qualcosa, in Arthur, qualcosa nel modo in cui è assolutamente perfetto tra le sue mani che gli ruba tutta la voce e le parole e praticamente anche la voglia di allontanare le labbra dal suo corpo; ridacchia, poi, quando lo sente mormorare sillabe incoerenti e sconnesse, e sotto tutto quel brontolare Eames è assurdamente contento - anche se si tratta solo di un sogno, di una proiezione, insomma di un Arthur che non è più Arthur di quanto lo sia Eames stesso, ecco - di riuscire a distinguere il proprio nome, bisbigliato come una preghiera insolente e piena di pretese, la protesta, quasi, di un ospite trattato male.
Eames soffoca uno sbuffo divertito contro le labbra di Arthur e se lo tira contro, gli stringe un braccio attorno alla vita e lo solleva un po’, trasportandolo così nei cinque passi che lo separano dal letto, aiutato nei movimenti dal modo in cui Arthur ha piantato le mani sulle sue spalle e gli si aggrappa addosso. Lo spinge sul materasso, subito dopo, e poi si avventa ancora sul suo collo, mentre Arthur gli sfila abilmente la giacca - un’immonda patacca di tweed che sembra uscita in questo istante da una puntata della Signora in Giallo, ed Eames non è tanto sicuro che il proprio subconscio non si sia sbizzarrito a prendere ispirazione proprio da lì, gli piace, quello sceneggiato, - la camicia, - bordeaux, come le tende e la moquette dell’albergo e le divise dei croupier al casinò di sotto, - la cintura, - finta pelle di serpente, - e gli sbottona i pantaloni - sobriamente marroni, addirittura stirati. Eames calcia via le scarpe e si arrampica meglio sul letto, sul corpo di Arthur, e lo costringe a sollevarsi un po’ per poter spogliare anche lui, lanciare per aria tutto quello che ha addosso, fino all’ultimo indumento, e ridere quando Arthur si acciglia per il destino del suo prezioso guardaroba ma è troppo perso a seguire la carezza gentile delle mani di Eames lungo le sue cosce per lamentarsi, per porre freno alla sua barbarie. Non gli risparmia una tallonata nella schiena, comunque, appena Eames torna a baciarlo, ed Eames scoppia a ridere direttamente sulla sua bocca, e sarebbe ridicolo, sarebbe l’anti-sesso, una risata così, sarebbe, ma Arthur sorride un po’, con un’ombra di dolcezza negli occhi che spedisce il cuore di Eames contro il soffitto. Gli tocca una guancia, quasi esitando, e poi è lui a baciarlo, con calma, con metodo, precisamente come Eames si aspetterebbe da Arthur: si prende il tempo di cui ha bisogno per conoscere la sua bocca, per toccargli con la lingua il palato, la chiostra dei denti, assaggiargli le labbra finché non stanno ansimando entrambi come due adolescenti, i fianchi nudi di Arthur premuti con insistenza contro il cotone morbido dei boxer di Eames, dei suoi pantaloni.
«Arthur,» bisbiglia Eames, un po’ istupidito dalla mancanza di ossigeno e dal bacio e soprattutto dalle guance arrossate all’inverosimile di Arthur, che così abbandonato contro i cuscini e coi capelli scompigliati attorno al viso e assolutamente teso sotto di lui è bello da mozzare il fiato, da mozzare il battito cardiaco, da mozzare la voglia di esistere al di fuori di questo momento e tutto il resto. «Arthur,» e lo dice col tono di una richiesta, di una domanda, e sa che dovrebbe ampliare il concetto che ha in mente, la voglia che gli scioglie le ossa della schiena, ma le parole, ancora, gli sfuggono come acqua tra le dita quando guarda Arthur, Arthur, i suoi occhi neri e le sue labbra schiuse e gonfie di baci, il suo collo, pizzicato tutto dal segno dei suoi denti. Arthur, comunque, non ha davvero bisogno che Eames si spieghi - e non perché è una proiezione della sua mente, di lui, e quindi sa, ma soltanto perché la voce di Eames, bassa e arrochita e ricca in quel modo non avrebbe potuto essere interpretata male neanche dall’unicorno più casto e puro di questa terra.
Arthur non ha bisogno che Eames si spieghi, e seppellisce le mani giù tra i loro corpi, per liberarlo finalmente dei pantaloni e dei boxer; Eames ringhia, indecentemente soddisfatto quando Arthur lo accarezza con calcolata noncuranza, soffermando le dita esattamente dove Eames è più sensibile.
Arthur gli scocca un sogghigno, quindi, quando Eames si tende completamente perché, beh, avere il pollice di un uomo - di Arthur - premuto indolentemente contro la punta del proprio sesso congestionato di solito gli fa quest’effetto, e lo bacia piano, invitandolo contro di sé semplicemente toccandogli una guancia con due dita.
Eames geme nella sua bocca e poi si solleva appena dal materasso per frugare sotto un cuscino un po’ più in là della testa spettinata di Arthur: trova il lubrificante e il preservativo - di nuovo, deformazione professionale, - e ha bisogno di dire qualcosa di incredibilmente inopportuno, ne ha bisogno davvero perché si sente adesso troppo intossicato dal calore del corpo di Arthur sotto il suo e dall’intensità dei suoi occhi e da tutto, in effetti, ma qualsiasi battuta di pessimo gusto gli muore sulla lingua quando Arthur lo guarda in quel modo, sospira e spalanca le gambe, gli si offre.
Oh.
Eames deve deglutire due o tre volte prima che il respiro si decida a ridiscendergli nei polmoni, a smettere di ingolfargli la gola, e solo allora riesce a tornare da Arthur, dal suo petto bianco che chiede solo di essere morso e torturato. Mentre lo bacia, mentre assaggia distrattamente una goccia di sudore che gli rotolava pigramente e sola lungo lo sterno, mentre lo sente vibrare, Cristo, sotto le sue labbra, Eames immerge due dita nel barattolo di lubrificante e - tentando di sopprimere un sorriso molto coglione quando Arthur rabbrividisce e mugola, «Freddo,» come uno stracazzo di ragazzino, - prende a tracciare ampi cerchi attorno alla sua apertura, prima di decidersi a tentare di premersi almeno un po’ contro di essa.
Arthur inarca la schiena e sibila, ma allarga ancora le cosce attorno ai fianchi di Eames ed Eames suppone che sia un buon segno, perciò insiste e il primo dito scivola dentro Arthur con facilità. È stretto come l’Inferno e caldo il doppio, ed Eames non ha davvero fretta e lo prepara con crudele calma, affondando il dito fino alla nocca e soffocando tra le labbra le proteste di Arthur - vuole di più, il bastardo, con quegli occhi neri come la morte domanda, implora per averne ancora ed Eames, Eames ringrazia che anni e anni e anni e anni ancora a barare, contraffare se stesso e recitare per aver salva la pelle gli hanno inculcato l’autocontrollo di una tigre acquattata tra l’erba in attesa della preda, perché se così non fosse probabilmente avrebbe già preso Arthur con tutta la furia di questo mondo, perché Dio, Dio, Dio, come si fa a resistergli, quando sotto di lui è così sciolto e bellissimo eppure ancora Arthur - perché lo insulta sottovoce, un po’ gli tira i capelli per avere di più, geme e poi si morde le labbra come se si pentisse del suono splendido che si è lasciato sfuggire, come se pensasse di poterselo rimangiare? Come si fa? Eames, come fai?
«Eames, Cristo, piantala di prendermi per il culo e- ah, prendimi per il culo,» sbotta Arthur, un po’ al di là della sua consueta eloquenza, ed Eames non riesce a non ridacchiare piano contro l’incavo della sua spalla - spinge dentro di lui un terzo dito ed è assurdamente orgoglioso di sé quando vede Arthur mordersi il dorso di una mano per soffocare chissà quale meraviglioso verso di piacere.
«Ancora un po’, tesoro,» bisbiglia, prendendogli il polso con la mano libera e baciando il segno rosso dei denti. «Solo un po’.»
«Dio, ti odio,» brontola Arthur, e poi i suoi fianchi scattano all’insù perché Eames ha trovato il punto giusto dentro di lui e quell’ancora un po’ può andare in pensione contento: Arthur strappa la confezione del preservativo e lo srotola lungo l’erezione ormai tesissima di Eames con rapidità sorprendente, e poi gli pianta le mani sulle spalle e sul viso quegli abissi intossicanti che ha per occhi, e tutto il suo corpo sta dando un solo, semplicissimo ordine, cui Eames non esita ancora ad obbedire.
Arthur chiude gli occhi, inarca la schiena e il collo all’indietro contro i cuscini e le sue dita, sulle spalle muscolose di Eames, si aggrappano come se stesse annegando; spalanca la bocca in un gemito che non ne vuole sapere di venir fuori, se non quando Eames arriva a spingersi fino in fondo dentro di lui e trova naturalmente il punto giusto e, a sua volta, mormora un sospiro di piacere mal contenuto.
«Così,» sospira Arthur, allargando le gambe come può e andando incontro alle spinte di Eames in un ritmo perfetto che presto cresce d’intensità, diventando quasi febbricitante e Eames non riesce a vergognarsi per la rapidità con cui Arthur lo porta a gemere incontrollabilmente e cercare la sua bocca - ne ha bisogno, lo sente dappertutto attorno a sé eppure gli pare di non averlo abbastanza, di non averne abbastanza, mai, come nel mondo reale, - non riesce a vergognarsi, perché lo guarda, guarda la sua bocca rossa e il suo respiro incerto, lo sente, sente il battito impazzito del suo cuore e i suoi gemiti, e si stupisce di riuscire anche solo a sopportare l’idea che Arthur sia così per lui, per le sue mani, per il suo tocco, per il modo in cui si spinge dentro e fuori di lui.
Eames viene e quasi non se ne accorge, perché il suo orgasmo è cominciato quando Arthur gli ha fatto quel sorriso invisibile al di sopra del tavolo da poker. Dopo un attimo, Arthur si immobilizza contro di lui, trattiene il respiro e poi soffia un gemito piccolissimo, riversandosi contro il ventre di Eames senza neppure aver bisogno di essere toccato ancora. Eames sorride, raggiante, soddisfatto, e lo bacia, di nuovo con calma, assaggiandolo, accarezzandogli distrattamente i capelli sparsi sul cuscino. Vorrebbe bisbigliargli un complimento - e quindi bisbigliarlo a se stesso, perché sta diventando bravo davvero a forgiare queste proiezioni di Arthur, sono ogni volta più credibili, - vorrebbe strappargli ancora un altro di quei sorrisi minuscoli e tremendamente intensi, ma sente il sogno cominciare a sfrangiarsi piano tra le sue dita, e sospira, non gli resta molto tempo.
«Arthur,» dice, soltanto. Tra le migliaia di parole che avrebbe potuto strizzare nei pochi attimi ancora che gli rimangono, sceglie il suo nome, Arthur, perché gli si è bloccato sulla lingua da troppi anni, e troppo poco spesso riesce a pronunciarlo, perciò lo dice ora, esitando quasi, respirando piano tra le lettere, guardandolo e sperando che i propri occhi non lo tradiscano troppo - anche se non ce n’è bisogno, non ce n’è bisogno, perché non sono altro che Eames, gli occhi in cui si perde, mentre il sogno si sgretola e crolla l’albergo, crolla il letto sotto di loro e soltanto il corpo di Arthur resta, sotto le sue dita, solido e vero come una banconota da tre sterline.
Un battito di ciglia, ed Eames si sveglia nell’umidità ormai spaventosamente familiare del capannone.
Si sente accaldato, contento, e per un attimo non pensa a niente, è immerso in un magnifico mondo di morbida ovatta in cui non esiste niente di niente; poi il ricordo del sogno gli morde le caviglie, si accorge di avere un’erezione discretamente gonfia che gli tira i pantaloni e gli sfugge un ghigno soddisfatto. Si sfila l’ago dal polso senza neppure pensarci, e sta già gettando i piedi oltre il bordo della sdraio quando si accorge che c’è un altro respiro, nel capannone, più lieve del suo, non troppo lontano.
Si volta un po’ e la sua sanità mentale, il cielo, la terra e l’universo si sgretolano sotto le sue scarpe quando vede Arthur stiracchiarsi pigramente sulla sedia che di solito occupa Yusuf; l’universo, la terra, il cielo e la sua sanità mentale - quel che ne resta, almeno, - esplodono, con un lamento lentissimo, quando vede il tubicino di PASIV attorcigliato attorno all’avambraccio di Arthur.
Eames annaspa e, prima ancora di pensarci razionalmente, si affonda una mano nella tasca interna della giacca, cercando il suo totem: si gioca la chip tra le dita, e stenta a credere ai propri polpastrelli quando percorre la complicata decorazione paisley che ha inciso sul retro e la ritrova esattamente come dovrebbe essere. Arthur intanto si è alzato, ha gettato via l’ago usato e riavvolto il tubo di PASIV ordinatamente, e adesso lo guarda, lo guarda e ha sulle labbra un sorriso minuscolo, divertito e affettuoso e un po’ addirittura imbarazzato, a meno che Eames non sia completamente cieco.
«Arthur...» comincia, ma non sa come continuare, perciò richiude la bocca, ed è un miracolo, è un miracolo davvero; di questo passo gli asini cominceranno a volare e i politici a fare il loro mestiere. Arthur si avvicina, si avvicina, si avvicina pericolosamente e a un certo punto si è chinato, ha le mani appoggiate alle ginocchia di Eames e lo sta baciando, ed è esattamente come nel sogno, oh Dio, no, forse è anche meglio.
«A dormire, signor Eames,» mormora, sulle sue labbra, e la sua voce bassissima vibra come un brivido lungo la spina dorsale di Eames; si risolleva, poi, si riabbottona la giacca, se ne va, e forse era una carezza, il modo in cui le sue dita hanno sfiorato le gambe di Eames.

» challenge: p0rn fest #4, inception: arthur, inception, } 2011, inception: eames, › ita

Previous post Next post
Up