[RPF] A trial by fire. (José Mourinho/Zlatan Ibrahimovic)

Nov 10, 2010 23:22

Titolo: A trial by fire (To battle is the only way we feel alive)
Fandom: RPF Real Madrid/AC Milan
Personaggi/Pairing: José Mourinho/Zlatan Ibrahimovic, trascurabili menzioni di pochi altri
Rating: PG14
Conteggio Parole: 4657 (OOo)
Prompt: Dolore morale @ bingo_italia  [ cartellina]
Avvertimenti: slash, angst (a palate)
Riassunto: Il punto è che lui José lo rispetta, lo rispetta troppo, lo rispetta senza neppure doverci pensare: come un cazzo di cuore è fatto per battere, lui, Zlatan Ibrahimović, è fatto per rispettare José Mourinho.
Note: Il titolo e le citazioni al principio della fic sono interamente rubate ai 30 Seconds to Mars (~ Alibi).
- Boh. Eh, so che non promette bene, come inizio di note, boh, ma, beh, mi viene poco altro. Posso intanto dire che sono piuttosto perplessa e preoccupata io stessa, dalla creatura che sto postando. Manco me la ricordo, l'ultima volta che ho partorito così tanto in un solo pomeriggio. Poi potrei aggiungere che questa storia si porta via una fetta bella grande della mia visione del Jobra (LOL, why so serious?), per cui in futuro potrei tranquillamente finire per ripetere sempre la stessa immondizia di concetti, nel qual caso vi prego di sopprimermi alla prima occasione XD Non so se sarò in grado di controllarmi come sarebbe doveroso, ecco tutto, perché innanzitutto mi sono divertita come una matta a scriverli (s'è capito che ho un soft spot non indifferente per Zlatan? Penso di no) (AHAHAH! Ci avete creduto? No, lo so che non ci avete creduto), e poi perché, boh, anche leggendo cose random mi è capitato di aver voglia di scriverli. Proprio che mi prudevano 'ste due manacce che mi ritrovo. Boh, ripeto: boh.
- Volevo essere figa e fare qualche dedica strappalacrime, ma non so neppure se qualcuno si prenderà la briga di leggerla, 'sta cosa, perciò pace XD Ad ogni modo, ve lo dico già da qui che non ho potuto resistere e ho infilato, in un angoletto, un mezzo omaggio a Puppet on a Lonely String, di el_defe  e lisachanoando  (leggetela, per esempio, qui, sciocchi umani!). Non so perché, non odiatemi, ma, in qualche modo, quando scrivo di Jobra mi scappano citazioni XD Alla fine della fic ci sono altre brevi noticine e la citazione la segnalo, ma a chi la riconosce prima dono un biscotto ♥
- Boh, niente, volevo solo fare un altro trattino XD
Disclaimer: Come ho già detto, Zlatan mi chiama ogni sera per parlarmi dei suoi sentimenti. Stavolta abbiamo fatto una videoconferenza con José. Detto ciò, non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.



~ A trial by fire.
(To battle is the only way we feel alive.)

No warning sign, no alibi.
We faded faster than the speed of light.
Took our chance, crashed and burned.
No, we'll never ever learn.
I fell apart, but I got back up again,
And then I fell apart, but got back up again.
30 Seconds to Mars - Alibi

Zlatan sonnecchia appena sul divano, cullato dalla colonna sonora del cartone animato iniziato in televisione mentre lui era troppo preso ad appisolarsi. È più o meno esausto per tutta una serie di motivi che, sfortunatamente, c’entrano poco col suo mestiere - Maxi e Vincent, nello specifico, che hanno deciso di farsi la guerra proprio oggi che toccava a lui tenerli d’occhio, e hanno smesso di accapigliarsi l’uno con l’altro solo per coalizzarsi contro il loro povero padre, - perciò, sebbene sia un’abitudine che non gli si addice per nulla, ha deciso di buttare il pomeriggio nel cesso concedendosi una siesta. Se Boji e Gerard potessero vederlo ora, spaparanzato tra i cuscini, il collo reclinato sullo schienale e le mani intrecciate pigramente sulla pancia, probabilmente farebbero a gara per fargli lo scalpo: Zlatan non ha abbastanza dimestichezza con i numeri a nove cifre per poter contare tutte le volte in cui quei poveracci hanno tentato di coinvolgerlo nei loro pisolini pomeridiani e lui, testardo, si ostinava a rifiutare, preferendo passare ore intere a tirare pallonate contro un muro mentre l’intera squadra riposava.
A disturbare il suo sonno, però, ci pensa il vibrare furibondo del cellulare, poggiato sul tavolino accanto al divano, che lo sveglia d’improvviso e lo costringe a riavviare troppo in fretta il cervello e tutto, tant’è che Zlatan si riscuote con una vertigine impressionante che gli fa incrociare gli occhi.
«Chi cazz- pronto?» brontola, afferrando il maledetto telefono e odiandosi per non aver avuto l’ovvia idea di spegnerlo, due ore fa. Dopo giusto un secondo di attesa gli risponde una risata spigolosa che, se normalmente lo farebbe rabbrividire di piacere, ora lo sta così ovviamente prendendo in giro da non essere per niente divertente.
«Stavi dormendo?» chiede José, e per reazione alla sua voce sicura Zlatan si raddrizza sul divano, come se l’avessero beccato ad impigrire in un angolo del campo durante l’allenamento.
«Sì,» replica, spiccio, e con il palmo della mano libera si schiaccia contro il collo una ciocca di capelli che la posizione scomoda in cui sonnecchiava ha piegato in un angolo assurdo e disordinato. «Le persone normali dormono, a quest’ora.»
«E, esattamente, da quando ti concedi il lusso di considerarti una persona normale?» ride ancora José, divertito in sommo grado, e Zlatan sospira.
«Da quando non vinco più nemmeno contro la Juve,» brontola, più stanco che davvero frustrato, e si preme una mano sugli occhi. Una parte di lui, quella più ingenua e testarda, ancora si chiede perché la sola voce di quel portoghese abbia il maledetto potere di estorcergli la più totale e assoluta sincerità senza neppure dover chiedere.
«Una volta ci giocavi, nella Juve,» osserva José, e per un attimo sembra sorpreso in maniera quasi convincente, ma si tradisce, perché nella sua voce è perfettamente udibile un ghigno grande quanto un castello. Zlatan, offeso, lo manda poco gentilmente a farsi fottere, e per tutta risposta il portoghese ride di nuovo, perché è una cosa che fa abitualmente, da quando ci sono la Francia e almeno mezza Spagna a separare i loro letti. Contro la logica comune, che lo vorrebbe ancor più accigliato del solito, ancor più intrattabile, José è sempre terribilmente ilare, durante le loro conversazioni telefoniche, e neanche un po’ tormentato, divorato dalla nostalgia o dal rancore o qualsiasi altro sentimento sia resistente abbastanza da far breccia sotto la sua pelle gelata. Ride tantissimo, lo prende in giro quasi con affetto - Zlatan potrebbe giurare di aver sentito più di una volta la sua voce addolcirsi tanto da sembrare un «Ti amo», - e si arrabbia così raramente che sarebbe difficile convincersi che si tratti realmente di José Mourinho, non fosse per il piccolo dettaglio che ogni scoppio di risa è un insulto a lui, inteso a ricordargli quanto esattamente sia piccolo e ridicolo, insignificante e traditore.
E Zlatan, puntualmente, si ritrova ferito dalla giovialità perenne di José. Ha sempre pensato che non gl’importasse nulla, né in positivo né in negativo, di quello che frulla nella testa degli altri, ha sempre vissuto in pace, tutto sommato, con qualsiasi opinione, con qualsiasi linguaccia maledetta avesse da ridire sul suo conto, per quanto biforcuta potesse essere. Sulla bocca di José, però, Zlatan ha trovato un padreterno e giudice di cui tener conto per davvero.
Non lo capiva, all’inizio, il perché di quest’anomalia; non sapeva spiegarsi perché José sì e, invece, tutto il resto del mondo no. E se l’è chiesto, ci ha rimuginato, si è ritrovato inchiodato in mezzo al campo durante le partite, a guardare verso la panchina, a cercare quel portoghese impossibile di cui non capiva niente, sperando di veder sciogliersi tutti quei dubbi che avrebbe pure potuto seppellire sul fondo dell’Inferno, ma se li sarebbe ritrovati ogni volta ancora addosso, a mordicchiargli i lobi delle orecchie e trascinarlo alla pazzia. Intanto la vita tentava di ricordargli che certe domande sono pericolose, che certi mal di pancia è meglio risparmiarseli, ma Zlatan non è uno che impara facilmente, non è uno col cranio morbido, non è uno che arretra. Non è uno che ascolta.
E alla fine c’è arrivato - a forza di arrovellarsi sulla questione, ha capito che il punto è che lui José lo rispetta, lo rispetta troppo, lo rispetta senza neppure doverci pensare: come un cazzo di cuore è fatto per battere, lui, Zlatan Ibrahimović, è fatto per rispettare José Mourinho. E sarebbe una stronzata, in astratto, perché, diavolo, rispetto? Ma parlami d’amore, parlami di anime gemelle o arcinemesi o cose così, non di rispetto, per Dio, e invece no, è proprio una questione di rispetto, perché Zlatan vive con l’amore sempre caldo nel petto - l’amore per sé, per quello che dice, per quello che fa, l’amore per l’uomo che lo guarda intensamente dallo specchio, un sorriso goffo e minaccioso sul viso e i piedi troppo grandi, - ma il rispetto lo centellina, lo risparmia, lo nasconde, tutto il contrario di quello che fa la gente comune, ed è per questo che se ne può fregare del prossimo, perché non lo rispetta, e José, invece, è così importante - le sue parole, i suoi occhi, le sue mani sono così importanti - perché, prima che amarlo tanto da perdere il fiato, Zlatan lo rispetta.
«Sei ancora lì?» ride José, ancora, e Zlatan gli avrebbe già attaccato il telefono sul muso da un pezzo, non fosse che si tratta di lui. Lo rispetta. È una cosa fuori dall’ordinario, per lui, stupefacente, destabilizzante, perché le persone che ama si contano sulle dita delle mani, ma basterebbero un paio di falangi buttate a caso in un piatto per tenere il conto delle persone che rispetta, e tra queste non c’è neppure lui stesso - perché, andiamo, chi è che rispetterebbe uno così? Giusto i matti, ma di quelli che è meglio rinchiuderli perché altrimenti scatenerebbero l’ira di Dio in un batter d’occhio a forza di combinar danni, e chiunque sia piuttosto palesemente confuso circa l’idea di rispetto.
«Zlatan?»
«Sì, sì, ci sono.»
«Bene. Non hai idea di quanto costino le chiamate internazionali.»
Zlatan vorrebbe dirgli che non è vero, che lo sa perfettamente - che ha passato un anno che gli è sembrato una vita con gli occhi incollati alla bolletta del telefono, a fare somme e sottrazioni e collegare giorni e ore e luoghi, solo per avere idea di quanto, esattamente, mandare avanti questa specie di cosa con José gli stesse costando, in termini di soldi. In termini di salute, di sanità mentale, invece, non ha avuto bisogno di una calcolatrice per sapere di aver dato via fin troppo. Vorrebbe dirgli di andare a ’fanculo, di andarci davvero, però, possibilmente senza tornare - vorrebbe dirgli che è uno stronzo colossale perché, d’accordo, non ha sentito ragioni quando voleva lasciare Milano e, d’accordo, è veramente ridicolo il modo in cui a Milano ci è tornato, con i colori al contrario, ma, Cristo, questo non è affatto un buon motivo per trattarlo come la più sudicia delle pezze da piedi.
«Posso immaginare,» risponde, invece, pianissimo, perché è stanco, perché è esausto, perché quello che vuole da José, in cambio di tutto non è un sorriso né una cazzo di parola gentile, ma solo una briciola di rispetto, e naturalmente José Mourinho non è un matto e non è mai confuso su niente, e poi figurati se gli basta innamorarsi un po’ di una persona per cominciare - o ricominciare, o continuare - a rispettarla.
Fottuta ironia della vita. Fottuta ironia della vita che lo ha sbattuto in Spagna quando José era in Italia e poi in Italia quando José se n’è scappato in Spagna. Fottuta ironia della vita che li ha cementati nello stesso girone di Champions League per il semplice gusto di torturarli ancora. Fottuta ironia della vita, Zlatan comincia ad averne abbastanza.
«Senti, José,» sbotta, finalmente riprendendosi dal torpore dell’autocommiserazione del primo pomeriggio, e quasi all’istante la sua schiena riacquista un po’ di quella sicurezza che lo fa ruggire contro tutti i tifosi del mondo. «Fattene una ragione, va bene? Gioco nel Milan, adesso, come prima ho giocato col Barcellona, con l’Inter, con la Juve, con l’Ajax, a Malmö, e magari domani andrò a giocare, che cazzo ne so, nella Roma. Sono un giocatore, io gioco, è quello che faccio. Fattene una ragione, José, per piacere.» Si morde le labbra, le dita che strizzano convulsamente il cellulare mentre annaspa alla ricerca delle parole esatte. «Mi dispiace, va bene? Mi dispiace veramente di non essere fatto come vorresti tu, credimi, mi dispiace, ma cazzo, José, cazzo, fattene una ragione.» Inspira, espira. «Non puoi continuare a trattarmi di merda così, non puoi. Non è giusto, non- non ne hai il diritto. Cioè, il diritto ce l’hai, figurati,» maledetta sincerità inevitabile, «però, cazzo, no. Non me lo merito.» Sospira. «Rispettami.»
Il telefono resta muto così a lungo che Zlatan comincia a temere di aver immaginato tutta la conversazione; poi, però, sente una flebile scarica di statiche che sembra un respiro incerto, un po’ troppo lontano.
«Te ne sei andato,» dice José, e non c’è traccia di emozione nella sua voce soffocata e un po’ distorta da tutta la strada che deve percorrere, da Madrid a Milano. Zlatan scatta seduto sul divano, perché quando José è così va bene, con José serio e inespressivo sa averci a che fare.
«Me ne sono andato,» annuisce, e con la mano libera si liscia pieghe inesistenti sul jeans. «Ma è quello che faccio. Lo sapevi fin dall’inizio, lo sapevi, e questo non ti ha mai- non ti ha mai fermato.»
«Non ho mai voluto cambiarti,» replica José, duramente, come se Zlatan avesse implicato il contrario, e a lui sfugge un sorriso triste che spera non traspaia nella sua voce.
«Lo so,» mormora, e chiude gli occhi, cercando di soffocare quel poco di sé che freme per leggere, nelle parole di José, cose che non esistono - che non sono certo che esistano, azzarda, con un po’ di atroce ottimismo.
«Perché non è il mio modo di fare.»
«Lo so,» mormora ancora, e se ci fosse ancora qualcosa di vivo, nel suo petto, sarebbe stramazzato miseramente - ed evidentemente qualcosa c’era, perché gli sembra di sentire rumore di vetro in frantumi.

José è asserragliato nel suo studio, le persiane calate e le tende tirate a tenere lontano il sole tiepido del primo pomeriggio, a dargli l’illusione che sia notte fonda. Un sottilissimo raggi odorato s’insinua sotto la porta e rischiara cinque centimetri appena di moquette; l’unica altra fonte di luce, nella stanza, è la spia rossa dell’altoparlante del telefono, che lampeggia vivace da un angolo della scrivania. José si tiene il viso tra le mani, le dita premute forte sugli occhi chiusi, la schiena curvata in avanti come se portasse sulle spalle il mondo.
«Perché non è il mio modo di fare,» ha detto, la testa bassa e un groppo in gola che le parole hanno aggirato con fatica. Ha sperato con tutta la forza che gli rimane che Zlatan non sentisse, ha sperato di aver parlato a voce troppo bassa, ha sperato che il telefono lo tradisse, per una volta, che si rifiutasse di cogliere l’ennesima sua imperdonabile cazzata.
«Lo so,» ha risposto Zlatan, quasi impercettibilmente piano, e a José manca il fiato, a sentirlo. Si sta spezzando, realizza; si sta spezzando davvero.
Pianificare è stato facile - pianificare è sempre facile, e poi è la cosa che gli è sempre riuscita meglio, a parte prendere per il culo i giornalisti. È stato facile, decidere che questa specie di cosa con Zlatan stava andando avanti da fin troppo tempo - è stato facile dissezionarla, pezzo per pezzo, e soppesarne i pro ed i contro, e accorgersi che si stavano distruggendo entrambi più di quanto riuscissero a goderne. È stato facile guardarsi e vedersi provato dallo stress, dalla nostalgia, persino un po’ dalla rabbia irrazionale verso di sé, verso di lui, verso la sorte immonda e puttana. È stato facile decidere di finirla, è stato facile dirsi che era per il bene di entrambi, per la sanità mentale di entrambi.
È stato facile buttare giù una bozza della telefonata, è stato facile preparare due o tre frasi ben calibrate da far scivolare casualmente nella conversazione, per condurla nel giusto verso, nel giusto modo, ed è stata una gran soddisfazione, poi, aggiungere, in fondo agli appunti, un laconico, melodrammatico addio - come una firma, la maniera più José Mourinho di sempre di dare l’eutanasia a questo tipo di specie di cose.
È stato facile persino digitare il numero di telefono, sembrava che i tasti volessero premersi da soli e le sue dita volavano. È stato facile immaginarsi Zlatan a pisolare sul divano, è stato facile prenderlo in giro bonariamente, è stato fottutamente difficile ignorare l’amore caldo che ha preso a straripargli, infido bastardo, nel petto.
È fottutamente difficile, ora, seguire il piano - continuare a ferirlo, consapevolmente, senza pietà, là dove José sa, perché lo sa, che Zlatan è più vulnerabile, - e ogni minuto che passa è peggio. Sempre peggio. Sempre. E a un certo punto José non riesce nemmeno più a costringersi ad articolare un altro dei suoi insulti, un’altra delle sue stoccate del cazzo.
Rimane in silenzio, semplicemente a farsi torturare.
Potrebbe addirittura pensare di esserselo meritato: le cose gli vanno fin troppo bene, nel mondo reale, e ci sono troppe persone che ha fatto soffrire in giro per i continenti, perciò potrebbe anche essere giusto che un po’ di quel male ritorni da lui, ancor più se è lui stesso ad infliggerselo. Ma José non ragiona così. José non pensa di sbagliare, quando calpesta i sentimenti e le dita delle persone nella sua personale scalata al cielo; non è neppure una cosa fondamentalmente falsa di cui s’è convinto per forza di volontà, no, lui non sbaglia, è José Mourinho, porca miseria, non sbaglia e basta, non sbaglia mai.
José Mourinho non pensa in termini di karma e ricompense e punizioni; lui semplicemente va avanti per la sua strada, spedito come un carrarmato. S’è caricato su Tami e i bambini, li protegge bene dietro la carrozzeria blindata, e va avanti, avanti, avanti, e quando la strada finisce lui, semplicemente, se ne inventa una nuova. È così che ha fatto con qualsiasi squadra abbia allenato - ha sfondato muri e culi e speranze e paure, è arrivato in cima ad ogni montagna insormontabile che gli si sia mai offerta e poi, soddisfatto, se n’è andato a cercare la successiva. È così che ha fatto con qualsiasi altra cosa, è così che fa, è così che vive: non guarda in faccia cose e persone, ha in mente soltanto se stesso e poi, di punto in bianco, è andato a sbattere su Zlatan, di faccia, coi denti e il naso e il petto che ancora gli duole, ma forse è solo un infarto.
Zlatan, che su una cosa ha ragione: non l’hanno fatto come avrebbe voluto José, perché quello che José avrebbe voluto l’ha già trovato in Tami - davvero, José è convinto che è lei che deve amare, e nessun’altra, nessun altro. Non una donna gentile, non una donna minuta con gli occhi più dolci di sempre e neppure una generica madre dei suoi figli, ma Tami, Tami e basta. Tami, José lo sa, è quello di cui ha bisogno.
Tami è fatta esattamente nel modo in cui lui immaginava la donna che avrebbe voluto al proprio fianco. Tami è quella giusta, non Zlatan; Zlatan è tutto il contrario, Zlatan è impossibile, troppo alto, capriccioso, uno zingaro, Zlatan lo ama con una forza che José trova spaventosa. Tami ha un modo di amare discreto, educato, è un balsamo per i nervi sempre un po’ isterici di José; Zlatan è invadente, famelico, c’è una potenza distruttrice nel modo in cui i suoi occhi aggrediscono quelli di José, chiedendo più di quanto lui riesca a concepire, dando più di quanto lui riesca a concepire, che non ha nulla di sano, nulla di equilibrato.
Tami è quella giusta, ma Zlatan è perfetto.
«Ehi.»
José si riscuote appena, a sentire la voce di Zlatan, e solleva il viso, posando lo sguardo sul telefono. Ne distingue a stento i contorni, la superficie nera e lucida illuminata a intermittenza dalla spia del viva-voce. Non gli interessano per niente gli angoli smussati, il rettangolo bucherellato del piccolo altoparlante, il profilo curvo della cornetta e i bottoni stretti in rilievo, ma studia tutto con concentrazione.
«José, e che cazzo,» sbotta Zlatan, e adesso è irritato e José chiude di nuovo gli occhi, aspettando l’esplosione. «Guarda che metto giù. Cazzo, non mi puoi ignorare così, mi hai chiamato tu.»
Per un momento, José è tentato di dirgli che è meglio così, è meglio se lo ignora, è meglio, in effetti, se Zlatan riattacca subito, prima che lui possa fare ancora un altro passo in avanti, scoprendosi ancora un poco, rivelando ancora un poco la sua destinazione - quell’addio rotondo e definitivo che ha scritto tre volte, tutto maiuscolo, come un incantesimo, in fondo alla mappa concettuale della sua ultima conversazione con Zlatan.
«Non usare quel tono con me, zingaro,» borbotta, invece, e spera che la sua angoscia latente, strizzata nel microfono di scarsissima qualità del telefono, si trasformi in irritazione. Zlatan sbuffa una mezza risata, e José già lo immagina scuotere piano la testa.
«Sei proprio uno stronzo,» dice, in qualche modo tranquillo, e perfetto, una volta di più - José non porta davvero il conto, ma sa che non è la prima né la seconda, ma neppure la dodicesima o la settantaquattresima, per quel che vale, perché molto, molto tempo fa era già arrivato a numeri a quattro cifre.
«E da quando questa è una novità?» osserva, forzando l’ennesima risata che alle sue orecchie suona finta, di plastica, anche più di tutte le altre. Sta cominciando a pensare che magari Zlatan non si farà più fregare, ed è, sinceramente, un’ipotesi molto pericolosa.
«Da quando me ne sono andato,» replica Zlatan, il suo tono di voce ancora piatto, e José non riesce a capire bene cosa intenda, perciò resta in attesa, sperando che capisca. E Zlatan, ancora, capisce. «Sei sempre molto contento, quando siamo al telefono, da quando non ci vediamo. Ridi un sacco, José, e t’incazzi poco.» Gli sfugge una risatina quasi allegra. «Non riuscivo a capire se eri sincero o no, ma a questo punto propendo più per il no. Visto il modo in cui hai reagito ora, voglio dire.»
José si morde le labbra e si avvicina un po’ al telefono, è sicuro che Zlatan riesca a sentire il rumore delle rotelle della sedia che slittano sul pavimento.
«Non ti ho mai mentito, zingaro,» soffia, tentando di darsi un tono, ma Zlatan ride, ora più convinto.
«E questa è l’ennesima puttanata, José,» dice, poi ha un altro accesso di risatine che sembrano sfrangiare in minuscoli, insopportabili singhiozzi, e José vorrebbe essere morto mezz’ora fa, vorrebbe essere morto prima di aver avuto la brillante idea di chiamarlo. «Cazzo, José, ma perlomeno ti diverti?»
«No,» la risposta gli sfugge prima ancora che lui riesca ad accorgersi di aver aperto la bocca, e per un attimo pensa di ritrattare, ma Dio, no. «No, zingaro, non mi diverto.»
«E allora, cazzo, spiegami, José, spiegami perché continui a torturarmi così. Spiegami perché mi pigli per il culo, spiegami perché non riesci a trattarmi come una persona normale, spiegami che cazzo ti ho-»
«Te ne sei andato,» lo interrompe José, e gli sembra di aver parlato troppo piano perché Zlatan potesse sentirlo, ma il silenzio è istantaneo e lui allora sospira e ripete: «Te ne sei andato.»
«Soltanto questo?» chiede Zlatan, l’amarezza così palese nella sua voce che José la sente come un pugno allo stomaco. «Soltanto questo? Ti sei veramente attaccato a una tale stronzata, José? Cristo. Cristo. Cristo. Ora attacco, José, attacco, non-»
«Fammi finire,» mormora José, di nuovo seppellendosi il viso tra le mani e vaffanculo se la voce gli esce ovattata e sembra che stia piangendo - sembra, perché non sta piangendo, - vaffanculo, non importa. «Te ne sei andato, Zlatan,» dice. «Ed era la cosa giusta da fare. Era la cosa giusta da fare, Zlatan, è questo il problema.»
Zlatan fa un verso che è un po’ un mugolio e un po’ un singulto, e per José è come se avesse messo il sonoro alla definitiva estinzione anche di quell’ultima scheggia di decisione che gli era rimasta. Adesso sono soli, lui e Zlatan: non c’è nessun addio a senso unico ad aspettarli dietro l’angolo, nessuna risata finta, nessuna professione di grandezza e gioia rossonera. Resta un po’ di malinconia atroce, una nostalgia desolante e tutto il maledetto amore che hanno, tutto il maledetto futuro che si srotola ai loro piedi in un bivio, e solo la scelta di tenere o cancellare la specie di cosa che hanno tra loro.
Sono soli, a chilometri di distanza, in piedi insieme; e non l’hanno mai affrontata, una scelta così.
«Che significa?» bisbiglia Zlatan; ha la testa leggera e la mano sinistra pesante, gonfia sulle nocche che a un certo punto, quando José era distratto da Cristo solo sa cosa, ha sbattuto contro il tavolino di vetro accanto al divano, fracassandolo, perché gli sembrava tremendo di avere del vetro in frantumi soltanto nei polmoni. «Che significa?»
José si passa nervosamente le mani sul viso, sulle tempie, tra i capelli, tirandoli indietro, e sospira, rilassandosi all’indietro contro lo schienale imbottito della sedia.
«Significa che se non te ne fossi andato tu, me ne sarei andato io,» dice, e siccome è finalmente sincero, siccome è finalmente José, è di nuovo deciso, preciso, calmo, annoiato. Zlatan sorride. «Significa che stavamo diventando pericolosi, zingaro. Stavamo bene, troppo bene, insieme, e pensavamo troppo poco. Se ci avessimo pensato,» si ferma un attimo, sospira. «Se solo ci avessimo pensato, zingaro-»
«L’avremmo fatto comunque,» conclude Zlatan, e José fa quel suo sbuffo personalissimo, tutto labbra e guance gonfie, e Zlatan ride.
«L’avremmo fatto comunque,» concorda il portoghese, alla fine, e gli sfugge un sorriso. «In ogni caso, è stato, com’è che si dice?, più prudente così,» dice, e schiocca la lingua, pensoso, la bocca piena del sapore amaro delle verità che sta blaterando. «Tu hai una famiglia, io ho una famiglia. Abbiamo dei compiti, dei doveri, delle responsabilità. Stavamo ingiustamente venendo meno a tutto questo.»
«E poi che altro, José?» chiede Zlatan, pianissimo, e la sua voce, quasi dolce, dà a José la pelle d’oca.
«Che intendi, zingaro?» borbotta, e Zlatan ridacchia, divertito.
«Che altro, José?»
«Non c’è altro, zingaro.»
«...José.»
«Vorresti minacciarmi, zingaro?» chiede, le sopracciglia inarcate anche se sa perfettamente che Zlatan non può vederlo. Lo sente ridere di nuovo, appena un po’ meno convinto di prima.
«Per favore,» mormora Zlatan, strascicando ogni lettera perché dev’essere un cazzo di trauma, per lui, chiedere per favore, e un po’ anche per dare a José il tempo di assaporare il momento. «Dai, José.»
E José, prevedibilmente, capitola.
«E poi fa paura, zingaro,» dice, come se stesse dicendo un’ovvietà, che poi proprio di un’ovvietà si tratta, davvero, peccato che sia lui che Zlatan funzionino piuttosto male, e fanno una fatica immensa, con le ovvietà di un certo calibro. «Fa paura, trovarsi sotto la pelle uno zingaro incazzoso e incostante il cui unico scopo nella vita è rompermi le balle. Ci sono un milione di motivi per cui fa paura,» si prende una pausa per tentare di raccogliere un paio di pensieri coerenti, chiude gli occhi. «Ma principalmente il problema sono io. Non lo so se sono pronto, zingaro. Non lo sapevo quando te ne sei andato, non lo so adesso, forse lo saprò domani, ma posso mettermi in gioco un tanto alla volta, e credimi, ho superato fin troppo il mio limite.»
«Stai parlando di noi, o stai parlando di te e l’Inter?» sorride Zlatan, e per un attimo José lo odia per essere così fottutamente perfetto.
«C’è differenza?» chiede, stringendosi appena nelle spalle, gli occhi fissi al telefono come se fosse il viso di Zlatan - e se lo immagina, riesce a vedere il suo sorriso appena accennato, l’esatta sfumatura di castano nei suoi occhi, le pagliuzze dorate attorno all’iride e una ciocca di quei capelli impossibile che gli attraversa alla cazzo la fronte, andando a solleticargli l’angolo di un sopracciglio.
«Non molta, credo,» tenta Zlatan, e José scuote la testa.
«Nessuna, zingaro.» lo corregge. «A parte il fatto che lei è sempre stata più bella di te.»
Zlatan scoppia a ridere.
«Sei uno stronzo,» dice, quando riprende fiato, e José china il capo compitamente, come per accettare un complimento, anche se Zlatan non può assolutamente vederlo. «E guarda che non era un cazzo di complimento, perciò è inutile che ti inchini!»
«Come hai fatto a...?» chiede José, sinceramente perplesso, e Zlatan ride ancora.
«Ho tirato a indovinare,» risponde, e il portoghese sbuffa, ma sta sorridendo. Perfetto, pensa, miracolosamente senza neppure un’ombra di fastidio; davvero perfetto. «Allora,» riprende Zlatan, esitando appena. «Quanto pensi che ci metterai a capire se sei pronto ad accogliere in te il mio immenso amore?»
«Fino ad ora credo di aver accolto dentro di me fin troppe cose da te, grazie mille,» sibila José, per tutta risposta, e a Zlatan sfugge una risata bellissima che è come un ruggito, breve e roca, e José, suo malgrado, sorride. «Ad ogni modo, cosa vuoi che ne sappia?»
«E che facciamo, nel frattempo?»
«Nel frattempo potresti cominciare a fare un po’ meno schifo in campo.»
«E nel frattempo tu potresti cominciare a ficcarti quell’indisponenza su per il culo,» replica Zlatan, all’istante. «Però se vuoi ficcarci qualcosa di meglio, sai dove trovarmi.»
«Oh, Dio, che squallore,» geme José, un po’ troppo teatralmente per essere credibile, e Zlatan ride.
«Mi manchi, José,» dice, con tutta la sicurezza del mondo - la sicurezza di chi non si aspetta una risposta e neppure la vuole, magari ci spera, ma non ne ha bisogno: è la sicurezza di chi è abituato a dare senza ricevere in cambio, o comunque ricevere meno di quanto abbia dato, e a José fa un male infinito, ancora una volta, la tremilacentoquattordicesima, perché queste non ha mai smesso di contarle.
«Mi manchi anche tu, zingaro,» concede, gli occhi chiusi, e sorride quando sente Zlatan trattenere bruscamente il fiato.
«Ok,» mormora, dopo un po’ di silenzio. «Ok, ora chiamo davvero un esorcista.»
«Chiama una fattucchiera di qualche tipo, piuttosto, che domani ti servirà un bel po’ di fortuna,» ritorce José, come suo solito simpatico quanto un compito a sorpresa di matematica il primo lunedì dopo le vacanze estive, e Zlatan si ritrova a ridere, perché Zlatan, accidenti a lui, ride sempre, quando José è José.
«Tu, piuttosto, fai attenzione,» dice. «Che San Siro non è più casa tua.»
José sbuffa.
«San Siro mi appartiene,» sentenzia, ed è José, perciò Zlatan lo trova divertente e ride.
«Vabbè, naturalmente,» lo prende in giro, e José tollera. «Ci vediamo lì.»
«Ci vediamo a San Siro,» annuisce, e persino sorride, perché gli pare una bella promessa.

a/n. Minchia, che faticaccia. Ad ogni modo. L'avete riconosciuto, il richiamo a PoaLS? Esattamente, è quando Z. dice "[...] ficcarti quell'indisponenza su per il culo". In PoaLS, una frase simile è pronunciata da José a Helena, nel quarto capitolo ♥

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