Titolo: Cracked a brick when you hit the wall
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Steven Gerrard/Xabi Alonso
Rating: G
Conteggio Parole: 1177 (fidipu)
Avvertimenti: slash, fluff?, boh, wow era un millennio che non li scrivevo, le solite cose noiose
Note: Non ho più icone Gerlonso, vergogna su di me e sul mio ornitorinco da compagnia... Anyway! NANANAAAA~~, BUON COMPLEANNO MARTAAAAAAA :D <3 Sono miracolosamente riuscita a finire questa robetta in tempo, e ha quasi senso, non so quale delle due cose mi abbia sorpresa di più XD Auguuuuuri, spero che non stia facendo troppo caldo e che ti siano arrivati millemila regali, tutti meglio di questo :3 o soldi, i soldi sono sempre un bene. <33333333!
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.
Cracked a brick when you hit the wall.
Stevie alza d’un briciolo la testa, quando la sua gamba ha già calciato, e Xabi è lì dove Stevie lo aspettava, e la parabola che il cross disegna contro il cielo terso di Melwood o Anfield o Manchester o qualsiasi altro stadio del mondo, indifferentemente, è quasi sempre la copia esatta di quella che stava nella testa di Stevie. E Xabi, in risposta, non spreca un movimento, preciso ed elegante e inarrestabile continua al galoppo e non ha nemmeno dovuto accomodare la propria corsa alla ricezione; lo guardi e diresti che quel pallone è sempre stato tra i suoi piedi.
Che si siano incontrati sullo stesso lato del campo, una combinazione così perfetta e immediata, va contro così tante leggi delle probabilità che Stevie è sicuro di aver esaurito la propria scorta di buona sorte di tutta la vita. (Poi c’è Istanbul-you should have seen-)
È una questione d’incastri, ma l’unico che funzioni senza inciampi è quello del pallone, dai piedi di Xabi ai piedi di Stevie e ritorno (-you should have seen the look-), e, qualche volta, fino al fondo della rete (-you should have seen the look on Gerrard’s face).
Sul tappeto morbido dell’erba di uno stadio, è facile; ubriaco di luci e canti e adrenalina e gioia, è facile; è facile allungare il collo e baciarlo e poi sorridere dello sbuffo caldo della sua risata contro il collo, perché a nessuno verrà mai in mente di giudicare un momento così. Non è la stessa cosa, poi, da soli in una stanza d’albergo a chilometri da casa, o da soli negli spogliatoi, o da soli in una tavola calda alle sei e mezza del mattino o da soli, in balcone, mentre due piani più giù Alex e Nagore scelgono il vino per la cena; allora, quando non può dividere il peso di ogni parola con una giustificazione più grande di tutto (-we won it five times-), Stevie si tormenta coi denti l’interno di una guancia. Disegna ghirigori con un dito sul legno lucido del tavolo. S’impiccia con la serratura dell’armadietto, ancora e ancora e ancora. Lancia un’occhiata disperata al cellulare sul comodino, pregando che le sue figlie o Carra dalla camera accanto o il Padreterno in persona decidano di chiamarlo.
Xabi, dal canto suo, è silenzioso e composto come il ritratto di un duca e, dunque, non è per niente d’aiuto.
Le occhiate e i cenni e le mezze parole urlate da un capo all’altro del campo, fuori non bastano; Stevie fa e disfa almeno un milione di discorsi-e se li scrolla di dosso, impaziente, perché gli pare assurdo complicarsi la vita così. Poi Xabi sorride, enigmatico e quieto, o stringe gli occhi e arriccia le labbra perché non ha idea di cosa Carra stia cercando di dirgli, o ride, dopo che Pepe gli ha brontolato chissà che all’orecchio, e allora Stevie è costretto ad ammettere, contro il nodo che gli serra la gola e la voglia di appoggiare le mani sui fianchi di Xabi e di nascondere il viso lungo la curva del suo collo, che è già un po’ tutto il contrario di facile. Che gli ingredienti ci sono-che il miracolo di quando giocano è pronto a invadergli tutta l’esistenza, deve solo alzare gli occhi e dire va bene, la prossima volta che Xabi gli arriccia le dita attorno al polso per attirare la sua attenzione.
Sposare Alex e fare una famiglia con lei e restare a Liverpool, diventarne il capitano, è stato semplice e ovvio e come galleggiare, portato in giro da una corrente gentile; Stevie ha sbattuto i piedi qua e là e dato una bracciata o due o cinquanta, quando ce n’era bisogno, ma il resto, pure nelle difficoltà, è stato semplice, come giocare a pallone. L’ultima cosa che ha avuto bisogno delle sue parole, di un cambio di marcia, che ha minacciato di rigirargli e strapazzargli la vita è stata quella sessione di mercato alla quale Stevie non pensa mai perché poi gli resta sempre addosso il bisogno di andarsi a confessare ai piedi della statua di Shankly.
Non è un paragone giusto, è quasi addirittura offensivo, ma Stevie continua a tapparsi la bocca e tenersi le braccia vicine al corpo ogni volta che è con Xabi e si sente morire se non lo tocca ma non sono in campo a festeggiare una rete; e Xabi gli sta intorno quel tanto che basta a ricordargli, puntualmente, cos’è che potrebbe avere, e cos’è che sta rifiutando-Xabi è sempre lì ed è sempre Xabi e fila sempre tutto così liscio, con la promessa sottile di qualcosa di meglio, qualcosa di più, che fa bruciare il petto di Stevie, tra i polmoni e pericolosamente vicino al cuore, e Stevie ci si è quasi abituato, Stevie sta cominciando a sentirsi lusingato dall’attenzione, quando Xabi va via.
Stevie ha le mani sepolte nelle tasche dei jeans, si guarda i piedi, e ormai mordicchiarsi l’interno del labbro quando è solo con Xabi è un’abitudine alla quale non fa più nemmeno caso; l’incastro è incrinato, adesso, e non era mai capitato prima, non così evidentemente. La notizia non è neppure ancora ufficiale, ma Xabi scuote la testa, piano, resta seduto mentre Stevie vorrebbe buttarsi per terra.
È il momento di chiedergli-implorarlo persino, perché non ci sarebbe niente di male, Dio santo, è Xabi-di restare, Stevie quasi vede le parole fluttuargli davanti agli occhi come sottotitoli; sospira, e si strofina la fronte col dorso delle dita, e invece dice, con quei quattro anni di ritardo, «Va bene.»
Xabi alza la testa di scatto, le sopracciglia inarcate in un’espressione sorpresa, per un attimo ferito, ma gli basta un attimo per leggere l’espressione di Stevie-le spalle pesanti, il viso pallido, le labbra rosse per il tormento dei denti, gli occhi chiari come specchi d’acqua; e allora sbuffa giusto la coda di una risata calda, e arriccia la bocca in un sorrisino gentile che Stevie vorrebbe portare nella tomba con sé.
«Va bene,» ripete Xabi, un po’ cauto e un po’ divertito. Si alza, si avvicina piano, e Stevie alza gli occhi a incontrare i suoi solo quando sono abbastanza vicini da respirare all’unisono, e la medesima aria.
Stevie dovrebbe sentire rabbia e delusione e tradimento, e una parte di lui è persa esattamente dietro quella reazione; ma il resto è sommerso di una malinconia tersa, paziente, il genere di emozione impressa sul dorso argentato della Mersey, rassegnata a riflettere un cielo freddo e grigiastro anche nei giorni di sole. Era inevitabile e Stevie è perpetuamente un fascio di nervi perché sa di non avere nessun superpotere.
«Steven,» mormora Xabi, e Stevie espira tremando e quando Xabi lo bacia, un tocco leggero e quasi timido e Dio, le sue labbra sono morbide come Stevie le ricordava e Dio, è, ancora una volta, precisamente come Stevie se l’aspettava, è un altro pezzo che trova il suo giusto posto; dovrebbe avere il sapore di un inizio, o di un addio, e invece a Stevie, le mani serrate attorno ai fianchi stretti di Xabi, sembra un passo, un movimento intermedio-una pallonata imparabile che continua, semplicemente, ad arrampicarsi su per la parabola, verso l’incrocio tra i pali.