[FFXII fanfic]: Tela di Ragno

Jan 21, 2009 23:01

E' da un po' che avevo promesso a indra_pavamana qualcosa su questo pair (molto dimenticato!!!) e dopo lunghe traversie sono riuscita a finire la fic qui di seguito!

Un grazie alla sempre meravigliosa beta taurie_2020 senza la quale non saprei proprio come fare!
Buon divertimento!!!

Fic: tela di ragno
Autore: Dhely
Fandom: Final Fantasy XII
Rating: niente di graphic!! ma *ovviamente* è yaoi.
Pairing:Dottor Cid Bunansa + Marchese Halim Ondore
Note: ovviamente i pg non sono miei. Se lo fossero stati vi assicuro che ve ne sareste accorti!


Halim si sporse, e si perse per un attimo a contemplare Archades dall’alto dei Laboratori Draklor.
“La vista da quassù, Cid, ti spezza il fiato nei polmoni, come ogni volta.”
Non riusciva a smettere di sorridere, incantato. Eppure avrebbe dovuto esserci abituato.
Dall’ottantesimo piano Halim aveva la sensazione di avere ai suoi piedi l’intera città, era quasi come sentirsi un piccolo dio. Non che a un futuro Marchese di Bujerba, la famosa, meravigliosa città volante, le altezze potessero fare una qualche impressione particolare, in se stesse.
Era..
Halim prese un profondo respiro. L’aria tiepida profumava, di verde, era dolce, appena mossa da una brezza persistente. I rumori della città arrivavano attutiti all’altezza del terrazzo, le luci smorzate e le stelle, scintillanti, punteggiavano il cielo nero, confondendosi con i bagliori artificiali della vita.
Non esisteva alcun altro posto che fosse simile a quello, ne era certo.
“Lo dici come se fosse merito mio.”
E poi c’era il suo sorriso.
Un’espressione calda, aperta, un qualcosa che gli faceva vibrare corde invisibili, dentro.
Si voltò appena verso di lui.
Era un uomo elegante: spalle larghe, lineamenti decisi ma regolari, abbigliamento impeccabile, mani grandi, forti, ma che sapevano essere infinitamente delicate.
Halim non seppe cosa rispondergli. Era solo.. abbassò gli occhi.
Avrebbe mai potuto concedersi il lusso di dirgli qualcosa di speciale? Avrebbe potuto esserci qualcosa di - finalmente - sincero, tra di loro?
“Il piccolo Ffamram dorme?”
Si stupì lui stesso di quella domanda, ma non nel vedere il sorriso di Cid mutare.
Cid era molte cose: un brillante studioso, un gentiluomo garbato, un superbo amante, un ottimo conversatore, un uomo estremamente piacevole. E, anche, un giovane vedovo che si occupava con tutto il suo cuore, la sua attenzione, la sua dedizione, alla crescita del ragazzino più dolce ed educato che Halim avesse mai incontrato.
“Sì, ti devo domandare perdono per quest’incidente. Conversare con te è così tanto piacevole che spesso non presto attenzione allo scorrere del tempo. E’ molto tardi, per lui.”
Sentì la pelle come incresparsi dal piacere sotto il tocco di quello sguardo.
Impeccabile: tale padre, tale figlio. Doveva essersi annoiato a morte durante quella cena in cui per ore avevano chiacchierato di svariate questioni, nessuna delle quali adatte a un bambino, eppure non aveva mostrato un solo cenno di fastidio, né di irrequietezza. Non una parola o uno sbuffo. Vinto dalla stanchezza si era semplicemente lasciato scivolare nel sonno, assopendosi sulla scomoda sedia della sala.
“E’ educato come un principino.”
Il sorriso di Cid si fece, più profondo, venato da una decisa consapevolezza.
“E’ un Bunansa.”
Per lui quella sembrava la risposta perfetta per ogni cosa, e Halim.. bhè, lui gli perdonava tutto.
Halim era stato mandato ad Archades molti anni prima dalla sua famiglia, per studiare presso la più prestigiosa Accademia di Ivalice e per entrare in contatto con la nobiltà e le personalità più influenti dell’Impero. In fondo l’unico erede di un Marchesato di antiche origini, di alta nobiltà ma di scarso peso militare aveva nelle alleanze politiche e nell’opportunismo diplomatico, l’unica arma ragionevole per la sopravvivenza propria e del suo popolo.
Sapeva di essere stato fortunato: aveva amato Archades fin dal primo istante.
L’architettura, quell’aria incredibile, piena di vita, la gente e il modo di fare, l’accento dolce con cui cadenzavano le parole, la luce che si riverberava sui palazzi dalle altezze vertiginose, i negozi pieni di qualsiasi cosa, provenienti da ogni angolo del mondo.. e poi i teatri, la musica, le biblioteche, i musei e le novità tecnologiche.. tutto.
Aveva conosciuto Cidolfus Demen Bunansa, Dottore dei Laboratori Draklor, anni prima, appena giunto ad Archades, quasi per caso mentre, con un conoscente, stavano commentando le funzioni di uno stabilizzatore di volo di ultimissimo modello. Cid era intervenuto con un commento caustico su un non-ricordava-cosa non ben calibrato rispetto a qualcos’altro di cui Halim non aveva mai sentito parlare.
Non aveva pensato che fosse un bell’uomo - anche se lo era- non lo aveva trovato supponente, o noioso. Aveva notato subito la voce, e gli occhi.
Non avevano mai smesso di piacergli, nonostante tutto il tempo trascorso.
Gliel’avevano presentato così, in quell’occasione e da allora non si erano più persi di vista.
Anche se ci aveva pensato tanto, e a lungo, non sapeva dire chi dei due davvero avesse iniziato. Non se lo ricordava, forse, o forse semplicemente non aveva alcuna importanza: era stata una strana relazione cresciuta in maniera istintiva, senza forzature di alcun genere.
Cid era un uomo riservato, e Halim sapeva essere discretissimo. Anche dopo anni di frequentazione erano entrambi certi che solo pochissimi sospettassero una loro relazione. Qualcun c’era di sicuro, ma Archades aveva un sistema di spie e di passaggio d’informazioni troppo ad alto livello per riuscire a sfuggire.
Un sospiro gli sfuggì dalle labbra.
Molti mesi, i primi, passati per lo più a parlarsi, a discutere, a frequentare posti, a vedere cose, ritagliandosi spazi e tempi in due vite tanto diverse come le loro.
Halim sorrise nel sentirlo avvicinarsi, increspando le labbra.
Di quegli anni ricordava tutto. Di loro due ricordava ogni cosa: la festa di primavera all’Accademia, i locali, le luci, il divertimento. Il loro primo bacio rubato nell’ombra stranamente silenziosa dell’androne di un palazzo, e lui che lo portava ovunque, mostrandogli tutto, spiegandogli ogni cosa.
In Accademia li definivano inseparabili, ed era vero. Di giorno e di notte.
Soppresse un tremito.
Le notti, quelle notti lunghe, meravigliose, estenuanti.
Non era stato il suo primo amante, né viceversa, ma nessuno l’aveva mai fatto sentire così.
E c’erano state vacanze, e ritorni a casa, esami, libri, cene, luoghi da esplorare, progetti da pensare, programmi da rispettare. C’erano state separazioni obbligate: Halim che doveva tornare a Bujerba per l’estate e Cid impegnato in cose troppo complicate perché potesse capirle.
Ma alla fine erano sempre lì ad aspettarsi, anche quando il suo tempo ad Archades era finito, anche quando il Marchese suo padre si era improvvisamente ammalato e aveva dovuto tornate a Bujerba con una frequenza troppo ravvicinata per i suoi gusti.
Anche quando Cid s’era sposato.
Loro due erano una cosa diversa, glielo diceva sempre, e ad Archades la gelosia era considerata un sentimento da stupidi.
Per Halim, figlio di una cultura possessiva ed esclusivista quella era stata una lezione difficile da imparare, ma non quella più complicata.
Se lo ricordava ancora, perfettamente bene: una delle ennesime feste di quegli anni, la musica alle sue spalle, lui che contemplava il cielo da una terrazza che si apriva su un giardino interno, il padrone di casa che - finalmente- aveva smesso di presentarlo a tutti come se si fosse trattato di una bestia strana di cui fare sfoggio.
Un pò di silenzio, un po’ di solitudine, e un silenzio fiorito nel buio.
‘Marchese Ondore, così questo è il tuo titolo.’
Non lo stava sbeffeggiando, o altro. S’erano visti per la prima volta quella matitina, e ora.. lo aveva guardato e Halim aveva sentito un brivido, un pizzicorio strano che gli sfrigolava sotto la pelle e a cui era spaventato a dar voce.
Lo aveva guardato dritto negli occhi ed essi non avevano mostrato nulla che non fosse una pacata curiosità, appena accesa da sfumature dorate che sembravano il baluginio discreto di un fuoco interiore ben vivo ma disciplinato. Poi l’aveva fulminato con una battuta che lo aveva spiazzato e che, per quanto incredibile, era certo avesse probabilmente segnato il corso della loro relazione.
Nulla di sdolcinato o screanzato, niente di volgare o eccessivamente formale. Niente di simile ai mille tentativi di approccio cui era stato sottoposto fino a quel momento, solo un genuino moto di sorpresa, gli occhi fissi sulle sue mani.
‘Senza guanti, Halim?’
Senza guanti.
La pelle nuda era un tabù peculiare e sotterraneo di Archades. I vestiti potevano essere il più aderenti possibile, potevano segnare all’inverosimile il corpo, potevano essere trasparenti, pure, ma la nudità, la pelle esposta al contatto di altra pelle era un dono che si faceva solo agli amanti. Ad alcuni di essi.
Halim non lo sapeva ancora, ma l’avrebbe imparato.
E bene.
Svergognato: così lo chiamava Cid, ridendo, quando si concedeva il lusso di quel vezzo alieno.
Ad Archades erano abituati agli stranieri, e sapevano che portavano con loro usi bizzarri, spesso incomprensibili, che venivano notati ma solitamente non giudicati. Le dita nude di Halim erano una di queste cose, ma esse erano solo per Cid, e per nessun altro.
Entrambi lo sapevano e ne ridevano.
Le immagini del loro passato si accatastarono nella mente, sfocando l’una nell’altra.
Per un attimo tutto il passato si coagulò, deciso, stretto, lì tra di loro. Per un attimo non esistette che quello che già era stato vissuto.
Il loro incontrarsi, i baci, lo starsi accanto. Il matrimonio di Cid, i sogni condivisi, i letti - altrettanto condivisi- in stanze con grandi tavoli da progettisti, con fogli e carte sparsi ovunque, fino a sfiorare le lenzuola in cui erano avvolti. I suoi libri di storia e le chine di Cid, le lettere che riempivano con pochi tratti la solitudine della lontananza, e il guardare il cielo, fuori dalle finestre del suo palazzo a Bujerba, pensando a lui, immaginando il momento in cui si sarebbero rincontrati, cosa si sarebbero detti, cosa avrebbero fatto. Aspettarlo, e aspettarsi, attendere il tempo in cui sarebbero stati di nuovo uno fra le braccia dell’altro, quando Cid si fosse di nuovo sfilato i guanti.
Spudorato, l’avrebbe chiamato, e avrebbe riso, e l’avrebbe baciato e l’avrebbe amato, perché la gelosia era un sentimento stupido, e inutile, e plebeo, e Cid amava sua moglie e lui, insieme, e non c’era nulla di male, né di sbagliato.. Halim ricordò quante volte, nel cuore della notte - ad Archades come a Bujerba - avesse sofferto quello stesso dolore, che non riusciva a controllare né ad accettare: Cid aveva sua moglie, i suoi Laboratori, suo figlio.. eppure c’era sempre un posto anche per lui, nella sua vita.
Cidf glielo diceva e non riusciva a non credergli.
Era solo che..
Si scosse, sorridendo nel sentirlo accanto. La spalla contro la sua, la mano di Cid a sfiorargli le dita quasi sovrappensiero. La mano, nuda, sulla mano.
C’erano amanti, Halim sapeva, che tenevano comunque celati, l’uno all’altro, brandelli di pelle: rapporti senza importanza, senza profondità, senza futuro; emozioni a tempo che sarebbero scadute nel giro di un respiro. I rapporti ad Archades erano regolati in maniera peculiare, complessa, ma Halim in parte ne aveva colti i meccanismi. Riusciva a comprenderne, in maniera nebulosa, i procedimenti, poteva..
Ebbe un brivido di consapevolezza: di quello non avevano mai parlato, di quello che c’era tra di loro. Le parole non sarebbero state sagge e poi forse non servivano.
Prese un profondo respiro per ingoiare tutto quello che gli si era incastrato in gola.
Cid aveva un figlio, una moglie, e i laboratori a cui pensare, Halim aveva Bujerba, il suo incarico. La verità era che se fosse stato solo sesso non sarebbe stato un problema. Né se si fossero limitati ad essere amici. Era l’unire le due cose che causava danni inimmaginabili.
Soprattutto erano quei pensieri che ogni tanto aveva, quando non riusciva a limitarsi a godere del presente, quando gli sembrava indispensabile dare un nome a quel che provava, anche se non poteva farlo.
Come ora.
La mano di Cid, che stringeva la sua, gli fece saltare il cuore in gola.
Si sentiva come una mosca inchiodata in una ragnatela, si sentiva.. avvinto. Spaventato, perché sapeva cosa avrebbe dovuto fare, cosa avrebbe dovuto essere fra loro due e, insieme, sentiva chiaramente che c’era ben altro che voleva.
“Fosse solo sesso..” sospirò, mentre Cid continuò la sua frase.
“.. sarebbe più facile.”
Non si guardarono.
Non si erano mai detti nulla di più esplicito di quello, prima. Halim seppe, in quel preciso istante, che non sarebbe mai più successo nulla di simile, in futuro.
Non c’era alcun futuro: terminata la sua educazione Halim sarebbe tornato a Bujerba, l’avrebbero nominato Marchese e non avrebbe mai più potuto tornare, almeno non in veste di privato cittadino, e quella loro complicità, quella vicinanza non avrebbe mai più potuta esserci.
L’aveva sempre saputo, ma non l’aveva mai compreso con così tanta forza.
La mano di Cid rimase immobile, stretta alla sua.
“E’ un addio, questo?”
Le luci della città parvero sfocare, ma non avrebbe pianto.
“Ogni volta che ci vediamo, Halim, quello è un addio. - la voce di Cid era un sussurro - A volte vorrei essere il solo artefice del mio destino. Vorrei che nulla ci costringesse a essere quello che non siamo, o che non vogliamo essere. Che nulla ci obbligasse a piegarci a dei doveri che non siano nostri, accettati e voluti.”
Halim avrebbe voluto soltanto che Cid avesse il potere di costringerlo a restare lì, per sempre.
Non avrebbe mai più amato qualcuno in quel modo. Era la prima volta in cui aveva pensato quel pensiero, e pregò fosse anche l’ultima.
Halim si voltò verso di lui, gli posò la fronte sulla spalla.
“Facciamo l’amore, ti prego.”
Era un addio.
Non avrebbe pianto.

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