(no subject)

Apr 03, 2009 21:33



In realtà non so precisamente *cos'ho*.

Perché avevo messo sì in conto di provare a scrivere sul Lj, stasera. Giusto per.

Ma ecco. Pensavo che avrei saputo mettere giù i pensieri in una forma coerente.
Pensavo che avrei avuto dei pensieri coerenti.

Invece boh.

È da venti minuti che ho un guazzabuglio totale in testa, e un bisogno atroce di mettere qualcosa per iscritto.

Qualcosa che possibilmente non sia l'introduzione al prossimo capitolo di CD, che altrimenti Chris potrebbe cominciare a fare osservazioni strane… *rolling-eyes*

Forse è solo che non sono più abituata a stare una sera senza Fata.

Forse è quello.

Forse.

In ogni caso, è preoccupante.

*rolling-eyes*

In realtà ci sarebbero discorsi decisamente importanti da fare. Perché, per esempio, in queste settimane ho avuto la prova inconfutabile che il mio destino sta nell'America Latina - come, non lo so. Ma in qualche modo c'è legato.

Ogni giorno mi viene in mente un nuovo argomento per la tesi - e sono *tutti* connessi a quelle terre. I periodi storici variano considerevolmente - praticamente, credo che potrei trovare qualcosa di interessante in qualunque secolo - ma la geografia è quella.

Ora come ora, il soggetto che preferirei è la Pizarnik. Perché Ash è contento, essenzialmente. E perché tra tutti credo sarebbe quello più in linea con me.

Ma potrei parlare anche di Bernardino de Sahagún o di Gonzalo Guerrero (sì, beh, credo che questo non sia fattibile *rolling-eyes*) o di Borges o di Márquez. Per dire. O della poesia indigena. O di Puig. O di Marina.

Insomma, di *tutto*.

Ma la Pizarnik sarebbe stupenda.

Prima o poi, forse, se troverò il coraggio, parlerò alla Martinetto.

*rolling-eyes*

Tanto c'è tempo. Credo.

Il corso di Ispanoamericano comunque è seriamente il più *bello* che abbia mai seguito. È anche uno dei più impegnativi - perché è estremamente coinvolgente, e perché siamo davvero pochi.

Anche ora che ci siamo uniti a quelli della Specialistica siamo meno che ad un lettorato.

E questo ti permette di conoscere meglio le persone, comunque. Anche perché le lezioni non sono esattamente frontali: c'è da parlare, discutere. Intervenire.

Sono riuscita ad intervenire addirittura io… *rolling-eyes*

E poi perché la Martinetto ci tiene davvero a fornire strumenti. Non è il tipo di insegnante che si limita a darti due libri da studiare e fine - l'esame, con lei, è quasi una prospettiva vaga. Non ti sembra di studiare per un voto, ma perché l'argomento ti interessa. E lei non sembra insegnarti perché vuole che gli ripeti quelle cose all'esame, ma perché vuole che ci pensi. Che le sai.

E anche se l'esame proprio per questo mi spaventa - perché in realtà non ho idea di cosa aspettarmi, e l'impressione è che sarà *molto* esigente - sono soddisfatta.

Legato alla Martinetto c'è il discorso Morino. Che è uno degli elementi che hanno contribuito a destabilizzarmi molto, oggi.

Morino era il docente di Ispanoamericano a Torino - io l'ho conosciuto leggendo il libro su Marina e Cose d'America, e sono rimasta abbastanza shoccata quando ho scoperto, dalla Martinetto, della sua morte.

Da allora, lei ce lo cita più o meno tutti i giorni. Credo sia stato un po’ il suo mentore, e si vede che lei ha una venerazione per lui, ancora adesso.

Comunque, Morino era un'autorità nel campo della letteratura ispanoamericana. E lo sapevo.

Ma oggi ho trovato la sua bibliografia.

E boh. Forse è normale per un professore universitario, non so. Ma sono rimasta sconvolta.

Perché ha scritto due libri di narrativa. Sette monografie. Sessantadue articoli. Curato cinquantasette volumi. E tradotto OTTANTASEI libri.

Tra cui La casa degli spiriti, D'amore e d'ombra ed Eva Luna dell'Allende; molti di quelli di Márquez; forse tutti quelli di Puig.

Cioè. Praticamente la conoscenza che può avere l'Italia dell'America Latina si deve a *lui*.

E non so.

Mi ha sconvolto.

Forse, pensare che se fossi nata due anni prima avrei potuto averlo come docente.

È strano.

A parte questo, è un periodo che non riesco a fare praticamente nulla che non abbia a che fare in qualche modo con gli indiani. E per indiani intendo sia quelli del Nord che quelli del Sud America.

È un mondo troppo complesso, e troppo frustrante. È come entrare in una sala piena di specchi che modificano le forme, e le dimensioni.

Gli indiani hanno un'opinione *pessima* degli antropologi occidentali.

Alcuni hanno un'opinione pessima degli antropologi in genere. *rolling-eyes*

E quindi ogni testo che mi passa per le mani, lo leggo pensando: che cosa avranno capito, gli autori, di quel che descrivevano? Cosa posso capire, *io*, di quel che sta sotto queste costruzioni di parole?

La risposta è sconfortante, eppure al tempo stesso uno stimolo a continuare.

Ho voglia di leggere testi originali. Romanzi di autori indiani - pare che sia una delle correnti più innovative dell'attuale letteratura americana - e saggi critici. Ho voglia di essere nelle condizioni di poter sbirciare un po’ nel loro mondo. Anche senza capire. Anche senza sapere.

Con tutta l'umiltà di cui sono capace.

Tutto questo si riflette naturalmente anche sul rapporto che ho con Raven.

Perché più passa il tempo più mi rendo conto che non è mio. Che non lo sarà mai - che non riuscirò mai neanche ad avvicinarmi, a capirlo. Che non sarà mai un personaggio vero, ma solo un mistero stupendo. Occhi imperscrutabili.

Perché Raven può anche essere un sanguemisto cresciuto lontano dalle riserve, avvicinatosi ai suoi antenati solo attraverso i libri e i racconti e il passato. Ma il nocciolo del suo essere è tribale. E da lì parte ogni sua spinta emotiva, ogni sua verità.

E lì io non ci arriverò mai, neanche se passassi il resto della mia vita a studiare le mille culture diverse che si intrecciavano in America prima che gli Europei portassero la loro personalissima civiltà.

Se lui è straniero alla sua storia, io sono straniera a lui.

Ed è un piacere amaro, in fondo. Sentirlo così vivo, accanto a me.

Fata un giorno ha detto che io con lui ho un rapporto *intimo*. E prima o poi dovrò tornare su questa definizione, perché mi viene in mente spesso. Ogni volta che guardo fuori dal finestrino del tram e lo immagino camminare sotto i portici. Ogni volta che mi viene l'ansia e chiudo gli occhi, e immagino le sue mani e la sua voce. E quel che mi dice - paradossalmente - mi calma.

Forse, è nato proprio per questo.

Per insegnarmi la strada.

(E in realtà avrei ancora un miliardo di cose da dire, ma mi sento la mente un po’ più sgombra, adesso, e ho passato abbastanza tempo a blaterare inutilmente. Meglio che chiudo, e vedo di impegnarmi in qualcosa di un po’ più urgente.

Tipo, CD.

O spagnolo.

O anche inglese, direi.

*rolling-eyes*)

raven, ispanoamerica, writer | alejandra pizarnik, indians

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