Titolo: He has a keen eye for what you used to be
Fandom: DC Comics
Beta:
namidayumePrompt: 04. Fotografia @
Criticombola + sentiero @
OTWMPersonaggi: Selina Kyle, Tim Drake, Helena kyle; nominati Slam Bradley, Bruce Wayne e Holly Robinson
Pairing: Tim/Selina, con accenni Bruce/Selina
Rating: Pg13
Conteggio Parole: 3.034 (W)
Avvertimenti: What if, Angst
Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note:
• Per
el_defe che l’ha richiesta al Meme. \o/
• Ambientata dopo l’adozione di Helena e, teoricamente, in contemporanea con gli eventi di Batman: RIP, ma i riferimenti al canon sono davvero minimi - lo si vede solo da lontano, il canon, a dirla tutta. XD
• Titolo da A time to be small degli Interpol.
• Amo il piccolo stalker che è in Timmy, sappiatelo.
• Ho scritto tremila parole di Tim/Selina. Io. E mi è anche piaciuto. Uh.
He has a keen eye for what you used to be
La prima fotografia arriva esattamente un mese dopo che lei l’ha lasciata andare. È chiusa dentro una busta di carta completamente bianca, priva di qualsiasi indicazione di mittente; Selina la trova infilata sotto la porta del proprio appartamento al mattino e, quando la stringe tra le mani, pensa immediatamente al peggio.
Dentro, invece, c’è solo quella fotografia. Ritrae una bambina di poco più di un anno - sua figlia -, le mani stese in avanti ad afferrare qualcosa oltre il carrozzino dov’è seduta, il sorriso sul volto e gli occhi grandi, divertiti.
Il cuore di Selina salta un battito e per un attimo le manca il fiato. Chiude gli occhi nella speranza che si tratti solo di un incubo, uno dei tanti; quando li riapre la fotografia è ancora tra le sue dita e il senso di mancanza è ancora in fondo al suo stomaco.
La infila in un cassetto con un gesto brusco, quasi rabbioso, e riprende la propria giornata da dove l’aveva interrotta, fingendo che nulla sia accaduto.
*
Una settimana dopo succede di nuovo. Stessa identica busta sotto la porta, nessuna indicazione su di essa e dentro un’altra foto. In questa, Helena è imbacuccata in un giubbottino rosso, un cappello di lana calato sui capelli castani e sul viso lo stesso sorriso divertito della volta precedente - sembra felice, pensa Selina. La mano di una donna è posata sulla sua spalla in un gesto protettivo e il suo sguardo si incaglia su quel particolare quasi con rabbia - con invidia.
Continua a fissarla per quelli che sembrano secoli, poi la ripone nello stesso cassetto e va nell’altra stanza.
Compone il numero di Slam quasi tremando e lo investe appena lo sente rispondere. «Dimmi che ci sei tu dietro questa storia, così posso venire lì a prenderti a schiaffi subito.»
È sempre in grado di dire quando l’uomo sta mentendo e quando lui replica: «Non so di che parli, dolcezza,» è certa che non lo stia facendo.
*
Altre settimane, altre foto: Selina continua a non capire se si tratta di uno scherzo crudele o di qualcos’altro.
Cerca Holly, ma lei sembra troppo impegnata con le questioni delle Amazzoni per essere dietro a questa storia; cerca Bruce, ma fa troppa difficoltà a rintracciarlo - persino a rintracciare Batman - così lascia perdere, dicendosi che non può essere nemmeno lui.
Alla fine - quando l’appuntamento settimanale arriva - si apposta nel buio della strada di fronte, decisa a sorprendere sul fatto chiunque sia. Non aspetta nemmeno tanto, prima di vedere lo sbuffo di un mantello nero infilarsi da una finestra delle scale nel suo palazzo.
Gli è addosso in un istante, riuscendo senza troppa fatica a coglierlo alla sprovvista e ad immobilizzarlo sul pavimento. Ma è lei quella più stupita nel trovarsi davanti Robin, la fronte solcata da una linea di preoccupazione e delle scuse sulle labbra.
«Tu,» soffia fuori, lasciandolo andare e fissandolo sconcertata mentre si rimette in piedi. Sul momento pensa ad un errore, ad una stupida coincidenza che ha portato il ragazzo laggiù nell’East End; poi lo sguardo le si ferma sulla busta - di carta bianca, anonima, senza nessuna scritta sul retro - che stringe in una mano ed esplode.
«Che diavolo significa?!» sbotta, senza lasciare il tempo all’altro di proferire parola. «Dove hai preso quelle foto? Perché me le stai portando? Se c’è Bruce dietro questa storia ti giuro che…»
La voce le si spezza e non riesce a continuare. Da un lato, il sollievo le toglie il fiato - adesso, può finalmente essere certa che quelle foto non siano un indizio dell’ennesimo pericolo in cui ha gettato sua figlia -, dall’altro ancora non capisce, ancora si sente tradita.
Tim si passa la mano libera tra i capelli e avanza lentamente. È visibilmente imbarazzato quando comincia: «Bruce non ne sa nulla, è troppo preso da altro, ultimamente.» Solleva piano lo sguardo su di lei, in un atteggiamento colpevole, «Le foto le ho scattate io, è partito tutto da me.»
Il sollievo, dentro di lei, evapora senza lasciare traccia e al suo posto compare distintamente della collera. «Chi te l’ha chiesto?» lo aggredisce. «Quale parte del “non-voglio-sapere-nulla-di-lei” non ti è stata chiara?! Dio santo, voi Bat-boys dovete essere sempre così egoisti, dovete sempre fare di testa vostra, fregandovene degli altri,» dice tutto d’un fiato, tentando di nascondere il tremore della voce e di non mostrare quanto sia realmente scossa.
Tim cerca di interromperla, ma lei non glielo permette. «Se stai facendo tutto questo perché pensi che possa tornare nella sua vita, ti sbagli di grosso. Non posso. Ha una famiglia, adesso, e io non posso arrivare lì e distruggergliela. L’ho data via, capisci? Non sono più sua madre, Helena non ha bisogno di me.»
Le lacrime le pungono gli occhi e appannano la vista, ma lei non le lascia cadere. Allunga un braccio verso la finestra da cui sono entrati e conclude, «Vattene e vedi di finirla qui.»
Cala il silenzio; si fissano per un lungo momento e poi Tim muove alcuni passi in avanti, incerto, fino a fermarsi davanti a lei. «Io…» inizia, per poi mormorare un unico: «Mi dispiace.»
Le porge la busta bianca e aggiunge, «Sarà l’ultima.» Le mani della donna tremano quando la prende, ed è solo allora che Robin si muove e raggiunge la finestra.
Appollaiato sul davanzale, la fune già pronta per essere lanciata, precisa: «Non l’ho fatto perché penso che Helena ne abbia bisogno. L’ho fatto perché tu ne hai bisogno,» e poi scompare.
*
Prende le fotografie dal cassetto e si siede a gambe incrociate sul pavimento, disponendole davanti a sé nell’ordine in cui le ha ricevute. Le osserva bene per la prima volta e nota la progressiva differenza che portano l’una dall’altra; nota come, man mano che il tempo passa, le immagini si arricchiscano di particolari, come smettano di ritrarre solo Helena cogliendo anche frammenti del mondo circostante: i visi dei suoi genitori adottivi - visi buoni, visi sereni, visi che non temono nulla -, il parco centrale di Gotham alle sue spalle, una delle zone residenziali più rinomate della città, il cartello con il nome di una via perfettamente leggibile.
Selina apre l’ultima busta con un gesto secco, prendendo la fotografia che contiene e sistemandola accanto alle altre, per ultima. Questa volta sullo sfondo dietro la bambina compare una cassetta della posta e, su di essa, sono chiaramente visibili il cognome della famiglia e il numero civico.
Finalmente le ragioni che hanno mosso il ragazzo le diventano chiare. Sfiora le immagini con le dita una dopo l’altra, lentamente, imprimendosi nella mente il sentiero che Tim ha tracciato per lei: quello che, se vorrà, potrà riportarla da sua figlia.
*
Robin è facile da trovare; ha preso il posto del suo mentore nell’essere dovunque, dove c’è più bisogno di lui e dove ce n’è di meno. Selina gli atterra accanto mentre sta ammanettando due rapinatori privi di conoscenza e domanda, «Perché?»
Tim non fa una piega, non solleva nemmeno lo sguardo su di lei - e le sembra così simile a Bruce, in quel momento, da farle rabbia. «Te l’ho già detto perché,» si limita a replicare.
«E, sentiamo,» riprende lei, in un tono che assomiglia ad una sfida, «come faresti a sapere che ne ho bisogno?»
Trascorre qualche attimo di silenzio; Robin termina di impacchettare i due per la polizia, pare quasi temporeggiare, come se non volesse rispondere. Poi si volta finalmente verso di lei e dice, «Ti conosco, ti ho osservata molto.» Sfugge ai suoi occhi subito dopo, tornando a voltarle le spalle. «Tu non lasci mai perdere, non ti arrendi, costi quel che costi, altrimenti avresti già abbandonato Gotham da un pezzo. Per non parlare di Bruce,» spiega.
Selina continua a fissarlo per una manciata di istanti in silenzio, come un gatto che cerca di decidere se l’oggetto che ha davanti è pericoloso o meno. Le parole del ragazzo le lasciano addosso ancora più irritazione di prima, perché in questo momento non assomiglia a Bruce, no, è addirittura peggio.
È a un passo dal cedere alla voglia di urlargli contro, di schiaffeggiarlo, persino. Invece dice, in un tono che non ammette repliche, «A che ora passi a prendermi, domani mattina?»
Tim le lancia un’occhiata interrogativa e lei sospira teatralmente. «Dopo tutto il casino che hai messo in piedi, accompagnarmi a trovarla è il minimo che puoi fare.»
Robin annuisce, «Alle dieci. È quando la portano al parco, di solito,» e sul suo viso compare un largo sorriso.
«Non considerarla una vittoria, sarà solo per una volta,» lo ammonisce Selina, prima di saltare sul tetto del palazzo di fronte e correre via.
Sente lo sguardo di Tim seguirla e ricorda: Ti ho osservata molto. Sorride anche lei, sparendo alla sua vista.
*
Il ragazzo è puntuale. Si presenta al suo citofono alle dieci esatte e Selina si rende conto di avere le mani che tremano, mentre si chiude la porta dell’appartamento alle spalle. Indossa un paio di occhiali da sole e un cappello a tesa larga, ma è certa che l’altro comprenda benissimo il suo stato d’animo appena la vede.
Tim sorride incerto, levando una mano in segno di saluto. Poi, per tutto il tragitto fino alla quattordicesima strada, nessuno dei due dice una parola.
*
La riconosce subito, anche a distanza di metri. Helena indossa lo stesso giubbottino rosso che aveva in una delle foto; i capelli sono più lunghi, ma la risata che la raggiunge, mentre calcia un pallone, è la stessa che Selina ricorda. È costretta a fermarsi per respirare a fondo e calmare il batticuore, prima di coprire quell’ultima manciata di metri che le separano.
La donna che è con lei - la madre adottiva, le viene da precisare - sorride a Tim appena si accorge di loro. «Alvin1, ciao!» lo saluta. «Niente macchina fotografica oggi?»
Selina riesce appena a stranirsi, appena a sorridere a sua volta quando viene presentata come “un’amica di Alvin”, prima che il suo sguardo venga rapito di nuovo da Helena e resti concentrato su di lei, curandosi poco o nulla delle battute scambiate dagli altri due.
La vede calciare ancora il pallone e ridere, ridere tantissimo; poi, richiamata dalla madre, voltarsi verso di loro. Ci mette un attimo a correre incontro a Tim per farsi abbracciare - e Selina osserva la scena con un misto di tenerezza e irritazione, pensando che lui ha fatto meglio di lei e, contemporaneamente, che è felice che almeno un legame stabilito da Helena non si sia rotto -, ma, quando poi la bambina si gira per guardarla, il tempo pare bloccarsi.
Helena la osserva a lungo, il capo piegato di lato, le dita che ancora stringono la mano del ragazzo e Selina ricambia lo sguardo, incapace di fare altro, senza sapere che pensare - o che sperare -, certa che il cuore stia per esploderle nel petto.
È così, il cuore le esplode nello stesso istante in cui Helena, pochi secondi di assoluto silenzio dopo, pronuncia una sola sillaba - una domanda: «Ma’?»
Sì, sta per rispondere lei, sì, sono io, ma non fa in tempo. La donna interviene per prima, raggiungendola e mormorando, «Dimmi, Helena,» dolcemente, come una madre sa fare.
La prende in braccio e il tempo ricomincia a scorrere come se non fosse successo niente; Helena si copre gli occhi e nasconde il volto nel maglione della donna, mentre Tim compie un passo indietro, verso Selina, quasi in un gesto protettivo.
Lei respira di nuovo; scuote la testa, per scrollarsi di dosso i pensieri, le speranze, le paure, poi appoggia una mano sul polso del ragazzo e quasi ordina, «Andiamo.»
Lui annuisce, saluta la donna e la bambina, sorride con gentilezza, cerca di mantenere un velo di normalità a tutti i costi, determinato a non destare sospetti. Si avviano fuori dal parco poco dopo e, di nuovo, mentre camminano c’è completo silenzio tra loro.
*
Tornano nell’East End che è quasi mezzogiorno. Tim si ferma una volta raggiunto il suo palazzo; sembra indeciso quando parla e la frase gli viene fuori più simile ad una domanda che ad un’affermazione: «Allora… io vado?»
Selina la prende come tale e risponde: «No.» Infila le chiavi nella serratura del portone, spalancandolo davanti a sé e indicandogli di entrare. Lui lo fa.
Una volta nell’appartamento, si rende conto di non essere ancora stata capace di disincagliare i pensieri: le immagini di Helena sono vivide nella sua mente, quasi l’avesse di nuovo di fronte. Pensa di chiedere a Tim se ha fame o sete, ma alla fine riesce solo a dirigersi verso il frigorifero e tirare fuori il cartone del latte.
Gli riempie un bicchiere con un gesto meccanico, mettendoglielo davanti senza incrociare i suoi occhi. Lui la osserva stranito, tenta anche di sdrammatizzare con un divertito, «Guarda che non ho dieci anni», ma lei lo ascolta solo distrattamente, come un sottofondo lontano, e non sorride.
È in quel momento, mentre fissa il cartone del latte cercando di muoversi per riporlo al proprio posto, che il nodo che le stringe la gola da quando hanno lasciato il parco si scioglie in una serie di singhiozzi. Selina cerca di fermarsi, cerca di impedirsi di piangere, ma non ha successo, così alla fine si arrende alle lacrime che iniziano a rigarle il volto.
È solo la seconda volta che si permette qualcosa del genere da quando Helena è andata via, e forse è per questo che fa tanto male, che sembra che un pugnale le stia squarciando il petto. Poi, improvvisamente, il dolore si affievolisce, perché si ritrova circondata dalle braccia di Tim, stretta forte quasi lui stesse tentando di impedirle di cadere.
Non ha idea di quanto tempo sia passato, quando rialza la testa - il pianto che, finalmente, si attenua e si calma. Lui è ancora lì, a tenerla con la medesima forza, e Selina gli accarezza piano i capelli, senza pensarci.
«Non volevo che andasse così,» dice Tim in un sussurro pieno di colpa, guardando altrove, e il suo cuore si incrina un altro po’, perché l’ultima cosa che desidera è proprio che lui si senta colpevole.
Si passa il dorso della mano sul viso ad asciugarsi le lacrime e poi gli appoggia le dita sul mento, per obbligarlo ad incrociare il suo sguardo. «Vederla è stato bellissimo, invece,» replica, le labbra piegate in un sorriso malinconico, «fin troppo. Non mi pento di aver seguito il tuo consiglio.»
Lui tentenna. «Sicura?» domanda e il sorriso di lei si addolcisce. Gli prende il volto tra le mani e gli sfiora la fronte con le labbra, mormorando, «Sicura.»
Tim rimane un momento immobile, poi le sue braccia pian piano la lasciano andare, finché le mani non si arrestano sui fianchi di lei. La fissa, a lungo e in silenzio, indeciso su cosa fare, su cosa dire, con quegli occhi azzurri che sembrano scrutarla sempre più in profondità di quanto vorrebbe.
Selina si sente quello sguardo affondare nel cuore, in un misto di dolore e sollievo, e avverte pressante la necessità di fare qualcosa; per questo si china in avanti e copre la bocca del ragazzo con la propria, in un tocco leggero, delicato come il modo in cui Tim le si è insinuato nella vita.
Lo bacia per placare il desiderio di contatto che le pulsa dentro, per trovare la rassicurazione di un altro corpo concreto premuto contro il proprio; lo bacia perché lui è lì e lei ne ha disperatamente bisogno, per quel sentiero che le ha costruito e che ha poi percorso al suo fianco, perché lui l’ha osservata molto.
Tim esita per un breve istante e poi risponde, con calma, quasi avesse tutto il tempo del mondo e quello fosse solo l’ennesimo modo per tranquillizzarla, per farla stare bene. Ed è così, Selina sta bene. Il tempo scivola via senza che se ne rendano conto, secondo per secondo, ed è lui, alla fine, a staccarsi lentamente.
«Selina,» dice in un sussurro, «è meglio di no.»
Il suo sguardo si sposta istintivamente sulla finestra, come se si aspettasse di scoprirvi da un momento all’altro un volto scuro ad osservarlo severo. Il gesto la fa ridere - una risata leggera, appena soffiata sulla sua pelle - e desiderare di prenderlo in giro, di dire che non arriverà il capo a sgridarlo - che il capo non c'è, che ha altre cose a cui pensare.
Sta zitta, invece, e appoggia la fronte sulla sua testa. Sorride e mormora: «Di tutti voi, sei sempre quello che ho capito meno», che è un po' la prima cosa che le passa per la testa, pronunciata per riempire il silenzio, e un po' ciò che voleva dirgli dall'inizio, dalla notte in cui se l'è ritrovato fuori dalla porta di casa.
Tim ricambia il sorriso - le guance arrossate lo fanno sembrare anche adesso un po’ colpevole - e poi, le mani ancora strette attorno ai suoi fianchi, la allontana piano. Rimette dello spazio tra loro e, con un altro sguardo lanciato fuori dalla finestra, annuncia, «E' ora che vada.»
Lei allunga una mano, perché l'improvvisa distanza da lui le provoca un brivido di freddo, perché vorrebbe fermarlo e dirgli di rimanere, vorrebbe stringerlo e tenerlo con sé per il resto della giornata - e forse anche della notte -, ma infine ci ripensa e il braccio le ricade lungo il corpo, il pugno che stringe solamente aria.
«Come vuoi,» replica, il tono tranquillo almeno in apparenza.
In quel momento, in quell’esatto momento in cui lui annuisce e le dà le spalle per avviarsi verso la porta, pensa a Helena e a quanto le sia sembrata più grande e più bella durante la passeggiata al parco, al coraggio che, probabilmente, non avrebbe mai trovato senza aiuti, alla voglia di rifare quella strada, prima o poi, abbandonando le paure in un angolo. Non da sola, però, da sola non è ancora pronta; e il desiderio di non vedere il ragazzo andarsene si acuisce, unito a quello di chiedergli di accompagnarla di nuovo - di starle accanto.
Inaspettatamente, Tim sembra leggerglielo nel pensiero e, giunto alla porta di ingresso, volta appena il viso e propone, «Possiamo tornarci. Se ti va, intendo.»
Lei si ritrova a sorridere e ad annuire prima ancora di aver pronta la risposta: «Mi va.»
Dopo, c’è solo un altro sorriso lieve e il rumore della porta che si apre e si chiude, prima che l’appartamento ricada nuovamente nel più completo silenzio.
Note due:
1 - Alvin Draper, il nome falso che Tim usa di solito.