[Sherlock] Sogno i miei ricordi

Nov 30, 2012 20:28



Prompt: Orfano, "I only wish you weren't my friend/then i could hurt you in the end" (Snuff - Slipknot)
Titolo: Sogno i miei ricordi
Autore: soflylikea36
Wordcount: 3480
Rating: Giallo
Avvertimenti: One-Shot, Angst, davvero tanto angst. Introspettivo. Qualche parolaccia qua e là.
Note dell'autore: LOL è il mio unico commento su questa fiction. Perchè A l'ho scritta e finita in meno di 24 ore, tra il dormire, il mangiare e il relazionarsi col mondo esterno, il che ha dell'incredibile visto che razza di perfezionista ossessivo-compulsiva è la sottoscritta. B, perchè è fino ad ora il mio lavoro più lungo, e ho sfondato il mio record personale con successo *stappa champagne*. C perchè andiamo, io la trovo troppo angst anche per i miei gusti, il che è davvero davvero tutto dire. D perchè non lo so più, il mio cervello mi sta colando dalle orecchie e non capisco se è colpa dello sforzo o del mio sadismo o della felicità immensa che questo lavoro mi da. Dai, diciamo che è la felicità. Mi è sfuggita la situazione di mano, sia nel senso della lunghezza che dell'angst, ma piango calde proud mama tears. *Asciuga*  E poi riguardarsi A Study In Pink e The Great Game per essere sicuri di non scrivere cavolate è sempre un piacere Watson. ♥
Piccole notine riguardanti la faction: I dialoghi tratti dalle puntate sono mie traduzioni dall'originale inglese. Gli episodi citati sono rispettivamente Il Grande Gioco e Uno Studio In Rosa. Ovviamente non appartengono a me ma a mamma BBC.
Scritta per l' Horror Fest del sherlockfest_it! con il promt Non esiste la morte, è soltanto una transazione verso una sfera diversa della coscienza. (Poltergeist) e per la quinta sfida della Staffetta in Piscina @ piscinadiprompt, Team Calzelunghe! ♥



Sogno i miei ricordi
E tu ne fai parte, sei sempre presente, la tua ombra non mi abbandona mai.

Da quanto tempo era cominciata tutta quella faccenda? Su due piedi avrebbe detto tre settimane, ma aveva la netta impressione che fosse passato più tempo dall’ultima volta che aveva riposato senza che quella cosa accadesse. E nonostante lui avesse cercato di distrarsi andando una settimana a trovare Harry, avesse dormito sul divano di Sarah per un’intera settimana, e assunto quattro tipi di sonniferi diversi (e quanto andare a chiederli a distanza così ravvicinata l’uno dall’altro allo stesso farmacista lo avesse fatto sentire un po’ un drogato), niente sembrava poter mettere un freno a quel telefilm che riprendeva appena si addormentava.
Era un fenomeno strano, bisognava ammetterlo, e forse era per questo che non ne aveva parlato con nessuno, neanche con la propria analista. “Dovresti parlargliene John, lo sai che potrebbe aiutarti.” gli faceva presente la parte più responsabile di sè. Ma anche quella aveva chiuso il becco quando aveva realizzato che non era una questione psicologica -non poteva esserlo-, che doveva esserci qualcos’altro sotto.
L’aveva soprannominato “Il film della mia vita”, per poi aggiungerci “con Sherlock” alla fine, quando si era accorto che i ricordi che sognava erano tutti eventi successi esclusivamente negli ultimi 18 mesi. Che poi, ad essere sinceri, la questione non influiva sulla qualità del suo sonno. La mattina non si sentiva stanco, e le occhiaie che avevano piantato le tende sotto i suoi occhi le prime settimane dopo la morte del Consulente Investigativo erano sparite da quando quella storia era cominciata.
Però questo rewind gli faceva male dentro, nell’animo, e si svegliava sì riposato, ma con un peso sul cuore ogni volta un po’ più pesante, come se un’incrostrazione sempre più spessa gli si formasse attorno all’organo vitale e gli rendesse più difficile battere regolarmente.
Ma se i primi giorni -o meglio le prime notti- erano state davvero un duro colpo, ora ci si era, per così dire, abituato.
O meglio adattato.

Ma alla fine i ricordi finiranno, e non ricomincerà certo tutto da capo.

Perchè non riesco a convincermene?

Perchè non vuoi convincertene.
Perchè hai paura che tutto questo sbiadisca e diventi parte dell’ordinario.

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Com’è vivere con lui? Un inferno, immagino.
Non ci si annoia mai.
Bene, è un bene, non è così?

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Erano passati tre mesi e una settimana dalla morte di Sherlock.
John era a casa senza programmi per la serata (Lestrade e lui erano usciti per una birra appena tre giorni prima, Sarah era andata da sua madre per il week end). Quindi decise di cucinare qualcosa di veloce e piazzarsi davanti alla televisione per vedersi un bel film. "Questi dovrebbero andare bene…” disse pensieroso al freezer aperto, una confezione di linguine allo scoglio surgelate tra le mani. Dopo averle fatte cuocere in padella, giusto quattro salti, accese la tv e trovò un film in prima visione, che non era riuscito ad andare a vedere al cinema perchè in quel periodo, se lo ricordava distintamente, lui e Sherlock cercavano di risolvere il caso della bionda maculata. Cercò di non pensarci, di limitarsi a sfiorare quell’associazione e non lasciarsi sopraffare dai ricordi ad essa legati. Tirò un bel respiro e cominciò a mangiare, concentrandosi sulla trama del film.

Si addormentò all’inizio del secondo tempo.

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Si trovava in un ristorante, era sera e c’era un certo via vai per le strade. Dopo che si fu guardato meglio intorno, capì che era il ristorante di Angelo, quello in cui Sherlock lo aveva portato mentre seguivano il loro primo caso. Era seduto ad un tavolo diverso però, più appartato, dalla quale godeva comunque un’ottima visuale del resto del locale. Aspettò, sbocconcellando del pane e sorseggiando vino rosso che era appoggiato sul tavolo. “Bisogna ammetterlo, nei miei sogni mi tratto piuttosto bene.” Ed eccoli, lui e Sherlock che entravano e si sedevano al tavolo vicino alla vetrina per poter tenere d’occhio il 22 di Northumberland Street. Angelo che veniva a salutare Sherlock e gli accendeva una candela, “perchè così è più romantico!”. Non potè fare a meno di ridere della sua faccia contrariata, e ricordò chiaramente che la questione della candela l’aveva messo un poco a disagio. Probabilmente era per quello che aveva cominciato a fare quelle domande ambigue sulla vita privata di Sherlock. “Pessima mossa, vecchio mio…” disse sorridendo tra sè e sè, prendendo un sorso di vino mentre guardava un impacciato se stesso che diniegava vigorosamente il capo imbarazzato.
Continuò a guardarli parlare finchè non uscirono di corsa dalla porta, e potè ancora vedere Sherlock che quasi si faceva investire da una macchina e, come se niente fosse, immaginare il tragitto che avrebbe percorso il taxi e cominciare l’inseguimento rocambolesco, con John che gli correva dietro, dimentico della stampella abbandonata nel ristorante. Quanta fiducia aveva dato a Sherlock, che aveva conosciuto solo un giorno prima, per lanciarsi con lui in quell’avventura -e nelle altre a seguire- senza fermarsi un attimo e chiedersi “Ma cosa stai facendo, ora potresti essere a casa a bere un tè caldo con biscotti invece di inseguire un taxi su e giù per i tetti di Londra!” Sorrise a se stesso, ammettendo che Mycroft aveva proprio ragione.

“Quando cammina con Sherlock Holmes, lei vede il campo di battaglia.”
“Lei non è tormentato dalla guerra, dottor Watson… Le manca.”

Uscì dal ristorante -Senza pagare, ovvio, sennò che sogno sarebbe stato?-, e si diresse verso il 221 di Baker Street. Casa.
Vi arrivò molto prima che gli altri due tornassero con il fiatone da qulla corsetta serale, e si concesse il lusso di salire a dare un’occhiata all’appartamento al piano di sopra. Casa. La trovò leggermente più in disordine di come se la ricordava, ma in fondo si erano appena trasferiti, anzi no, Sherlock e il suo disordine cosmico si erano appena trasferiti, quindi l’espressione trasloco + (Sherlock + suo disordine cosmico) dava come risultato un disordine cosmico alla quarta. Anche alla quinta. Dio quanto gli mancava quel disordine, così caratteristico, l’unico particolare confuso in una persona che di confuso non aveva proprio niente. Si aggirò indisturbato per le altre stanze, e dopo poco sentì dei passi frettolosi, -tanti passi frettolosi-, salire le scale, e una voce familiare, Lestrade, che spiegava alla signora Hudson che quella era una retataantidroga. Ahahah, droga! Sherlock ne aveva già abbastanza di suo, senza l’aiuto di stupefacenti. Lasciò che tutta l’allegra combriccola si spandesse a macchia d’olio per il suo appartamento, e sorridendo tra sè e sè, scese al pian terreno e aspettò nell’atrio semibuio il ritorno dei due maratoneti.
Il portone si aprì, ed entrarono due persone, tutte affannate ma soddisfatte.
Così sereni.
Si appoggiarono al muro e “Questa è stata la cosa più ridicola… Che abbia mai fatto!” “E dire che lei ha invaso l’Afghanistan!”. Risero.
Una bellissima risata, a dirla tutta, così complice che se John non fosse stato perfettamente al corrente che uno dei due era lui, -era stato lui-, si sarebbe sentito tremendamente geloso.
E si ritrovò a chiedersi quanto stavano bene insieme.

Davvero tanto.

Sherlock chiamò ad alta voce la padrona di casa, e annunciò che il dottore avrebbe preso la
camera al piano di sopra.
“E chi lo dice?” “Lo dice l’uomo alla porta.” Il tempismo col quale Angelo aveva bussato lo stupì esattamente come allora. Seguì con lo sguardo l’altro sè andare ad aprire, ma dato che quella parte già la conosceva, si concentrò su Sherlock, che era rimasto appoggiato al muro. Lo vide riprendere fiato, e sbuffare fuori l’aria inspirata. E poi lo vide girarsiverso la porta a guardarlo, con un sorriso soddisfatto, felice, ma non perchè “hai visto, ovviamente avevo ragione". Era felicità tutta indirizzata a lui, al fatto che gli aveva tolto con successo una zavorra fastidiosa, insopportabile.
Tutto come previsto, liscio come l’olio.

Ti devo così tanto.

Poi arrivò la signora Hudson, e li indirizzò tutta preoccupata al piano di sopra. E mentre loro si scambiavano uno sguardo preoccupato, lui si accorse che da qualche parte, nel mondo tangibile, la sua sveglia stava suonando.

La scena perse consistenza, e le loro figure sfumarono via.

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Realizzò che la cosa era degenerata il venerdì mattina di due settimane più tardi.
Aveva pranzato con Mike e poi, visto che non aveva altro da fare, lo aveva accompagnato al St. Barts. E lì, in uno dei corridoi del secondo piano, vi aveva incontrato Molly e Lestrade, mentre discutevano con diversi fogli in mano. Quando lui li salutò, alzarono la testa e sui loro visi si dipinse un timido sorriso.
John aveva chiesto come stavano. Molly rispose che era molto impegnata col lavoro ultimamente. I suoi occhi aggiungevano anche che lavorare lì dove Sherlock stava l’altra metà del tempo in cui non era a casa era difficile, e faceva davvero male. Lestrade disse che era lì per i risultati dell’autopsia della vittima di un caso che stava seguendo.“E tu come stai John?” aveva chiesto titubante Molly, guardandolo in faccia con l’aria da cane bastonato. “Bene, bene grazie. Magari una di queste sere organiziamo una cena tutti insieme, che ne dite?” disse in un tono molto più allegro e spensierato di quanto non avesse voluto, e del quale si stupì anche lui. Gli altri due lo guardarono con gli occhi spalancati, e si scambiarono uno sguardo tra il seriamente preoccupato e il sorpreso.“C-certo… Perchè no?” Aveva risposto incerta Molly, senza smettere di guardarlo dritto negli occhi, come a voler cogliere un segno di cedimento, una crepa in quella che però proprio non sembrava una facciata. Si salutarono, e John si voltò per percorrere il corridoio nel senso opposto a quello in cui era venuto.

Secondo te cos’ha?
Non so.
Non sembra stia fingendo di star bene.
Se lo sta facendo, dovrebbe pensare seriamente di fare l’attore.
Che possiamo fare?
Non saprei. Aspettare mi sembra l’unica soluzione.

Quella conversazione era stata il campanello di allarme che qualcosa non andava. E quella cosa erano quei sogni. Ammise a se stesso che da quando erano cominciati lui stava meglio, quasi non fosse cambiato niente. Assurdo. La sua vita era stata sconvolta dalla morte del suo miglliore amico, e a lui sembrava non fosse cambiato nente? "Non ci siamo proprio." E insieme a questa consapevolezza ne venne fuori anche un’altra, insabbiata perchè ritenuta scomoda dal suo cervello: quei falshback non potevano continuare per sempre, sarebbero finiti prima o poi.
Si ritrovò terrorizzato all’idea che ciò accadesse quella sera stessa. Non era pronto, gli serviva preavviso, lui… Oh.
Ecco.
Quindi ne era diventato dipendente, come un fan che aspetta con ansia il giorno seguente per vedere una nuova puntata della sua serie preferita.
Si rese improvvisamente conto di quanto quei sogni non sembrassero affatto sogni, non ne avessero l’aspetto e tantomeno la consistenza. No, realizzò, erano vividissimi, e rimanevano tali anche a distanza di giorni, come fossero essi stessi dei ricordi di vita vissuta.
Proprio come un telefilm.
Ecco perchè non lo disturbavano più come all’inizio, quando li aveva attribuiti alla sua mente masochista, e ne trovava anzi giovamento: erano un balsamo fatto apposta per alleviare le sofferenze del suo essere, per far smettere di sanguinare lì dove aveva perso una metà. La sua metà. Così tante volte si era chiesto come aveva fatto tutta la sua vita senza sentirsi così incompleto, e non lo sapeva. Era ovvio, cristallino, che era incompleto, eppure aveva vissuto tranquillamente ignaro di ciò. E perchè ora non poteva tornare a quello stato di beata, dolce ignoranza? A questa lagna che tante volte si ripeteva dentro, nonostante fosse palesemente retorica, non rispondeva mai.

Cosa avrebbe fatto quando quella successione di ricordi fosse giunta al termine?

Perchè lo farà John, lo hai sempre saputo e lo hai sempre negato.

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Le cose continuarono il loro corso. I sogni anche.
La fine non sembrava incombente.
Eppure era lì, onnipresente.

♦♦♦ - ♦♦♦ - ♦♦♦

Il posto in cui si ritrovò non gli era famigliare, per niente. Provò subito un forte senso di oppressione, e l’istinto di scappare fu veramente difficile da frenare. “Dove diavolo sono?” quasi urlò, sentendo l’adrenalina che gli correva frizzando nelle vene. “Calma John, calma. Perchè sei così agitato?” Si mosse sulla sedia a disagio -era seduto? Non se n’era accorto-, cercando di far rallentare i battiti impazziti del cuore, e osservò il tavolino che non aveva notato -o era comparso- davanti a sè. Sopra vi era adagiato un cellulare, il suo cellulare. Allungò cauto la mano per prenderlo e appena prima che le sue dita lo toccassero, quello vibrò. John ritrasse la mano spaventato, sobbalzando. Era colpa di tutta quella tensione che lo aveva riempito da quando era arrivato lì. “Ok, diamoci un calmata…” disse asciutto a sè stesso, facendo fare uno scatto dal taglio militare alla sua testa, e sistemandosi un po’ più dritto sulla sedia. Prese il cellulare con un gesto sicuro econstatò che gli era arrivato un messaggio.
Lo aprì.
Lesse il mittente.
E il suo cuore mancò di un battito.

Spostò gli occhi dal monitor, come per prendere aria, ma si accorse che non li aveva
davvero staccati dal nome che appariva in cima alla schermata. Era lì, insomma, era davvero lì. Nessuno sbaglio.
Ma poi perchè rimanere tanto stupiti? Stai sognando, e il tuo sogno consiste in te che ricevi messaggi dal tuo coinquilino morto cinque mesi fa.
Buttò fuori una breve risata, sconcertata, vagamente isterica, incapace di rassegnarsi a quella situazione anormale, -che lui sentiva come anormale, anche per un sogno.-
Solo dopo quelle che a lui sembrarono ore realizzò che non aveva ancora letto il contenuto del messaggio.

Ciao John. SH

Wow. Davvero? Davvero si presentava così, dopo quello che era successo? Wow. John resistette alla voglia di spaccare il telefono solo perchè senza di quello non avrebbe saputo come mandare a quel paese Sherlock.
Digitò furiosamente la risposta e schiacciò invio con talmente tanta forza che sullo schermo touch rimase per un po’ l’impronta del suo dito.

Cosa diavolo sta succedendo?? JW

Sei in un tuo sogno, e ci stiamo scambiando messaggi tramite due cellulari. SH

Dio, che rabbia.

Cristo Sherlock, come cazzo è possibile?? Tu sei - e qui esitò qualche secondo prima discriverlo, perchè era come mandare giù un tizzone ardente - morto!! Dannazione, morto! JW

Un singhiozzo muto gli uscì dalla bocca. Era tutto così reale da annichilirlo. Non era un incubo frutto della sua contorta fantasia, stava davvero comunicando via sms con Sherlock.
Però tutto sommato sì, sembrava proprio un brutto sogno.

Sono informato di questo particolare John. Sono felice che non ti sia sfuggito. SH

Come poteva essere così insensibile?
“Sfuggito? Sfug- Ok, ok, testa di cazzo eri e testa dicazzo resti, logico.” Alzò lo sguardo ed espirò l’aria che aveva nei polmoni, cercando leparole, le domande, e il suo cervello fece resistenza, come se si rifiutasse di accettare quella situazione e cercasse di allontanarsene il più possibile.

Diede la priorità all’unica domanda che avrebbe dato un senso a quella follia.

Questo è opera tua? JW

Sì. SH

Puoi spiegarmi che sta succedendo per favore? Dato che sei morto non dovresti essere in grado di fare cose simili! Comunicare via sms è ridicolo! Perchè non vieni a parlarmi di persona? JW

Non mi è possibile, purtroppo. Io non sono propriamente quello che definirei un fantasma, sono qualcosa di più ma anche qualcosa di meno. SH

Come è possibile che tu riesca a fare questo? Perchè lo avresti fatto? JW

Non saprei con esattezza, ma è molto più semplice a farsi che a dirsi.
Sentivo, sapevo che il modo più semplice che avevo per starti vicino era questo, e l’ho fatto. SH

Perciò tu hai fatto questo
si fermò per cercare le parole adatte a descrivere il caos che vorticava nella sua testa.
E nel suo animo.
perchè non volevi che io stessi da solo a compatirmi? Volevi aiutarmi a stare meglio? JW

Non c’era davvero bisogno di una risposta. Era chiaro. Così semplice.

Il telefono vibrò.

L’ho fatto anche per non farti dimenticare. SH

“Pensi davvero che potrei dimenticarmi di te??” sbottò incredulo John, cominciando a digitare le parole appena dette, le dita che fremevano di rabbia.

No, tuttavia è un’opzione che non mi sentivo di escludere. SH

John storse la bocca inclinando la testa di lato, e Non te la SENTIVI?, enfatizzò confuso.

Appena il messaggio fu inviato, John ne scrisse subito un altro.

Cioè, non te la sentivi di escludere l’eventualità che io mi scordassi di te dopo tutto quello che c’era stato? Davvero? JW

Sì. SH

Ne arrivò subito un altro.

Io ti chiedo scusa. Se ho dubitato di te. Tu sei sempre stato degno di fiducia, sempre. Ma
proprio non me la sentivo di correre il rischio. SH

John fece una smorfia sofferente. Singhiozzò di nuovo, rifiutandosi di far uscire le
lacrime che impertinenti si affollavano sui suoi occhi. Arrivò un nuovo messaggio.

E per un’altra cosa ti devo chiedere scusa. SH

Per cosa? Scrisse John, con gli occhi lucidi.
Attese timoroso la risposta.

Questa cosa, di farti rivivere tutti i nostri momenti insieme, è stata un azzardo, un mio capriccio. Avevo paura, John. E tu ben sai che quando ho paura perdo il controllo. Adesso che è arrivata la fine, ho capito che forse era meglio lasciarti stare, farti riabituare alla vita normale senza interferire. E’ stato contrproducente sotto ogni aspetto. Ma avrei dovuto saperlo, io non sono un medico, come avrei potuto curarti? SH

L’ironia amara dell’ultima frase fu come una pugnalata al cuore.

Quindi ora che succede? Tu che farai? JW

Chiuse gli occhi e pregò che non fosse una domanda retorica, perchè lui era lì da qualche parte e gli era stato accanto e non poteva andarsene via, no, no, non di nuovo. Sentì gli occhi fargli male da tanto li stava strizzando, ma non li riaprì fino a quando non sentì arrivare un messaggio.

Questo è un addio. Uno vero, definitivo. Non avrebbe dovuto avere luogo, ma sembra che questa storia delle emozioni mi faccia commettere diversi errori. E che questi errori ti facciano soffrire ancora di più. SH

Tu non puoi andartene così, non dopo tutto quello che hai fatto! Perchè non rimani, perchè non mi puoi incontrare qui tutte le notti? JW

Perchè quello di cui tu hai bisogno è andare avanti, e continuare a comunicare con te produrrebbe l’effetto opposto. John, io non potrei fare questo, dovrei essere da un’altra parte, e da lì purtroppo non posso più avere alcun contatto con te. Credo sia giunto il momento di andarmene davvero. Ti chiedo di perdonarmi un’ultima volta, per tutto quello che ho fatto e ti ha ferito, in qualunque modo. Sei stato importante per me, l’unico amico, e io non sono stato in grado di trattarti come meritavi. SH

John aveva paura di impazzire.
No, Sherlock, tu hai fatto tanto invece, tutto. Tu hai preso la mia inutile vita e l’hai trasformata in qualcosa di -non trovava la parola adatta- insomma, era perfetto.

Grazie, John, di tutto. SH

Sherlock, aspetta! Digitò il più in fretta possibile, quasi istericamente.

Tutto cominciò a confondersi, a sembrare davvero un sogno.
“No…” mormorò John, facendo per alzarsi dalla sedia, e accorgendosi di essere seduto per terra.
“Sherlock…”
Anche il tavolino di ferro battuto nero era sparito.
“No, ti prego, non di nuovo…” singhiozzò, gli occhi che si riempivano nuovamente di lacrime.
Il cellulare. Lo strinse automaticamente nella mano, illudendosi che se lo avesse tenuto forte non se ne sarebbe andato, aggrappandocisi come un punto fermo in mezzo a quel nulla crescente.
Andiamo, rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, “RISPONDI!” urlò anche se la sua bocca era rimasta chiusa.Sentì che si stava svegliando, e tra poco lui si sarebbe ritrovato nel suo letto, solo, nuovamente solo, e dannazione, lui non voleva rimanere solo di nuovo. Quante volte doveva ancora succedere prima che la sua mente cedesse e il suo cuore si sbriciolasse e non ci fosse più modo di rimetterlo insieme?
Ma non ti ricordi che questo è già successo, John? La colla che hai usato non avrebbe retto per molto in ogni caso. Dopo di questa parentesi onirica, sei al punto di partenza.
Si abbandonò definitivamente allo sconforto, cominciando a piangere, nascondendo il viso con la mano libera.

Il cellulare vibrò, segnalando che era arrivato un nuovo messaggio. L’ultima nota di Sherlock Holmes.

Addio John. SH

Sentì il peso dell’incrostrazione fermargli il cuore.

Si svegliò.

E la realtà non aveva mai fatto così male, non era mai sembrata più vuota e dolorosa.

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