Titolo: I'm just a prisoner of love {Utada Hikaru - Prisoner of Love}
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Yabu Kota x Inoo Kei
Rating: NC17
Avvertenze: Slash, Death!Fic
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Tornava nella sua casa, vuota ormai, e cercava qualche traccia di lui.
Note: Scritta per il COW-T2 di
maridichallenge con il prompt “pioggia” e per la tabella della
corte_miracolicon il prompt “Perché ti voglio da morire.” e per la
diecielode con il prompt “Volevo capirti ma quello che facevo era solo raschiare la superficie.”
WordCount: 3468 @
fiumidiparole *°*
Yabu era nervoso. Era sempre nervoso negli ultimi giorni. Tornava nella sua casa, vuota ormai, e cercava qualche traccia di lui.
Qualunque traccia. Il residuo di quel dopobarba, magari quel maglione che tanto odiava in fondo all'armadio o quella coperta ormai troppo consumata, ma, alla fin fine mai gettata via.
E quando trovava qualcosa, la fissava per dei minuti interi, senza nemmeno toccarli. Non si avvicinava, rimaneva semplicemente immobile o in bagno o in camera da letto o in qualche altra stanza dell'appartamento.
Fissava gli oggetti, immaginando Kei mentre li prendeva o li sistemava, mentre camminava svagato per casa, perso nei suoi pensieri. Li fissava e spezzoni di vita quotidiana gli ritornavano in mente, facendogli pesare ancora di più la sua assenza, rendendola ancora più insostenibile di quanto non lo fosse già normalmente.
Allora cercava di allontanarsi, si sforzava di pensare ad altro e, con fatica, si avviava verso il bagno. Si concedeva solo il tempo di una veloce doccia e poi s'infilava nel letto, sperando che quei pensieri non lo tormentassero anche nel sonno.
**
Quella notte, era l'ennesima notte senza Kei al suo fianco, Yabu fu svegliato dal temporale. Non erano passate molte ore da quando si era addormentato, ma non sentiva sonno.
Si alzò dal letto e si diresse in salotto, appoggiando la fronte alla vetrata del balcone, mentre il diluvio imperversava su Tokyo. Osservava la pioggia e il vento che si abbattevano sulla città. Aveva freddo nonostante fosse già giugno.
Oppure era la mancanza di Kei. Nelle notti fredde Kei si avvicinava inconsciamente a lui durante il sonno e la mattina dopo Yabu si svegliava al caldo, riscaldato dal corpo di Kei, sempre premuto contro il suo.
Spostò lo sguardo sull'orologio al muro. Erano ancora le tre del mattino.
Tornò nella stanza, prese il telefono dal comodino e lo fissò per qualche altro minuto, incerto sul da farsi.
Kei un giorno c'era e il giorno dopo non c'era più. Sapeva che era imprevedibile, ma mai aveva creduto fino a quel punto.
Yabu era tornato a casa. Kei aveva già tolto quasi tutte le sue cose dalla casa e stava portando via le ultime cose.
Piangeva così tanto che aveva faticato a farlo calmare. Gli aveva balbettato delle scuse. Gli aveva detto che doveva andarsene, per il bene di entrambi e non sapeva più che cosa fare.
Piangeva. Con una disperazione che non gli aveva mai visto, con una tale angoscia che Yabu si era spaventato dall'ombra di quello che un tempo era stato il suo sempre allegro fidanzato.
Gli era sfuggito dalle mani, come sabbia che gli era scivolata via dalle dita.
Inoo si era divincolato e lo aveva lasciato in una casa vuota, senza una vera motivazione e solo con i ricordi che gli vorticavano in testa.
Prima di andarsene Kei gli aveva chiesto di non chiamarlo, a meno che non fosse strettamente necessario, fino a che non avesse fatto chiarezza nei suoi pensieri, fino a che non avesse capito quale era la persona giusta che poteva farlo felice.
Quella, tecnicamente, non era una telefonata strettamente necessaria. Non lo era per niente, ma era anche preoccupato.
Kei aveva paura dei temporali. Li odiava. E il solo immaginarselo da solo, nel suo letto, mentre si copriva la testa con il cuscino, lo faceva stare male.
Digitò il numero di telefono e aspettò. Il telefono squillava a vuoto, ma sapeva che Kei era sveglio.
A breve avrebbe dovuto dare un esame all'università e a causa dei loro litigi aveva trascurato lo studio.
La chiamata s'interruppe. Kei gli aveva chiuso il telefono in faccia.
Sospirò. Poi provò ancora. E ancora, e ancora. Fino a che non riuscì a prenderlo per sfinimento, cosa che aveva sempre fatto.
« Pronto. »
La sua voce sembrava ferma, ma Yabu lo conosceva troppo bene. Tremava, anche se non sapeva a che cosa era dovuto, se al temporale o alla chiamata.
« Volevo sapere come stai. Sono preoccupato. » sussurrò piano.
« Bene. » udì l'altro battere i denti dal freddo « Sto tornando a casa adesso. »
Yabu alzò un sopracciglio, perplesso.
« Sei fuori casa? »
« Sì. Ho finito di studiare con un mio collega di università, ero a casa sua. Ora... sto tornando. » si limitò a dire l'altro.
Yabu sentì lo stomaco rigirarsi dalla gelosia. Erano le tre di notte. Kei era bello, troppo bello, perché si potesse semplicemente studiare insieme.
Odiava vedere altri uomini che lo guardavano. Non lo sopportava.
Stava per rispondere, quando un tuono, più potente degli altri, risuonò nelle loro orecchie. Da parte di Kei gli arrivò solo uno squittio terrorizzato.
« Dove sei? » chiese Yabu alzandosi di scatto in piedi.
« Yabucchi, non serve... » mormorò l'altro con voce spezzata.
« Dove sei? » ripeté a voce più alta.
« Akihabara. » rispose Kei quasi interrompendolo « Akihabara, solito bar, sotto la tenda. » ansimò poi, terrorizzato.
Yabu si alzò di scatto e afferrò le chiavi della mattina. Aveva la patente da poche settimane e non si fidava a guidare di notte, sotto la pioggia, considerando poi che non ci vedeva così tanto.
Ma i mugoli spaventati di Kei lo convinsero che era la cosa migliore da fare.
Doveva andare. E parlargli.
« Arrivo. » mormorò solo.
Udì un bisbiglio affermativo e chiuse il telefono.
**
Il solito bar dove si trovava Kei era distante meno di un chilometro da casa. Kei ci andava spesso per studiare quando Yabu non era a casa. Odiava la solitudine, lo aveva sempre saputo, ma non poteva ignorare il lavoro. D'altronde, Kei non glielo aveva mai chiesto.
Inchiodò davanti all'ingresso del bar, la via completamente vuota, il cemento battuto dalle gocce d'acqua e il quartiere illuminato dai lampi.
Aveva intravisto Kei da lontano, seduto su un gradino, con lo zaino spinto contro al petto e il giacchetto di jeans sulla sua testa, per coprirsi dalla pioggia battente.
Kei aveva alzato di scatto la testa e aveva sorriso. Yabu aveva provato una stretta al cuore.
Quanto gli era mancato quel sorriso negli ultimi tempi?
La portiera si aprì, facendo entrare nella macchina riscaldata una folata di vento e pioggia. Kei si chiuse la porta dietro di sé e rimase fermo sul sedile del passeggero, a tremare dal freddo.
« Andiamo a casa. Ti fai una doccia calda, ti cambi e dormi un po'. Sembri stravolto. »
« Non credo sia la cosa migliore data la nostra situazione. »
« Ti prenderai un raffreddore se rimani bagnato. Dai, casa è a cinque minuti da qua. »
Yabu cercò di guardarlo in faccia, ma l'altro sfuggiva al suo sguardo. Avrebbe voluto chiedergli perché lo facesse dato che nemmeno negli ultimi tempi, dopo che ormai si erano lasciati, aveva abbassato lo sguardo davanti a lui.
« Per favore. Non farmi stare in pensiero. » mormorò Yabu appoggiando la sua mano su quella gelida di Kei.
« Va bene. » sussurrò solo Kei, socchiudendo gli occhi.
Yabu li aveva visti pieni di lacrime. Si chiese da quand'è che la sua sola presenza lo facesse piangere. Si sentì male.
Non voleva la sofferenza di Inoo, non l'aveva mai voluta. Né prima di mettersi insieme, né dopo, quando ormai si erano lasciati.
Voleva Kei felice. Nulla di più.
**
Kei uscì dalla doccia dopo più di un ora. Era rimasto in silenzio per tutto il viaggio di ritorno, senza parlare e senza alzare lo sguardo dalle sue mani, appoggiate sulle gambe.
Tremava.
Tremava come mai lo aveva visto tremare in vita sua. Gli ricordava il momento in cui lo aveva lasciato, quei minuti in cui lui piangeva e se lo era lasciato sfuggire, troppo sconvolto dall'aver visto un Kei che in tanti anni non aveva mai visto.
Inoo non era una che si lasciava abbattere dalle difficoltà, semplicemente, le ignorava. Aveva i suoi standard da rispettare e della società intorno a lui si disinteressava. Aveva poche pretese e quindi era sempre felice.
A poco a poco aveva notato che era dimagrito, nervoso, arrabbiato e spaventato. Da che cosa Yabu non era mai riuscito a capirlo.
Quando era stato lasciato aveva attribuito a sé stesso la colpa di quel cambiamento, perché negli ultimi tempi non c'era più stato a causa del lavoro.
Magari Kei si era lasciato prendere da un po' di depressione e, non riuscendo più a reggere quelle emozioni, lo aveva lasciato.
Invece, tanto più in quel momento, gli sembrava che la situazione non fosse cambiata. Era la stessa.
Kei lo raggiunse in salotto, con i capelli ancora umidi. Tremava, ancora, nonostante si fosse riscaldato.
Indossava una maglietta a maniche lunghe e un pantalone che gli arrivava al ginocchio.
Notò dei graffi sul dorso delle mani e un paio di lividi sulle gambe. Si chiese come se li fosse procurati.
Kei si sedette al suo fianco, ma comunque abbastanza lontano da lui, portandosi le gambe al petto e rimanendo in silenzio.
« Ti senti meglio? » domando a voce bassa.
Non sapeva perché, ma Kei gli sembrava abbastanza teso e non voleva... spaventarlo ancora di più.
L'altro annuì, senza dire nulla. Strinse le lunghe dita contro le gambe nude, infilandosi le unghie nella pelle.
« Da quanto tempi eri fermo al bar? »
Kei gli lanciò un veloce sguardo, poi chinò di nuovo gli occhi sulle ginocchia.
« Un po'. » rispose piano « Avevo paura. Non riuscivo a camminare. »
Yabu ebbe voglia di abbracciarlo. Gli sembrava talmente piccolo e fragile che poteva quasi spezzarsi da un momento all'altro.
L'odore della sua pelle gli entrò nelle narici, inebriandolo e la sua sola presenza gli fece capire, ancora con più pesantezza, quando la sua assenza fosse dura da digerire.
Rimase comunque fermo.
Lo sguardo, che per tutto il tempo da quando era entrato in macchina non faceva altro che saettare su e giù, adesso sembrava lentamente calmarsi, fissandosi sul muro davanti a loro, dove c'era un dipinto.
Lo vide accennare un debole sorriso, quasi rassegnato e malinconico.
Sentì una fitta al cuore.
Perché, nonostante lo avesse lasciato, Kei sembrava ancora depresso? Non lo aveva cercato, non lo aveva chiamato perché pensava che la lontananza potesse renderlo più felice. Pensava che quella relazione fosse diventata stretta, opprimente e per questo, dato che sentiva di non renderlo più felice, lo aveva lasciato andare.
Invece gli parve di essere tornato al punto di partenza, anzi, forse la situazione era peggiorata ancora di più.
« La tua presenza mi tranquillizza. » mormorò piano piegando la testa da un lato, con il suo solito sguardo annebbiato da chissà quale pensiero.
Yabu annuì. Voleva sentirlo parlare, voleva capire. Sapeva che costringendolo non avrebbe ottenuto nulla.
Perciò, anche se le domande gli si affollavano sulla lingua, rimase zitto.
« Andarmene... è stato difficile. Se... fossi stato più forte... più attento... tu non avresti dovuto soffrire. »
Il più grande lo guardò e vide che piangeva. Ancora.
Piangeva mentre un sorriso triste gli piegava le labbra, un tempo così belle, mentre adesso erano rovinate dai morsi dei denti.
« Kei, vuoi dirmi perché te ne sei andato? » domandò piano prendendogli la mano e stringendogliela fra le sue.
Lo sentì irrigidirsi, ma non allontanarsi. La cosa un po' lo rincuorò, perciò rimase in attesa, senza spostarsi e senza lasciarlo.
Kei aveva spostato lo sguardo sulle loro mani, con gli occhi lucidi, le guance bagnate dalle lacrime e il labbro inferiore stretto fra i denti.
Scosse la testa.
« Te l'ho detto. Io non sono stato abbastanza forte. »
« Che cosa vuol dire questo Kei? Non ha senso. »
La mano affusolata del più piccolo scivolò via dalla sua.
« Posso dormire? Mi sento stanco. »
Yabu annuì, alzandosi in piedi.
« Vuoi venire in camera? » domandò piano.
Sapeva la risposta. Sapeva che non sarebbe venuto, ma vedere e sentire il suo rifiuto lo ferì ugualmente.
Aprirono il divano letto, sistemarono le coperte e, dopo meno di dieci minuti si separarono.
**
La mattina dopo Kei stava ancora dormendo. Lo zaino era stato buttato in ingresso e lo vide aperto. Vi gettò una rapida occhiata, più per abitudine, che per reale curiosità.
Al suo interno, malamente coperti da astucci, quaderni e blocchetti, c'erano una scatola di bende e cerotti.
Si diresse in bagno per lavarsi. Quel giorno non aveva niente da fare, perciò contava di chiedere a Kei di rimanere, magari per cercare di recuperare quel rapporto a cui entrambi tenevano, di capire perché, se ancora lo amava, Kei lo aveva lasciato.
Percepiva qualcosa che non tornava e per quanto si sforzasse di capire quale fosse stato il processo mentale per il quale Kei adesso non stava più con lui, non riusciva a trovarlo.
Quando uscì dal bagno, Kei ancora dormiva, anche se iniziava ad agitarsi nel sonno. In cucina iniziò a preparare del riso e la soba, fino a che non sentì de lamenti provenire dal soggiorno.
Lo raggiunse, ma Kei si era appena alzato dal letto, ansimante e madido di sudore, tremante, con le braccia strette intorno al proprio corpo, come a volersi proteggere.
« Kei, va tutto bene? » domandò sedendosi immediatamente al suo fianco.
L'altro annuì, tornando a guardarsi intorno, come se un ipotetico nemico potesse spuntare fuori da dietro qualche mobile.
Lo abbracciò, d'istinto. Kei cercò di sfuggirgli, mormorando parole che non comprendeva, tremando ancora di più, ma lui non lo lasciò andare.
Aveva già sbagliato una volta, non aveva intenzione di sbagliare ancora. Lo avrebbe protetto e aiutato in veste di amico se non lo voleva accanto come fidanzato.
Ma lo amava ancora troppo perché potesse guardarlo soffrire senza fare nulla.
« Kei - chan. » sussurrò al suo orecchio « Kei - chan, stai calmo. Sono solo io. Yabucchi. »
L'altro ansimò per qualche altro secondo, poi iniziò a calmarsi. Ricambiò l'abbraccio, artigliando le proprie unghie contro la schiena di Yabu, singhiozzando nella sua spalla.
Rimasero in silenzio, immobili, per minuti interi.
« Ko... » singhiozzava il più piccolo « Tu sei Ko, non Yabucchi. » mormorò fra i singhiozzi e per un attimo Yabu ringraziò quella situazione.
“Ko” era il nomignolo con cui solo lui lo chiamava. Lo usavano quando erano da soli, quando potevano essere loro stessi lontano dalle telecamera. “Ko” racchiudeva tutto.
Kei lo amava ancora, con la stessa intensità e la stessa passione di quando si erano messi insieme.
« Parlami Kei - chan. Parlami di quello che ti sta succedendo. »
Yabu sentì Kei irrigidirsi fra le sue braccia e spegnersi di nuovo. Capì di aver sbagliato e, per quanto cercasse di rimediare, Kei rimase in silenzio.
**
Arrivata l'ora di cena, Kei si guardò intorno. Era fermo, in piedi davanti alla finestra del balcone da svariati minuti. Yabu non era riuscito a scucirgli nemmeno una parola. Si era messo al tavolo e aveva studiato e l'altro non lo aveva disturbato.
« Posso restare? » domandò a mezza voce.
Yabu lo fissò, senza comprendere.
« Puoi rimanere tutto il tempo che vuoi. Questa è ancora casa tua. E'... casa nostra, anche se tu non ci abiti più. »
Kei tornò a fissare fuori, di nuovo gli occhi umidi dal pianto e un braccio stretto al fianco dalla mano, il labbro sempre tormentato dai denti, il suo corpo che non smetteva di tremare, seppur lievemente.
« Tu sei troppo buono. » sussurrò in bisbigliò Inoo.
« Io ti amo ancora. »
L'altro sorrise, tristemente. Rimase in silenzio.
« Anche io. Ma a volte... l'amore non basta. »
« Cosa ti è mancato? Cos'è che non ti ho dato? Io... mi sono impegnato al massimo, mi sono sforzato di farti sempre felice. E la nostra relazione andava bene, fino a meno di sei mesi fa. Cosa è successo? »
L'altro si limitò a scuotere le spalle. Il sorriso non si era mosso di un millimetro, le lacrime continuavano a scivolargli lungo gli zigomi e poi verso le guance.
« Hai incontrato un altro? Ti sei innamorato di un'altra persona? »
Kei si voltò verso di lui, inorridito e spaventato. Scosse la testa, ma Yabu si avvicinò a lui, chiudendolo fra sé stesso e l'angolo del muro. I singhiozzi di Kei si fecero leggermente più rumorosi, ma Yabu lo afferrò per i polsi, stringendoli.
« Dimmi la verità. Stai con un altro? »
Lo video serrare gli occhi e mordersi i denti. Scosse la testa, sussurrando ripetuti “no”, sempre più isterici.
« E allora perché? Perché siamo in questa situazione? Io ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti rivoglio accanto a me. Perché non posso averti? »
« Mi fai male. » urlò Kei « Mi fai male, lasciami Ko. » singhiozzò.
Yabu piegò lentamente la testa verso le proprie mani e vide i bordi della maglietta sporchi di sangue. Gli alzò lentamente una manica e si sentì male di fronte alla vista della bella pelle di Kei martoriata da ferite in via di guarigione e ferite aperte. Il sangue gli colava lento lungo la pelle candida, ma non si fermava.
Gli scoprì il braccio, fino ad arrivare alla spalla. Imitò i gesti al secondo braccio, trovando la stessa identica situazione, fino a che non si azzardò a toglierla del tutto.
Il petto e la schiena erano segnati dai lividi e dai graffi, che però doveva avergli procurato qualcun'altro.
Quando lo lasciò Kei scivolò a terra, accovacciato sul pavimento, che piangeva.
« Non dovevi saperlo. Non dovevi saperlo. Non dovevi saperlo. Non dovevi saperlo. » si lamentava, sempre rimanendo a terra.
Yabu si chinò lentamente a terra, al suo fianco, posando una mano sulla pelle nuda, mentre il suo sguardo continuava a vagare su quella pelle che fino a qualche mese prima era immacolata, mentre il quel momento era deturpata dalla violenza.
Lo strinse a sé, cercando di reprimere a sua volta le lacrime. Aveva paura.
Per la prima volta in vita sua aveva paura. Perché in quella situazione non ci si era trovato e vedere Kei ridotto in quello stato lo terrorizzava.
Sentiva di essere sul punto di non ritorno, sul punto di potersi spezzare da un momento all'altro perché non sapeva che cosa fare.
Lo strinse a sé, ancora più forte perché necessitava di sentirlo fra le sue braccia, necessitava di calmarlo, di fargli capire che lui era diverso.
Si sentiva in colpa. Non aveva compreso prima il malessere di Kei e lo aveva lasciato andare, mentre Yabu si crogiolava nel suo senso di colpa. Non aveva capito che cosa affliggesse il suo fidanzato, l'uomo che amava così tanto.
Non aveva indagato a fondo, non era riuscito a capire perché fosse così diverso da quel Kei di cui si era innamorato.
Aveva sempre cercato di capirlo, ma alla fine aveva sempre e solo raschiato la superficie. E quindi Kei se ne era andato, decidendo di auto distruggersi, di uccidere, ferite, umiliare quel corpo che altre persone avevano già umiliato.
« Perdonami. Perdonami. » ripeté come un mantra nell'orecchio dell'altro.
Kei lo scostò violentemente, fissandolo.
« Non è colpa tua. » pianse « Ko, non è colpa tua. Io... è colpa mia, vedi? E' colpa di questo corpo, è colpa... mia. Io... li ho attirati. Hanno ragione. Io ho sbagliato, tu non... tu... sei sempre stato perfetto, mentre io... » gli mostrò i lividi, indicandoli istericamente, fra i singhiozzi « Io... non vado bene per te. Vedi? Io... è colpa mia. » ripeté ancora.
Yabu lo fissò, agghiacciato. Non riusciva più nemmeno a piangere.
La paura e il terrore gli impedivano ogni movimento, ogni pensiero logico e razionale.
Lo abbracciò, ancora. Kei rimase sulle ginocchia, le braccia lungo i fianchi, inerme, mentre piangeva contro la sua spalla.
« Andrà tutto bene. Andrà tutto bene. » sussurrò piano accarezzandogli la testa e sperando di riuscire a tranquillizzarlo.
Lo desiderava così tanto che credeva di morire. Lo desiderava anche così, dopo tutto quello che aveva scoperto.
Kei... non aveva colpa.
Era stato tutto fatto contro la sua volontà. Lo sapeva.
E, nonostante tutto, lo amava come il primo giorno.
« Ti amo. » gli mormorò all'orecchio « Ti amo. »
« Anche io Ko. Non smetterò mai di amarti. »
Furono le ultime parole che si ricordò di aver sentito.
**
Yabu si svegliò che era mattino inoltrato. Non si ricordava il momento in cui era andato a dormire, ma era stato dopo cena.
Aveva aiutato Kei a medicarsi le ferite, avevano cercato di distrarsi guardando la televisione e poi il nulla più totale.
Kei era al suo fianco. Gli sfiorò la spalla nuda, il collo, il volto. Lo voltò, cercando di svegliarlo. Voleva aiutarlo, stargli accanto.
Il corpo di Kei cadde pesantemente verso di lui.
Delle lunghe strisce verticali gli aprivano le braccia, da cui era uscito tutto il sangue che poteva uscire.
Il volto era rilassato. Gli occhi socchiusi, i lineamenti tranquilli.
Sembrava solo addormentato.
Non morto.
Nella mano destra c'era ancora il coltello che aveva usato.
Nella mano sinistra un foglio. Un normale foglio bianco, con su scritto solo un grande “Ti amo”.
Sembrava solo addormentato.
Non morto.
Si alzò a sedere. Sul tavolo del salotto una scatola di sonniferi e la loro cena. Era stato drogato.
Kei si era tolto la vita.
Nel sonno. Mentre lui dormiva. Gli aveva scritto un messaggio.
Ed era morto.
Da solo, forse mentre lo guardava sognare di loro due, che potevano ancora avere una vita insieme, nonostante le difficoltà.
E invece era morto.
E adesso, lui era da solo.
Per sempre.
Fine