[Percy Jackson] Caldo come un abbraccio

Jan 20, 2014 02:41

Titolo: Caldo come un abbraccio
Fandom: Percy Jackson e gli dei dell’olimpo
Pairing: Percy Jackson x Annabeth Chase
Rating: G
Avvertenze: Het, Post “Lo scontro finale”
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Percy ansimò. Tentò di tenere gli occhi aperti, offuscati dal sudore, dal sangue e dalla sofferenza che non riusciva ad ignorare.
Note: Scritta per il COW-T4 di maridichallenge con il prompt “Stella” e per la 500themes-ita con il prompt “114. Alba tremolante.”
WordCount: 2013 fiumidiparole

Percy ansimò. Tentò di tenere gli occhi aperti, offuscati dal sudore, dal sangue e dalla sofferenza che non riusciva ad ignorare.
Prese un respiro più profondo, nonostante il dolore pungente al petto che gli sembrava trafiggere i polmoni.
Intorno a lui c’era solo un buio intenso che iniziava ad essere confortevole.
Sopra di lui, un cielo blu scuro, cristallino nella sua oscurità, costellato solo da centinaia di punti luminosi che illuminavano la volta celeste sopra di lui, ma i suoi occhi affaticati non riuscivano a contenere la loro grandezza.
Le stelle erano immobili al loro posto, splendevano sempre di più, notte dopo notte.
Si voltò da un lato con fatica, tossendo grumi di sangue che gli impastavano la bocca, indebolendogli ancora di più il fiato.
Il sapore ferroso del sangue lo disgustava.
Si accasciò di nuovo sulla schiena, sentendo il fiato spezzarsi quando appoggiò la schiena sul terreno duro.
Spostò la testa con fatica, guardandosi un po’ intorno, osservando le pareti di roccia che sembravano stringersi sempre di più intorno a lui, come a volerlo comprimere nella forma di un piccolo cubetto di carne.
Tentò di analizzare la situazione, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu constatare solo l’ovvio. Una costola fratturata, un paio incrinate (forse erano quelle che gli impedivano di respirare per bene) e poi una gamba che perdeva sangue. Se si sforzava un po’, poteva osservare quella cosa biancastra e rossa che doveva essere il suo osso. Il braccio sinistro piegato dolorosamente in una angolazione impossibile da prendere volontariamente.
Ansimò ancora. Doveva mantenere la calma.
Doveva solo pensare un po’ più a fondo e tutto si sarebbe sistemato.
Rimase focalizzato su alcuni punti fermi della sua vita. La madre, Grover, il Campo Mezzosangue.
E poi il viso di Annabeth gli apparve di fronte agli occhi socchiusi. Era così incredibilmente bella che quasi gli faceva male osservarla e quindi preferiva catalogarla come “inarrivabile, fattela andare bene come amica perché sennò rimarrai fregato.”
Con quella convinzione era riuscito ad andare avanti, ignorando quanto fosse piacevole la sua compagnia, come si trovasse bene con lei, sia nello scherzo e nel gioco che nelle battaglia. Viaggiavano sulla stessa lunghezza d’onda, quando combattevano vicino a dei corsi d’acqua, anche letteralmente oltre che metaforicamente.
Accennò un sorriso e quando riaprì gli occhi vide che il blu scuro della notte iniziava a schiarirsi e anche la luminosità delle stelle si fece meno intensa.
Stava per diventare giorno.
Sarebbe riuscito a cavarsela, nonostante sentisse il fiato sempre più debole e l’aria che fuoriusciva con crescente difficoltà dalle sue labbra socchiuse.
L’ultima cosa che vide, fu un’offuscata alba tremolante, mentre i raggi del soli illuminavano il suo corpo devastato nella profondità di un burrone.

Percy sentiva il proprio corpo fluttuare. Galleggiava in quello che sembrava essere un mare caldo e confortevole.
Magari poteva rimanere là per sempre. Gli piaceva come idea quella di non dover più sentire dolore, di poter finalmente respirare a pieni polmoni, di poter finalmente distendersi.
Smettere di essere sempre in fuga, sempre in agguato. Smettere di sentire il peso di responsabilità non chieste sulle sue spalle.
Gli sembrava di essere stato incatenato al posto di Atlante, con il mondo sulla sua schiena, costretto fino alla morte a doversi sobbarcare di pericoli, di mostri e di preoccupazioni che, sotto sotto, non aveva mai desiderato.
Finalmente in un ambiente tranquillo e amico, si permise di lasciarsi andare. Allungò le braccia e le gambe, sentendole come sempre. Al loro posto, senza ferite o altro.
Tirò indietro la testa, abbandonandosi sempre di più.
Il mare intorno a lui si strinse, come a volerlo abbracciare, tiepidamente, con affetto. Lo strinse un altro po’ e Percy vi si abbandonò ancora di più.
Sospirò di piacere.
Finalmente, un po’ di pace.

Il primo istinto che ebbe fu quello di aprire di scatto gli occhi, prima che il dolore prendesse il sopravvento e si irradiasse lungo tutto il volto.
Prese respiro come se fosse stato un normale essere umano che è stato immerso per minuti infiniti sotto l’acqua e quando si guardò intorno non vide altro che una luce accecante che gli abbagliò subito gli occhi.
Ebbe l’impulso di alzarsi a sedere, poi il dolore di nuovo lo costrinse a rimettersi sdraiato. Continuava ad ansimare, a cercare aria come se non riuscisse a trovarla.
Sentiva delle voci indistinte intorno a sé, voci che lo chiamavano, che urlavano, che continuavano ad incasinargli la testa, ad appesantirla, facendogli desiderare di tornare nel mio piccolo limbo dove non sentiva più dolore.
Chiuse di nuovo gli occhi.
Non voleva vedere dove si trovava, non voleva nemmeno saperlo.
Per qualche istante, il mare tiepido si avvolse di nuovo intorno a lui, prima che una nuova scarica di dolore lo riportò in quella stanza piena di luce accecante, fastidiosa, irritante.
Una voce fra la moltitudine che sentiva si fece più alta. Urlava il suo nome, senza che lui lo sentisse realmente.
Poi lentamente la luce abbassò d’intensità, facendo delineare i tratti sfocato di una persona, il viso circondato da ciuffi biondi, una treccia che ricadeva oltre la spalla, un paio di enormi occhi azzurro mare, proprio come il colore che vedeva sempre quando si immergeva in profondità nell’oceano.
Vedeva la sua bocca che si muoveva, come se lo stesse chiamando, ma la voce continuava ad arrivargli lontana alle orecchie, quasi ovattata.
Non vide la sua mano alzarsi, ma il dolore lo sentì, quello forte e chiaro.
L’intontimento svanì poco a poco, le voci si facevano sempre più alte e chiare e il dolore sembrava essere molto più sopportabile, mentre la sensazione di calore dato da quel mare oscuro si allontanava sempre di più.
Aprì meglio gli occhi.
« Annabeth? » sussurrò piano, la gola che gli faceva male, il sapore del sangue ancora impastato nella sua bocca.
« Sì, Testa d’Alga, sono io. »
Il suo tono tradiva una vaga inclinazione di sollievo che Percy poche volte gli aveva sentito. Stava accennando un sorriso, mentre gli occhi sbarrati riprendevano gradualmente una forma umana.
Si accasciò un po’ di più contro il lettino in cui si trovava.
Guardandosi intorno, sempre con un po’ di fatica, poteva finalmente riconoscere le tende dell’infermeria del Campo.
Si girò a guardare di nuovo Annabeth, in cerca di spiegazioni. Era sicuro di trovarsi nel bel mezzo di un deserto poco prima, con metà delle ossa rotte e la restante metà che tentava di capire se dovevano rimanere intatte o se seguire l’esempio delle sorelle, con il sangue e il dolore dappertutto, mentre (se lo sentiva nelle ossa ancora sane) che stava per morire nonostante sapesse che non era possibile.
« Sono venuta a cercarti. » rispose la ragazza « Ho avuto un sogno, credo che mi sia stato mandato da tuo padre. Ho sognato dove trovarti e che stavi per… per… » si interruppe, non riuscendo a continuare la frase.
Per istinto Percy le prese una mano, stringendola nella propria, per dargli un po’ di coraggio e le sorrise.
« Ehi. Va tutto bene. Mi hai salvato. »
Annabeth arrossì leggermente, mentre intorno a loro era calato il silenzio. Solo in quel momento si rese conto che non erano da soli in quella capanna. Altri ragazzi del campo, Chirone e il signor D li stavano fissando.
Sfilò subito la mano da sopra quella della ragazza, avvampando. Alcuni ragazzi iniziarono a prendergli in giro, canticchiando qualche filastrocca da bambini, altri se ne andarono via una volta sicuri che era tutto intero, Chirone sorrideva accondiscendente e il signor D fissava disgustato un bicchiere d’acqua che in origine era vino.
« Beh, è meglio che vada. Devo… devo andare a sistemare la mia parte della stanza prima dell’ispezione e quindi… »
« Sì. Ok. Perfetto. Ciao. » ansimò Percy senza guardarla.
Sì, un conto era stare con Annabeth quando non c’era nessuno intorno. Un altro era far sapere al mondo che stavano insieme.
A dir la verità non ne avevano mai parlato chiaramente, dando semplicemente per scontato che quello che stava nascendo non avesse bisogno di alcuna spiegazione.
Però forse quel momento era arrivato.
Solo che, semplicemente, non aveva la minima idea di che cosa fare.

Percy passò le due settimane successive in infermeria, sotto una rigida cura di ambrosia, nettare e mix di medicine umane che non conosceva, con l’obbligo di non muoversi per nessuna ragione al mondo.
Il dolore era gradualmente passato, così come le ossa si erano facilmente rimesse a posto una volta che era riuscito a raggiungere l’acqua.
Nel complesso, era sopravvissuto.
Annabeth gli faceva visita parecchie volte al giorno, fra un modello di architettura, un allenamento e altro, portandogli notizie di ciò che accadeva al campo.
Perfino Clarisse era passata a vedere come stava, anche se era riuscita benissimo a mascherare le sue intenzioni dietro una coltre abbastanza spessa di risate e di prese in giro.
Ma nel complesso, di nuovo, andava tutto bene.
Quando era partito per la sua missione solitaria affidatagli da Rachel versione Oracolo, pensava che sarebbe tornato sano. Un acciaccato, ma sano e salvo.
Invece quando durante un combattimento un mostro era riuscito a fargli perdere l’equilibrio ed era letteralmente rotolato per metri e metri in un dirupo di roccia più profondo dell’Ade, aveva sentito come qualcosa che si rompeva (ossa a parte). Un qualcosa che lo tirava, come se fosse una fune, da più lati.
Un lato era quello che gli urlava di non arrendersi, l’altro che con voce suadente gli diceva che aveva già fatto abbastanza e che si era guadagnato il riposo degli eroi.
Poi la voce e il viso di Annabeth lo avevano scosso a tal punto da fargli capire che forse c’era ancora qualcosa per cui valeva combattere.
E per un semplice fatto di onestà nel propri confronti, Percy sapeva che gliene doveva parlare.

Quando riuscì ad ottenere il permesso di tornare nella propria casa, il ragazzo andò alla ricerca di Annabeth. Era sera, il sole stava tramontando e illuminava l’acqua di un colore rosso e arancione intenso. A Percy gli piaceva quel momento della giornata.
Di solito significava la fine degli allenamenti, un po’ di riposo e poi infine la cena.
In quel momento significava che, proprio per quei motivi, poteva trovare Annabeth da sola, proprio vicino alla sua casa.
Si avvicinò alla riva e la vide sistemare la propria spada. L’aveva appena lucidata e brillava sotto gli ultimi e deboli raggi del sole.
« Annabeth! » la chiamò.
Lei sussultò e sorrise nel vederlo, ma rimase ferma ad attenderlo. Lui si sedette sulla spiaggia al suo fianco.
« Come va? » domandò la ragazza, fissano altrove.
« Va bene. Mi sono quasi ripreso del tutto. G-Grazie a te. » balbettò poi infine arrossendo.
« Sì, infatti. Come al solito, no? » replicò Annabeth « Ma per primo dovresti ringraziare tuo padre. E’ lui che mi ha detto dove stavi. E che mi ha permesso di salvarti. »
Percy annuì.
Avrebbe pensato al padre più tardi. In quel momento, parlare con Annabeth era la cosa più importante di tutte.
Si avvicinò a lei un po’ di più, riprendendole di nuovo la mano.
« Annabeht, io… » prese fiato « …io, ecco… so che è strano, ma… insomma, io pensavo che sto bene con te. Quando ero in quel burrone, anche se sapevo che non sarei morto, non riuscivo a fare altro che pensare a te. Ecco… quello che voglio dirti è che… »
Percy non riuscì a finire la frase che la ragazza si strinse a lui, abbracciandolo e baciandolo sulle labbra. Percy si irrigidì, pensando a che, diamine, Annabeth lo stava baciando. Rimase fermo come un pesce lesso (che brutto e ovvio paragone) anche quando lei si allontanò.
« Sì Percy. Ti amo anche io. » sussurrò piano, ridacchiando « Sei proprio una Testa d’Alga, lo sai? Oppure da oggi dovrei chiamarti Signor Baccalà? » chiese infine.
Il ragazzo si riscosse, arrossendo, balbettò qualche cosa che non riuscì nemmeno lui a capire e poi tirò di nuovo a sé Annabeth.
Si baciarono di nuovo. Baci nuovi, mai sperimentati, lenti e impacciati e un po’ timidi. Erano baci inesperti, mentre lui le accarezzava il viso, tirandole indietro i capelli, assaggiando con i polpastrelli la morbidezza della sua pelle. Si sentiva andare a fuoco, nonostante l’aria intorno a loro si fosse fatta più fredda perché era calata la notte.
Gli piaceva quella sensazione.
Era la stessa di quando si trovava nel limbo. Calda e accogliente.
Ma in quel momento non c’era bisogno di essere in bilico fra la vita e morte per provarla. Aveva Annabeth e nulla era più importante di quello.

challenge: 500themes ita, pairing: jackson x chase, fandom: percy jackson, challenge: cow-t4

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