[Sherlock (BBC)] The very first contact between us

Jan 17, 2014 15:45

Titolo: The very first contact between us
Fandom: Sherlock (BBC)
Pairing: John Watson x Sherlock Holmes ; Hamish Watson-Holmes
Rating: G
Avvertenze: Slash, Parent!Lock
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: C’erano volte in cui Hamish non riusciva a prendere sonno.
Quella era una notte di quelle che sapeva già non avrebbe chiuso occhio. Riconosceva i sintomi perfettamente, con la facilità con cui avrebbe potuto diagnosticare un raffreddore o un’allergia.
Note: Scritta per la diecielode con il prompt “Fa più rumore nel silenzio il tuo pensiero”, per la 500themes-ita con il prompt “235. I bordi prendono una forma indistinta”, per il COW-T4 di maridichallenge con il prompt “Terra incognita” e per la syllablesoftime con il prompt “Dio solo sa cosa nascondono quegli occhi deboli e infossati”
WordCount: 5770 fiumidiparole

C’erano volte in cui Hamish non riusciva a prendere sonno.
Quella era una notte di quelle che sapeva già non avrebbe chiuso occhio. Riconosceva i sintomi perfettamente, con la facilità con cui avrebbe potuto diagnosticare un raffreddore o un’allergia.
Si alzò innervosito dal letto, scostando il piumino che odorava ancora di fresco, di bucato appena fatto.
Negli ultimi tempi accadeva sempre più spesso. Suo papà rimaneva a casa dal lavoro. Diceva che aveva un po’ di ferie arretrate e se Hamish sapeva che da un lato era vero (sapeva anche riconoscere i segni di un bugiardo) dall’altro si rendeva conto che non era solo quello il motivo.
John Watson non voleva più andare a lavoro. E di quel passo sarebbe stato licenziato. Oppure si sarebbe licenziato.
Hamis se lo sentiva. Sarebbe finita in quel modo, come tre anni prima.
Senza volerci nemmeno pensare, si alzò in piedi, il più silenziosamente possibile. Scese le scale, evitando accuratamente il sesto gradino partendo dall’alto, quello che scricchiolava e che annunciava ai genitori la sua presenza.
Ma ormai era diventato bravo a non farsi sentire.
Dappertutto, soprattutto a scuola, riusciva a diventare invisibile. Ed era una cosa che non gli dispiaceva più di tanto.
Poteva farsi i fatti suoi, guardare gli altri senza essere notato, rendersi conto di come erano davvero gli altri essere umani, quelli comuni, diversi da lui (o forse era lui ad essere diverso da loro, era un meccanismo che Hamish doveva ancora comprendere a fondo.).
Rimase stupito quando vide la luce del camino ancora accesa.
Per quello che ricordava aveva lasciato suo papà da solo in salotto circa quattro ore prima. Di solito John si coricava più o meno un’ora dopo lui e il fuoco del camino impiegava ancora meno per spegnersi in maniera naturale.
Quindi, per forza di cose, ci doveva essere qualcuno che continuava ad alimentarlo. Partendo dal presupposto che non poteva essere suo padre, Sherlock Holmes, perché era fuori per chissà quale missione, l’ultima alternativa che gli rimaneva era che John fosse ancora sveglio.
Hamish si morse un labbro, insicuro se affacciarsi o meno oltre la soglia.
Uno dei motivi per cui non riusciva a dormire, era proprio perché i fantasmi del passati tornavano a fargli visita, senza pietà.
Ricordava fin troppo bene come erano stati bui i due anni senza suo padre, nonostante John non gli avesse fatto mancare assolutamente nulla.
Con lui si era sempre comportato come prima di… quell’incidente. Gli sorrideva, gli faceva il bagno, lo portava a scuola, giocavano insieme al parco e continuava a fargli mangiare l’insalata anche se non gli piaceva.
Davanti a lui non aveva mai pianto. Era stato anche bravo a soffocare per bene i singhiozzi nel cuscino nelle notti che si susseguivano senza pietà, mentre il dolore e il senso di colpa di non essere riuscito a fare nulla per salvarlo lo divoravano dall’interno.
Hamish sapeva che non poteva desiderare niente di meglio.
Ma si era accorto del cambiamento. Aveva visto gli occhi del suo papà spegnersi dopo giorno. La sua risata non era più cristallina e piena di vita, ma nascondeva una sofferenza che non era in grado di condividere con nessuno, nemmeno con il figlio. Si portava sulle spalle un dolore incancellabile, che nessuno poteva sopportare.
Ma Hamish sapeva che era un soldato. Che aveva combattuto tante guerre e quella era solo l’ultima guerra che doveva sopportare.
Una guerra che era già persa in partenza, all’interno di una terra incognita che era il proprio cuore, che sapeva che non avrebbe portato a risultati diversi da quello.
Ma era un soldato e un soldato affronta sempre la morte a viso scoperto.
Sia la propria, che quella degli altri.
Prese un profondo respiro, dandosi delle lievi pacche sul viso. Era grande ormai.
Avrebbe compiuto a breve quindici anni. Poteva affrontare John adesso e chiedergli di dargli un po’ di quel dolore, un po’ di quella sofferenza. Perché non era giusto, no, per niente giusto, che ancora stesse male, in solitudine.
Abbastanza grande per affrontare i demoni che si nascondevano dietro gli occhi di John, abbastanza grande per osservarsi intorno e comprendere che cosa bisognava dire e cosa bisognava tenere per sé.
A volte odiava quel suo spirito di analisi così accurato, così approfondito. L’aveva ereditato dal padre.
Da Sherlock.
Dal grande, eccelso e perfetto Sherlock Holmes. Dall’uomo che…
Tossicchiò, in modo da attirare l’attenzione del papà (e per distrarsi dai suoi stessi pensieri) il quale sobbalzò sulla sedia, iniziando a guardarsi intorno con fare spaesato.
Probabilmente era talmente perso nei suoi pensieri, in quei pensieri che rimbombavano, che nel silenzio facevano ancora più rumore, da non accorgersi di nulla, nemmeno del mondo che lo circondava.
Sul viso di suo padre apparve un sorriso stanco, accentuato dalle occhiaie intorno agli occhi.
« Da quant’è che non dormi? » chiese, senza nemmeno rendersene conto, Hamish.
John li allargò, perplesso. Poi sorrise ancora.
« Un po’. Ma non preoccuparti, è a causa… del lavoro. » mentì poi distogliendo lo sguardo.
Hamish si avvicinò a lui, lentamente.
« Non mi mentire. Papà, io… » si interruppe, non sapendo bene come iniziare il discorso « Papà, ormai sono grande. E anche se papà è tornato, lo so che c’è qualcosa che ti fa ancora soffrire. Per favore, non mettermi da parte. Dille anche a me le cose che ti fanno male, così ti sentirai un po’ meno solo, no? Io… Io posso farcela, lo sai? Posso aiutarti. Basta che me ne parli. Andrà tutto bene, te lo giuro. »
John rimase in silenzio per un tempo che gli parve infinito. Hamish si morse un labbro, cercando di analizzare i pensieri, chiedendosi, chissà cosa nascondevano quegli occhi, che un tempo erano stati deboli e infossati, sul momento di mollare tutto.
Poi John sospirò. Allungò una mano, stringendola debolmente intorno al suo polso, tirandolo vicino a sé. Nonostante fosse grande, ad Hamish piaceva farsi abbracciare dal padre e quindi si sedette più che volentieri sulle ginocchia dell’uomo, che coprì le gambe con il plaid.
« Hamish, tesoro, il discorso è un po’ diverso da come ti sei immaginato tu. » prese di nuovo respiro, più profondo « Quello che mi ha detto mi ha commosso, davvero. Tu… sei la cosa migliore che potesse capitarmi nella vita, perché sei semplicemente mio figlio. Ti voglio bene e nulla potrà mai impedirmi di volertene. Né la morte di Sherlock, né il suo ritorno, nemmeno i nostri litigi o le discussioni fra me e te. Solo che ci sono alcune cose che un uomo adulto deve imparare a gestire da solo, perché non può far sempre affidamento agli altri e… »
« Però tu fai tutto da solo! » lo interruppe Hamish con gli occhi lucidi.
Non voleva piangere, ma c’erano momenti che proprio non riusciva più a trattenersi. E in quel momento si stava pericolosamente avvicinando al punto di non ritorno.
John sospirò ancora, ma non per questo Hamish si lasciò scoraggiare.
« Papà, tu non puoi fare tutto da solo. Lo vedo che ci sono dei momenti in cui papà ti fa arrabbiare e che non rispondi solo perché temi che qualcosa vada storto, che se ne vada di nuovo. E’ diverso da prima. Lui è tornato ma sembra che tu… sia rimasto indietro. A quando era morto. »
Ecco. Si sentiva un perfetto idiota. Stava piangendo e il padre lo guardava con gli occhi spalancati, come se avesse appena visto un fantasma. Era pallido e le occhiaie sembravano ancora più accentuate.
Lo vide accennare un sorriso triste e spento fra le lacrime, mentre i bordi e i contorni delle cose e del padre prendevano una forma indistinta, quasi grottesca. Non vedeva niente, se non un miscuglio di colori soffocati dai suoi stessi singhiozzi.
« Hamish, vieni qua. » lo abbracciò teneramente, come faceva sempre per consolarlo, permettendogli di piangere e di sfogare tutta la sua rabbia e la sua frustrazione contro la sua spalla.
Ed Hamish ci si aggrappò, perché in quel momento gli sembrava di non avere nessun altro che John Watson, il suo unico padre.

La scuola che frequentava era una di quelle per figli di papà con la puzza sotto il naso. L’unico motivo per cui aveva deciso proprio quella fra tutte le scuole che aveva a disposizione, era perché aveva un enorme laboratorio di meccanica e informatica.
Era strano come quella passione si fosse incredibilmente ridotta dopo il ritorno di Sherlock a casa e non riuscisse a concentrarsi per più di dieci minuti su uno script informatico o su un pezzo che stava costruendo.
Si morse un labbro. Non aveva voglia di andare a scuola. Di solito ci andava anche se era già arrivato alla fine programma e i suoi compagni erano troppo indietro rispetto a lui o anche se alcuni lo prendevano in giro.
Ci andava per non annoiarsi a casa o per non dover fingere continuamente di stare male. Non si divertiva spesso, solo alle gite scolastiche.
Pensò anche di saltare scuola, prima di ricordarsi che probabilmente suo zio Mycroft lo avrebbe rintracciato nel giro di due minuti. Prese il telefono, chiamando perciò l’altro suo zio.
Greg non era sempre noioso come Mycroft, ma più disposto a fargliele passare sempre tutte. Si divertiva con lui. Gli parlava dei casi quando John non lo sentiva e a volte se lo portava anche in giro.
Gli piaceva stare con lui. Vedere cose che gli altri non potevano vedere, parlare finalmente da grandi senza preoccuparsi di traumatizzare qualche vecchietta al supermercato, essere finalmente sé stesso.
Gregory non gli diceva mai di comportarsi come un ragazzo della sua età, ma come John gli diceva sempre di comportarsi come si sentiva. E lui si sentiva grande.
« Zio? » esclamò quando la telefonata finalmente si aprì « Non ho voglia di andare a scuola. Posso passare a Scotland Yard? »
Sorrise quando ricevette l’ok, nonostante avesse dovuto mentire dicendo che sì, John e Sherlock sapevano perfettamente dove si trovava.

**

John quella mattina non se la sentiva di andare a lavoro. Dopo quella conversazione con il figlio nel cuore della notte non era riuscito più a prendere sonno, mentre il ragazzo si era addormentato stremato addosso a lui.
Sherlock non era ancora rientrato. Smise di chiedersi dove potesse essersi cacciato perché era stanco.
Semplicemente non riusciva più a stargli dietro. Era troppo frenetico, troppo attivo, troppo sbandato. Era tornato il vecchio Sherlock. Quello che non aveva ancora legami con nessuno se non con le sue siringhe di cocaina. Non aveva lui, non aveva Hamish.
John si guardò l’anello che non si era mai sfilato. Era là, bianca e brillante come il giorno che l’aveva indossata, commosso, mentre sposava Sherlock.
Non ce la faceva più. E la cosa che lo irritava di più non era nemmeno il non riuscire più a reggere, ma il far preoccupare Hamish. Quando Sherlock era morto (pardon, si era finto morto) si era ripromesso che non sarebbe andata a finire come quando era morto suo padre.
La madre si era lasciata andare per qualche mese. Lui non la colpevolizzava, ma con Harriet il risultato era stato devastante.
E non voleva ripetere nulla. Voleva continuare ad essere presente, accompagnarlo a scuola, portarlo in giro, fare le loro solite gite la domenica, spiegargli qualcosa di medicina.
Continuare la loro vita esattamente come era prima.
Ma Hamish gli aveva fatto capire che qualcosa in quella loro quotidianità si era spezzato e che nessuno era in grado di porvi rimedio.
E poi aveva ragione.
Sherlock era tornato da loro da più di sei mesi (per la precisione erano otto mesi e 20 giorni) e lui non lo aveva ancora registrato. Sherlock era diverso. O forse reagiva in quella maniera perché vedeva John diverso.
Il medico non avrebbe saputo dire che cosa c’era che non andava, ma sentiva che c’era.
Non si parlavano quasi mai, a cena non mangiava mai con loro, parlava sempre di lavoro, interessandosi quasi solo di Hamish A lui non aveva chiesto niente da quando era tornato e John non si era di certo sbottonato di fronte a tutta quella freddezza.
Avevano fatto sesso solo una volta. Poi tutto era tornato esattamente come se non fosse successo nulla. Il dottore non aveva provato niente di che e Sherlock sembrava un pezzo di legno, che non lo fissava nemmeno in faccia. Non era di certo la cosa più eccitante del mondo.
Si passò le mani sul viso, cercando di comprendere che cosa dovesse fare in quel momento della sua vita. Si chiese se le cose potessero tornare al loro posto, se si potessero incollare insieme i cocci della propria esistenza o se semplicemente il problema non era altro che lui.
Aveva voglia di urlare, di sfogarsi, di fare come faceva Sherlock prima di Hamish. Sparare al muro.
Ma anche avendo intenzione di farlo sul serio, la verità era che non poteva. Non poteva perché sarebbe stato come ammettere che aveva fallito. E John non sarebbe sopravvissuto ad un fallimento del genere, soprattutto come genitore.
« Stai male? » chiese una voce alle sue spalle.
Per la seconda volta nella giornata, John sussultò sulla sedia, sempre perso nei suoi stessi pensieri distruttivi.
Rimase comunque fermo, se girarsi, senza sentirne, per la prima volta, il bisogno. Fino a qualche tempo prima si sarebbe voltato sorridendo verso di lui, solo per guardarlo ancora una volta, solo per osservare i suoi lineamenti, i suoi occhi, la sua bocca, imprimendosi ancora e ancora i suoi ricordi nella mente e nella pelle.
Invece in quel momento nemmeno a trovare il coraggio (o la voglia) di voltarsi, figuriamoci di guardarlo in faccia.
« Dovrei stare male? » chiese piano.
« Hai salto il lavoro. Ma non mi sembri ammalato. »
Il dottore scosse le spalle.
« Devo sistemare casa e fare il cambio dell’armadio. Inizia a fare caldo, la primavera è alle porte, anche in Inghilterra. Meglio che lo faccia ora, mentre Hamish è a scuola. » accennò una risatina debole, spenta « Curioso e volenteroso cos’è, farebbe più danni che altro. » sospirò « E poi stamattina non mi andava di andarci a lavoro. »
« Sicuro? Non è da te dire che “non ti va” di lavorare. » obiettò Sherlock, indubbiamente incapace di comprendere in quali momenti era meglio starsene zitti, girare i tacchi e andarsene.
« E sentiamo, cosa sarebbe da me? » esclamò John voltandosi all’improvviso « Sarebbe più da me continuare a lavorare come un mulo solo per non pensare? Sarebbe da me rimanere in silenzio continuando a vivere questa cazzo di farsa, Sherlock? »
Quando non si era accorto di urlare, ma quando si fermò si accorso di avere il fiato. E lui odiava urlare.
L’uomo di fronte a lui sospirò, innervosito.
« Sì, sarebbe da te rimanere in silenzio continuando a vivere questa “farsa”. » rispose subito, quasi scimmiottandolo « Lo sai sempre. Per ogni cosa. Aspetti fino ad arrivare al punto di non ritorno, che è proprio quello che aspettavo. »
« “Quello che…” » Jonh si interruppe, prendendo fiato « Ho da fare Sherlock. Sono occupato e non posso stare dietro ai tuoi stupidi giochi da genio deduttivo del cazzo. » sibilò osservando.
« Occupato a fare cosa, John? » anche Sherlock iniziava a perdere la pazienza, più velocemente del previsto « Dobbiamo parlarne, non puoi continuare così! »
« Sono occupato a fare il padre Sherlock! » urlò John, voltandosi di nuovo verso di lui « Devo pensarci io perché mi sembra che tu te ne sia dimenticato! Hamish è anche tuo figlio, non un coinquilino del cazzo che hai trovato al rientro a Baker Street! »
« Lo so. » ringhiò Sherlock in risposta « E ci sto provando. »
« Facendo cosa esattamente? Stando via per giorni? Tornando di notte quando lui è già a letto? Chiedergli due cose sulla scuola non fa di te un padre Sherlock! »
John si rese conto di aver esagerato solo guardandolo negli occhi (quei grandi e profondi occhi celesti che lo avevano colpito subito, dove vi aveva sempre letto più cose di quelle che voleva vedere), ma non se ne curò. Il senso di colpa fu subito soffocato dalla rabbia, una rabbia cieca che non conosceva fine, che lo stava divorando.
« Va bene se non mi parli Sherlock. Va bene se non torni a casa, se non mangi con noi, posso perfino accettare il fatto che tu non… non mi ami più come prima. » ansimò, ogni parola adesso sempre più difficile da tirare fuori « Ma Hamish è un altro discorso. Ha sofferto quando sei morto e ha sofferto quando sei tornato. Quindi, o ti decidi a fare il padre, quello di cui lui ha bisogno, oppure quella è la porta! » esplose indicando la porta dietro il detective.
Sherlock rimase in silenzio alcuni minuti, fissandolo intensamente. Poi si mosse un po’ sui piedi, a disagio e fu un quel momento, quando si spostò un po’ di più, che John sbarrò gli occhi, impallidendo. Boccheggiò un paio di volte, diventando sempre più bianco.
Anche Sherlock si girò.
Dietro di lui, c’era Hamish, vicino a Lestrade, che tentava disperatamente di mimetizzarsi con l’infisso della porta.
Il ragazzo aveva il viso spento, quasi impassibile. Era vuoto, era la cosa che John temeva più di tutte in assoluto. Dopo la morte del padre il dottore si era sforzato in ogni maniera per riempire le sue giornate, per ricordargli che il compito dei vivi è quello di onorare i morti, non di seguirli. Non voleva che diventasse una piccola bambola che viveva in funzione del padre che aveva deciso di suicidarsi gettandosi dal cornicione di un palazzo.
Avvolto in quel cappotto troppo grande per lui (troppo simile a Sherlock, troppo), quasi stretto in una sciarpa fatta a mano e un capello di lana calato sugli occhi, Hamish dava l’impressione a John di essere grande e piccolo allo stesso tempo.
Troppo adulto per giocare ancora con lui alle macchinine, troppo piccolo ancora per negargli delle carezze.
« Hamish, tesoro… Non è come sembra. » tentò quindi di dirgli, lentamente.
« Sì, io e tuo padre stavamo solo avendo uno scambio di opinioni. Nulla di preoccupante. » gli diede corda Sherlock, il viso più disteso e calmo di prima, forse per dare ad Hamish un senso di tranquillità che probabilmente non possedeva.
Ancora, il ragazzo rimase in silenzio, quindi John ne approfittò per continuare a parlare.
« Hamish, se c’è qualcosa di cui vuoi parlare possiamo farlo ora. Vieni qua a sederti, ti preparo del tè caldo. »
« No, io… » il giovane scosse la testa « …pensò che andrò a stare qualche giorno dallo zio Myc. » ansimò.
« Cosa? » John impallidì « Tesoro, tutto questo si sistemerà, io e tuo padre… »
« No. Non puoi andarci. » lo interruppe la voce fin troppo autoritaria di Sherlock « Questa, è casa tua. »
Hamis fece saettare immediatamente lo sguardo su di lui, mentre il viso si animava velocemente di sfumature di rabbia.
« Io lo so che questa è casa mia. E’ per quanto mi riguarda, ho anche solo un padre. » soffiò velenoso.
« Hamish Watson-Holmes. » tuonò John portando gli occhi su di lui « Non azzardarti a dirgli certe cose! »
« E perché? E’ sparito per due anni! Due anni in cui ti ho visto soffrire a causa sua, fingere di fronte a me che tutto andasse bene, mentre il nostro pondo si stava distruggendo! » urlò il ragazzo con gli occhi lucidi « Perché dovrei perdonarlo? Perché dovrei ancora considerarlo mio padre? La famiglia che avevi costruito tu è morta tre anni fa papà! »
Nessuno dei tre adulti proferì parola. John voleva solo tornare indietro nel tempo e quando si voltò verso Sherlock, non riuscì a capire che cosa stesse pensando. Forse era troppo sconvolto per poter dire qualcosa di senso compiuto.
L’adolescente li osservò per un tempo che parve infinito. Poi, senza dire altro, scappò via, scendendo rapidamente le scale scricchiolanti.
L’Ispettore li guardò. Aprì la bocca, come per dirgli qualcosa, ma poi la richiuse, trovando più saggio voltarsi a sua volta, per rincorrere il nipote acquisito.

John si sentiva come avvolto in una gigantesca bolla d’acqua dove tutti i sensi erano ovattati e i suoi pensieri scorreva in modo più lento del normale.
Sentiva le gambe tremargli, fatte improvvisamente troppo pesanti perché riuscissero a reggere il proprio peso. Si allontanò da Sherlock di un paio di passi, per lasciarsi ricadere sulla poltrona dietro di lui.
Vedeva i pezzi della sua vita, già precedentemente incollati, sgretolarsi di nuovo davanti ai suoi occhi, staccarsi dal muro, senza che potesse fare nulla per impedirlo. Coccio dopo coccio, pezzo dopo pezzo, ogni più piccolo frammento scivolava nell’aria, raggiungendo il suolo, schiantandosi sul pavimento con un boato infernale che gli ricordava le bombe dei nemici, in guerra.
Alzò gli occhi su Sherlock, ancora immobile al suo posto e accennò un sorriso triste.
« Pensavi davvero che al tuo ritorno tutto sarebbe stato come prima? » sussurrò.
Il detective rimase ancora in silenzio, prima di fissarlo a sua volta, scuotendo la testa.
« No. Ovviamente no. Avevo previsto diversi scenari mentre ero sul taxi per tornare qua, ma questo era decisamente il peggiore. E, ovviamente, quello che aveva più probabilità che si avverasse. » sostenne ancora il suo sguardo « Mi dispiace, John. »
Il medico si alzò in piedi, sospirando.
« Del fatto che la famiglia che avevamo costruito insieme si stia distruggendo? » si avvicinò a lui, aggirandolo, prendendo il cappotto « Anche a me Sherlock. » bisbigliò con il cuore che sanguinava.
« Dove vai? » mormorò l’uomo, pericolosamente accanto a lui.
« Da Hamish. Vado a riportarlo a casa. » sussurrò con un filo di voce senza voltarsi.
Sentiva la presenza di Sherlock addosso a lui. Sentiva il suo odore, la sua voce, il suo stesso respiro che gli solleticava la nuca. Era là, a meno di qualche centimetro da lui, eppure lontano chilometri e chilometri.
Distante anni luce, su un pianeta che lui non riusciva più a raggiungere.
Stava per andarsene quando l’altro lo prese delicatamente per un polso. John sentì il fiato spezzarsi in gola, mentre il tocco dell’uomo sembrava come bruciare sulla sua pelle, marchiandolo a fuoco. Durò solo un secondo. Quello successivo Sherlock aveva già lasciato la presa.
« Forse… prima dovremo chiarire i nostri problemi John. » commentò poi con tono incerto.
« Sai qual è il nostro problema, Sherlock? Che tu hai finto il tuo suicidio, lasciandoci alla deriva. Abbandonandoci. E lo so, lo so. » lo interruppe il medico alzando una mano per fermarlo « So perché lo hai fatto. Hai salvato la vita di Hamish ed è la cosa più importante. »
« Però non è stato abbastanza, vero? » commentò piano l’uomo.
John sospirò ancora.
« Non lo so Sherlock. Credimi, semplicemente non so cosa dirti. Bastava una parola. Un segno. Un codice. Un qualcosa per farci capire che c’eri e che non ti eri solo suicidato per una fottuta questione di orgoglio. Tutto qua. »
Il medico si tolse la giacca, appendendola di nuovo all’attaccapanni e si appoggiò allo stipite della porta.
Si sentiva stanco, stremato, privo di energie e di idee. Non sapeva cosa fare e come farlo. La situazione gli stava sfuggendo di mano.
« Sai, il giorno del tuo funerale ho pregato sulla tua tomba che tu compissi un miracolo. Che tornassi da noi. Poi i giorni sono diventati settimane e le settimane i mesi. Le mie visite al cimitero si sono ridotte, fino a diventare solo un “qualche volta ci andrò”. » si fermò, non sapendo bene come continuare il discorso.
« E’ normale John. Sono le fasi dell’elaborazione di un lutto. Non devi sentirti in colpa per questo, è… la vita. »
« Ma io mi ci sento invece. Perché lentamente le cose sono cambiate. Non ho mai elaborato nessun lutto. Ti ho solo messo in un angolo della mia mente, perché così era più facile dimenticarti, che accettare la tua morte. »
Sherlock rimase in silenzio, poi si avvicinò a lui. Alzò il dorso della mano, passandolo delicatamente sulle guance umide di lacrime silenziose del compagno, senza distogliere lo sguardo da lui.
« Mi dispiace Sherlock. Mi dispiace non essere riuscito a fermarti su quel tetto, né di essere stato forte. »
« Potevi provarci in tutti i modi del mondo John. Non ero un suicida. Avevo una missione. E l’avrei portata avanti a qualunque costo, qualunque cosa tu avessi detto. »
« Prima non lo sapevo. Ho visto la scena della tua morte ogni notte, per mesi, chiedendomi se una o un’altra parola avrebbe potuto salvare te ed Hamish da quell’inferno. Ho deciso di dimenticarti quando ho realizzato che ti saresti buttato lo stesso, perché pensavo che per te l’orgoglio e l’onore fossero più importanti della tua famiglia. Ho abbandonato te, come tu avevi abbandonato noi. »
« Lo so. John, io lo so. E non te ne faccio una colpa. »
Si avvicinò a lui, ignorando i tentativi di John si scostarsi dalla sua presenza, dal suo corpo quasi premuto contro il proprio.
« E allora perché fino ad ora ti sei comportato come se non ti importasse più nulla di noi? Come se non ci amassi più? » sussurrò il medico con voce strozzata.
Sherlock socchiuse gli occhi.
« Il mio amore per te e per Hamish non potrà mai diminuire. Al mio rientro ho visto una certa situazione, l’ho analizzata, l’ho compresa. Mi sono adattato. Perché sapevo che nulla poteva riportarmi indietro nel tempo. Che avevate bisogno di tempo, che tu dovevi ancora comprendere la situazione. Se fossi tornare a comportarmi come prima, avrei solo peggiorato le cose, dando l’impressione che non me ne importasse nulla. Aspettavo che uno dei due raggiungesse il punto di non ritorno. Perché Hamish è così simile a te, ti ama così tanto che a volte mi spavento. Ho paura di non avere più un posto, che non ci sarà mai più modo di rimediare. »
John socchiuse gli occhi, lasciando ricadere la testa contro il petto del marito. Allungò lentamente le braccia, stringendole intorno alla sua vita, tirandolo contro di sé.
Era stremato.
Essere mezzo a conoscenza dei reali sentimenti di Sherlock lo lasciava sempre come se avesse corso una maratona per tutta la vita. Aveva il fiato pesante e spezzato, i pensieri nella testa che vorticavano più veloci di quello che voleva, una confusione che non riusciva a spiegare.
Ma le cose più importanti erano come segnali luminosi al neon nel suo cervello.
Sherlock li amava ancora.
Si era preoccupato, a modo suo, di loro e della loro salute fino a quel momento.
« Ho sbagliato a dirti quelle cose Sherlock. Ero solo arrabbiato. » ammise.
Sherlock scosse le spalle, indifferente. Chinò leggermente la testa, fermandosi prima di baciarlo, rimanendo però in attesa.
John osservò le sue labbra, osservò quell’uomo che stava attendendo solo un suo segnale, un qualcosa che gli dicesse che sì, poteva ancora farcela, che sì, con il tempo avrebbe potuto perdonarlo che sì, la sua famiglia era sempre là.
Annuì lentamente, baciandolo.
Sentì le mani di Sherlock intorno al suo viso, stringerlo delicatamente, mentre lo baciava ancora e ancora, mentre lo spingeva ancora di più contro la porta, mentre lo desiderava ancora di più, come un tempo.
Forse sì, le cose potevano ancora sistemarsi.
Adesso ne era sicuro.
Con il tempo, tutto sarebbe tornato come prima.

**

Chiuso nella stanza degli ospiti di casa Holmes-Lestrade. Era steso nel letto da ore, mentre fissava fuori dalla finestra, abbracciato ad un cuscino.
Aveva pianto, ma ormai le lacrime si erano asciugate, lasciandogli il volto secco e la federa del cuscino umida.
Sentiva la servitù muoversi velocemente lungo i corridoi, le scale, le stanze, affaccendati nella loro piccola vita.
Si morse un labbro.
Odiava sé stesso. Odiava il proprio cervello. Odiava osservare per un secondo una persona e riuscire a scoprire ogni più piccolo dettaglio.
Avrebbe voluto essere normale, comunque, stupido.
Nella testa gli vorticavano ancora le parole che aveva urlato a suo padre, Sherlock. Nella testa non c’era altro che il suo sguardo di ghiaccio ferito, il suo volto, il volto di suo papà che lo fissava allucinato.
Nel giro di una manciata di secondi aveva distrutto ciò che John aveva faticosamente tirato avanti per quasi tre anni. Aveva parlato troppo, come sempre.
Bussarono alla porta, ma Hamish non rispose. Non voleva vedere nessuno.
La porta si aprì lo stesso e il ragazzo socchiuse gli occhi.
Odore di sigaretta, di carta e inchiostro e polvere da sparo. Terra secca che il proprietario pensava di aver tolto sullo zerbino. Un profumo di dopobarba che conosceva bene ma non ricordava il nome (qualcosa con Blue e Armani) che comunque non riusciva a coprire un altro profumo, un altro dopobarba che si mischiava con il suo.
Erano odori che si mischiava, come aveva sempre osservato con i suoi genitori e che, negli ultimi tempi, non si mischiavano più, rimanevano separati, distanti e distinti. Come due essenze che non riescono più ad avvicinarsi.
« Hamish? Posso entrare? »
« Sei già entrato zio. Anche se avevi bussato e non ti avevo risposto. » rispose, continuando a non girarsi.
Udì la risatina nervosa di Gregory Lestrade. Gli piaceva tanto Gregory. Lui non si comportava mai come se tutto andasse bene o come se tutto andasse male. Ammortizzava, interiorizzava qualunque cosa brutta accadeva nella sua vita, riuscendo comunque ad andare avanti, a vivere la sua vita.
« Scusami. E’ che… sono un po’ preoccupato. »
Il ragazzo si alzò a sedere, osservandolo. Indossava ancora l’impermeabile, la barba non fatta da un paio di giorni e aveva una postura nervosa.
Come se Hamish potesse scoppiare anche con lui, come aveva fatto quella mattina con il padre.
« Mi dispiace per questa mattina zio. » ammise « Non volevo che tu assistessi a quella scena patetica. »
L’Ispettore si avvicinò, sedendosi accanto a lui e sospirando. Gli prese le mani, stringendole fra le sue, incredibilmente calde. Aveva freddo Hamish, ma era un freddo che nessun piumino o maglione poteva eliminare.
« Non c’è niente di cui scusarsi o vergognarsi. La tua famiglia ha bisogna di assestarsi di nuovo, di trovare ciò che è stato perduto. Anzi, mi stupisco che tu non abbia parlato a tuo padre in quella maniera mesi fa. »
« Volevo farlo. Ma i primi tempi papà sembrava felice. Felice di averlo di nuovo a casa, felice che fosse vivo e non seppellito tre metri sotto terra. » scosse le spalle « E ho provato a farmi contagiare dalla sua tranquillità. Ma lo sapevo, lo sapevo che non sarebbe durato a lungo. Papà è tornato di nuovo triste e lui non ha fatto nulla per risollevarlo. Per farlo stare meglio. E’ suo compito, no? E allora mi sono sentito tradito, di nuovo. Perché papà ha sofferto tanto a causa sua e… non se lo merita, no? » chiese poi, cercando come una conferma negli occhi dello zio.
Gregory annuì.
« Hai ragione. Ma i tuoi genitori sono sempre stati così. Si guardano, si puntano, si amano, si allontanano, si avvicinano ancora, un po’ come due animali selvatici. Sherlock non è abituato ad avere dei legami e John non pensava che tutto ciò che sarebbe mai accaduto. Hanno bisogno dei loro tempi, perché sono orgogliosi e non cedono facilmente il loro terreno. »
Hamish sospirò.
« Però ho esagerato con papà. Non gli dovevo dire quello che ho detto. L’ho ferito. E non mi piace quello che ho fatto. »
Gregory sorrise, scompigliandogli i capelli.
« Lui ti conosce meglio di chiunque altro. Vedrai che tutto si sistemerà. Un uccellino mi ha detto che a breve saranno qua, per riportarti a casa. E ti giuro che le cose cambieranno. »
« Lo zio Myc ha di nuovo piantato delle telecamere in casa? » esclamò sconsolato Hamish « Papà, anzi, nessuno dei due sarà felice quando lo saprà. »
« Beh, diciamo che è meglio se non lo scoprano allora, no? » sorrise Gregory.
Hamish sorrise a sua volta, sbilanciandosi in una dimostrazione di affetto che era abituato a mostrare solo a John. Stupito, ma felice, l’Ispettore ricambiò l’abbraccio.
« Per qualunque cosa, io e lo zio Myc saremo sempre qua Hamish. Ricordatelo. »
Il ragazzo affondò il volto nella sua spalla, annuendo.
Si sentiva improvvisamente meglio, un po’ più fiducioso forse.

Hamish si guardò intorno, perplesso. Erano passati due mesi da quando aveva discusso con il padre e si era rifugiato a casa di Mycroft. Al rientro lui e suo padre (Sherlock), avevano discusso per un tempo infinito, arrampicandosi sugli specchi, insultandosi, lamentandosi, urlandosi addosso.
John aveva provato a fare da intermediario, ricevendo solo altre urla, quindi aveva ben deciso che avrebbe passato la sera (la nottata e anche il resto del giorno dopo) a bere al pub con Gregory.
Alla fine Hamish e Sherlock erano crollati sul divano, parlandosi civilmente, mettendo da parte ogni sofferenza, ogni dolore, ogni rimpianto, promettendosi che mai più sarebbe successo una cosa del genere.
In quei due mesi gli sembrava di aver vissuto in un limbo. Seppur leggermente diverso, l’atmosfera era la stessa di tre anni prima, forse anche migliore, più sincera, più felice.
In quel momento, un sacco di cose gli tornarono alla mente, la prima fra tutte che era il suo compleanno.
Il salotto era sgombero, addobbato a festa. Da un lato c’era un tavolo lungo pieno di cibo e vivande e per l’occasione perfino la cucina sembrava una vera e propria cucina.
« Oh. » commentò imbarazzato « E’… E’ il mio compleanno, è vero. » balbettò poi osservando il coro di uomini che erano sbucati fuori urlando un “Buon Compleanno!”.
Arrossì, voltandosi verso il ragazzo, suo coetaneo. Era la prima volta che a scuola qualcuno si avvicinava a lui per un progetto di scienze.
Di solito i compagni tendevano ad evitarlo come la peste e lui in breve tempo si era ritrovato a dover fare sempre le cose da solo. Ma si era abituato. Era meglio così.
Invece quel ragazzo, appena trasferito da Glasgow, oltre ad avere uno strano accento scozzese, era anche stato il primo che gli aveva seriamente rivolto parola e gli aveva perfino proposto di fare il progetto insieme.
Hamish aveva accettato subito, portandolo a casa dopo scuola per pranzo perché sapeva che i suoi non c’erano.
Invece si erano ritrovati nel mezzo di una festa a sorpresa.
« Ah… Emh… Mi dispiace Ian, mi sono dimenticato del mio compleanno e… »
« Oh, non fa niente. Se vuoi, per il progetto ci pensiamo un altro giorno. »
« No tranquillo. »
John si fece avanti con il suo solito sorriso calmo e si avvicinò a loro.
« Sono John Watson e sono il padre di Hamish. »
« Ah. » il ragazzo sorrise, stringendogli la mano « Piacere. Mi chiamo Ian McGravin e sono in classe con Hamish. »
« Vuoi fermarti da noi Ian? » chiese poi Greg, avvicinandosi.
« Emh… » imbarazzato il ragazzo fissò Hamish, che alzò le spalle « Mi… farebbe piacere. Se non è un disturbo, ovviamente. »
« No! » esclamò Hamish interrompendo Sherlock, che si era avvicinato « No, non è un disturbo. »
« Allora andiamo. » continuò John indicando la tavola piena di dolci e salatini « Mrs. Hudson ha fatto un sacco di torte per te. » concluse per togliere i due ragazzi fuori a ogni imbarazzo.
Hamish tentò di sciogliersi un po’, fra i complimenti, le discussioni e il fatto che Ian continuava a fissarlo, mentre Mycroft tentava di fargli il terzo grado, poco considerato.
Accennò un sorriso timido, alzando due dita in saluto.
Effettivamente, era proprio come gli aveva detto lo zio Greg qualche mese prima.
“Tutto si sistemerà. Le cose cambieranno.”
E infatti, tutto si era sistemato e le cose erano cambiate.
Adesso, finalmente, in meglio.

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