Titolo: The sunset of my life
Fandom: RPF Amuse
Pairing: Kaku Kento x Uehara Tuya
Rating: Pg-13
Avvertenze: Slash
Disclaimer: > I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati. I fatti narrati sono frutto della mia fantasia e nulla di tutto ciò è accaduto nella realtà. La storia non è stata scritta a scopo di lucro.
Riassunto: Uehara Takuya non era il tipo che si lasciava andare ai rimpianti.
Era abbastanza soddisfatto della sua vita, del suo lavoro, degli obiettivi che era riuscito a raggiungere.
Note: Scritta per la
500themes-ita con il prompt “471. Gli ultimi rimpianti” e per
diecielode con il prompt “Tramonto” per la tabella #12 Storie - Tempo
Wordcount: 1613
fiumidiparole Uehara Takuya non era il tipo che si lasciava andare ai rimpianti.
Era abbastanza soddisfatto della sua vita, del suo lavoro, degli obiettivi che era riuscito a raggiungere.
Solo una cosa poteva rimpiangere. Era il suo grande ed unico punto interrogativo e portava il nome di Kaku Kento.
Kento era testardo e orgoglioso, impossibile da piegare o da far ragionare. Si guardava intorno senza realmente preoccuparsi di chi lo circondava e andava avanti per la propria strada. L’unico motivo per il quale Haruma riusciva andarci così d’accordo, ponderò Takuya, era dato dal fatto che riusciva a non farsi coinvolgere da nulla che non fosse sé stesso (e Takeru).
Faceva quel che voleva, diceva quel che voleva e si comportava come voleva.
Rendeva conto solo ed esclusivamente a sé stesso (e a Takeru), quindi fondamentalmente tutto ciò che gli diceva Kento gli entrava da un orecchio e gli usciva dall’altro.
E tanto, tanto avrebbe voluto avere la sua stessa capacità mentre Doori, seduto al tavolo accanto a lui, stava blaterando (anzi, si stava lamentando) della stessa identica cosa.
« …perché Takkun, lui è come una malattia. Un cancro, capisci? Ti entra dentro, ti fa ammalare e poi quando sei morto, spolpato e ridotto all’osso ti abbandona. »
« Mh. » annuì lentamente Uehara, senza una reale voglia di ascoltarlo.
Era uscito con Doori per distrarsi da Kento, non per lanciarsi in una filippica lunga due ore. Per quello, poteva rimanersene tranquillamente seduto a casa sua a bere birra di fronte a programmi scadenti in televisione.
« Takkun, devi comprenderlo. Lasciarlo andare. Riprendere in mano la tua vita e farla tornare sana. Abbandonarlo a sé stesso sarà come prendere degli antibiotici. Ti farà stare male per un po’ all’inizio, ma poi ti sentirai meglio. »
« Mh. »
Rimasero in silenzio per un po’, tempo che Takuya impiegò per annegare quegli ultimi minuti nel suo boccale di birra ancora pieno di schiuma.
« Sono serio. Dovresti allontanarsi da lui. Ti fa solo del male. E non te lo dico solo perché odio il modo in cui ti tratta. Sono davvero, davvero serio. »
Il più grande accennò un sorriso, continuando a fissare la birra.
« Lo so Do-chan. Lo so. Ma poi, perché ti preoccupi così tanto. Lo so che non mi ama. » accennò una risatina « Le cose erano chiare fin dal principio. »
Doori sbuffò, come se stesse parlando con un perfetto cretino e a volte, fin troppo spesso nell’ultimo periodo, Uehara non aveva alcuna difficoltà nel sentircisi.
« Allora dovresti smettere di sperarci, nel suo stupido e malato amore. Anche se ti dicesse di amarti sarebbero solo bugie. Kaku Kento non è in grado di amare nessuno se non sé stesso. »
Takuya rientrò in casa con le parole di Doori che gli vorticavano nella testa. Alla fine aveva bevuto troppo ed aveva optato un rientro sicuro a casa, chiamando un taxi.
Si chiuse la porta alle spalle, inspirando a pieni polmoni l’aria del suo appartamento che iniziava pericolosamente a profumare di Kento e di sesso.
Si passò le mani sul viso, scivolando a terra.
Era soddisfatto della sua vita. Era un attore bravo e un (po’ meno bravo) cantante. Era laureato. Era felice.
Avrebbe voluto essere felice con Kento, ma Takuya giudicò che forse aveva raggiunto il limite massimo di cose in cui avrebbe potuto essere soddisfatto.
Aveva realizzato troppo, in troppo poco tempo e forse la dea della fortuna gli aveva crudelmente voltato le spalle.
Come se il suo periodo d’oro stesse lentamente tramontando dietro una collina, gettandolo in una perenne notte senza nemmeno la luce della luna.
Ad un certo punto sentì dei passi in casa e si rialzò di scatto, asciugandosi gli occhi.
Di fronte a lui, con addosso un veramente poco dignitoso grembiule da cucina, i capelli neri tirati indietro da una fascia rosa e la maglietta sporca di chissà che cosa, vide Kento.
Lo osservò in silenzio per un paio di secondi, prima di scoppiare a ridere.
« Kento, ma che diamine ci fai qua? » domandò.
« Beh, quando mi hai dato le chiavi di casa mi hai detto di venire quando volevo e così l’ho fatto. Sono arrivato, tu non c’eri e allora non deciso di rimanere ad aspettarti. Poi mi è venuta fame perché non avevo cenato e quindi… ho finito di preparare degli onigiri al tonno, ne vuoi uno? » chiese infine.
Takuya cercò di immaginarsi Kento che preparava dei semplici onigiri e la sua immagine lo fece ridere di nuovo. Kento sembrava essere geneticamente incapace di stare in una cucina. Anche riscaldarsi un ramen precotto sembrava per lui un’impresa intramontabile.
Rimasero in cucina in silenzio mentre mangiavano, fino a che il più piccolo non decise di dire qualcosa.
« Umh… dov’eri? »
Takuya si morse un labbro. Tutto quello sembrava così naturale, così familiare, così amorevole, che avrebbe voluto crogiolarsi in quel calore per un po’ prima di venire ributtato senza pensarci due volte nella dura realtà.
« Ero a bere qualcosa con Doori. Ma ho bevuto un po’ troppo e non mi fidava di prendere la macchina. Ho fatto tardo perché ho preso il taxi. »
« Ah, sempre il solito bravo e coscienzioso Takkun. » lo prese leggermente in giro Kento osservandolo.
Aveva dei chicchi di riso un po’ sparsi intorno alla bocca e con mano esitante allungò due dita, pulendolo. Arrossì sotto lo sguardo perplesso dell’altro e decise di distogliere gli occhi, guardando il tavolo.
« E tu invece? Perché sei passato? »
Kento scosse le spalle.
Per un attimo le dolorose parole che gli rivelavano che era passato solo per scoparselo trafissero la mente e il cuore di Takuya e desiderò non avergli mai posto quella domanda.
« Così. Mi mancavi, tutto qua. Volevo vedere quel film in televisione che ti piace tanto, come si chiama? Capitan Harlock? Lo davano sulla tv a pagamento, quella che tu continui a pagare mese dopo mese senza praticamente mai vedere. »
Uehara sentì le guance diventargli rosso fuoco. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, senza sapere bene cosa dire, quindi si limitò a fargli un cenno con la testa.
« Mi dispiace. Se mi avessi chiamato… »
« Ah, non fa nulla. Dovevi uscire con quella piattola di Doori che, come al solito, non avrà fatto altro che parlare male alle mie spalle, no? Sono io che mi sono mosso troppo tardi. » sospirò, quasi con fare teatrale « Però danno la replica fra un po’. Tipo… fra un ora e mezza. E’ notte fonda e forse tu devi lavorare domani. » concluse Kento, liberandolo dall’imbarazzante ruolo di dover fare da pacificatore fra i due amici (anche se Kento era più di un amico, maledizione a sé stesso.)
« No. » esclamò rapido il più grande « No, io… ho la settimana libera. Il butai è finito, le prove per il prossimo iniziano fra un po’ e non ho nessuna uscita programmata. Posso fare tardi quanto voglio. Magari… dopo… » il ragazzo si sentiva la bocca impastata, ma si sforzò di continuare « …ecco, potresti fermarti a dormire qua, che ne dici? »
Kento ponderò la proposta e poi annuì.
« Sì, mi va bene. Ma prima… che ne dici di accompagnarmi al distributore? Ho finito le sigarette. »
Takuya sorrise. Si alzarono in piedi, dirigendosi poi verso l’ingresso e fu là che il più piccolo lo prese alla sprovvista, baciandolo.
Il più grande ricambiò il bacio, circondandogli il collo con le braccia, tirandolo ancora di più verso di sé.
Se Kento doveva essere un cancro, allora lo avrebbe accettato, senza ribellarsi o piangersi addosso, abbandonandosi alle spalle tutti i suoi ultimi rimpianti. Era una malattia che aveva scelto di non curare, dandosi alla morte assistita.
Sapeva che senza di lui non avrebbe trovato nessuna cura, nessun antibiotico. Sarebbe stato male e basta, perché Kento era tutto ciò di cui aveva bisogno per respirare, per sentirsi finalmente bene.
Quando si separarono per riprendere fiato però, vide che Kento lo stava fissando negli occhi.
« Kento…? »
« Takkun, io ci ho pensato a lungo. Per tanto tempo mi sono immaginato di dirti queste cose in un posto migliore dell’ingresso, senza offesa per il tuo ingresso che è carino, ma non mi riesce. Non riesco a trovare un momento adatto. Mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto passare, davvero. Mi dispiace perché io sono stato egoista e vigliacco e non mi sono accorto di quanto stavi soffrendo. Io… » Kento si passò una mano fra i capelli, innervosito.
Takuya lo fissava senza nemmeno respirare. Stava per sentirsi male. Kento lo stava scaricando. Per qualcun altro probabilmente. Qualcuno con meno fisime e paranoie. Qualcuno di più attraente. O femminile. O direttamente per una donna.
Si chiese quanto avrebbe sofferto se lo avesse lasciato. Probabilmente sarebbe morto rapidamente. Con la velocità con cui si muore quando si smette di respirare o il proprio cuore smette di battere.
« … Quindi, il discorso è questo Takkun. A me non me ne frega nulla di quello che ti ha detto quel microbo di Doori. E’ tutto sbagliato, ok? Io… io ti… Ti amo. Voglio stare con te. Sempre. Da adesso in poi. Perché voglio stare sempre con te, perché mi piaci e per un sacco di altri motivi che adesso non saprei nemmeno spiegarti perché sono troppo profondi e… »
Kento smise di parlare.
Ansimava, era arrossito e non lo guardava.
Altrimenti avrebbe capito subito che a Takuya quell’impacciata dichiarazione era la sola cosa di cui aveva realmente bisogno, che desiderava, che agognava con tutto il proprio essere.
Lo strinse a sé, baciandolo ancora e ancora.
« Sì Kenpi. Anche io ti amo. » sussurrò sulle sue labbra.
Le sigarette e il film potevano aspettare.
Takuya era felice.
E andava perfettamente bene così. Con loro due stretti l’uno all’altro, scivolati sul gradino del suo ingresso, mentre per la prima volta aveva trovato la propria casa, il proprio posto dove stare.
Fra le braccia di Kaku Kento.