Titolo: La vita che avremo dovuto vivere insieme.
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Yabu Kota x Inoo Kei ; Takaki Yuya x Chinen Yuri ;
Rating: NC17
Avvertenze: Slash, Death!Fic, Violence, AU!, Under!Age
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Kei non ha mai desiderato una vita migliore perché non sa che cosa significa essere felici. Ma l’incontro con quelli che lo salveranno dal baratro in cui vive da ormai troppi anni gli farà scoprire quello che si è perso fino a quel momento.
Note 1: Scritta per la
500themes_ita con il prompt "186. Ricordi che si srotolano nella mente."
WordCount: 3037
fiumidiparole **
Bussano alla porta di casa mia. Mi alzo a sedere, sentendo la testa che gira e mi guardo intorno, ricordandomi all’improvviso di essermi addormentato per terra, coperto solo dal piumino. Mi metto sulle ginocchia, allungando la mano per accendere la luce sul comodino.
Suonano ancora al campanello e il rumore assordante mi trapana il cervello. Porto le mani alla testa, cercando di fare mente locale. Chi diamine può essere a quest’ora del mattino?
Raggiungo faticosamente la porta, aprendo solo un piccolo spiraglio. Sussulto vedendo Yaotome e Takaki. Il primo spinge la porta all’indietro e io barcollo all’indietro, sorpreso, ma ancora più sorpreso dal poliziotto che tira fuori le manette ed è tempo solo di una frazione di secondo. Gli do le spalle e inizio a correre.
Supero il kotatsu, entrando in bagno e chiudendomi la porta a chiave alle spalle e mentre lo faccio mi chiedo se avrò il tempo materiale per scappare dalla finestra. Tiro su il telaio con le mani che tremano e a piedi scalzi, indossando solo il pantalone del pigiama, scendo le scale antincendio, raggiungendo rapidamente la terraferma.
Sento la voce di Yaotome che mi urla alle spalle, intimandomi di fermarmi, ma lo ignoro. Se riuscisse a raggiungermi la mia vita sarebbe finita. Anche se non dicessi nulla, la
yakuza non si fiderebbe più di me e a quel punto mi ucciderebbe.
Salto il basso steccato che separa il mio condominio da quello adiacente. Quando atterro un dolore soffocante mi mozza il respiro e sono costretto ad interrompere la mia corsa per piegarmi su me stesso, portandomi una mano alle costole, che continuano a farmi male.
Yaotome continua ad urlarmi e io mi costringo ad alzarmi di nuovo per riprendere a correre. Perché non rinuncia e torna ad occuparsi di altri casi? Non comprende che così sta segnando la mia condanna a morte?
La strada che mi porta sulla via principale non mi è mai sembrato così lungo, ma continuo a correre con tutta la forza che ho nelle gambe, mentre i piedi e le costole continuando a farmi male e le ferite che mi hanno fatto questa notte bruciano a causa della tensione della pelle, ma non mi fermo, sono quasi giunto alla salvezza. Se riesco ad attraversare la strada e ad infilarmi in uno dei palazzi abbandonati, sono a posto.
All’improvviso una macchina entra sgommando nella strada e sono costretto a rallentare, pensando che sia Takaki. Eppure, sforzandomi un po’, noto che non è lui.
Dalla macchina, inchiodata a pochi metri da me, esce uno yakuza e non faccio in tempo a fare nulla che mi afferra per le spalle, trascinandomi verso la macchina. Apre la portiera e cerco di ribellarmi, senza successo.
Sento di nuovo la voce di Yaotome che urla di essere un poliziotto e che deve lasciarmi andare. In tutta risposta lo yakuza tira fuori la pistola, puntandola contro di lui e il ragazzo si ferma meno di cinque metri da me.
Rimane immobile, mentre il petto si alza e si abbassa al ritmo veloce del mio respiro, cerco di non distogliere lo sguardo dai suoi occhi e inghiottisco rumorosamente mentre sento lo scatto della sicura e poi la canna fredda che viene appoggiata sulla mia tempia.
Chiudo gli occhi. Va bene così. Una cosa rapida ed indolore. Ma poi sento un colpo che risuona nell’aria e tutto accade troppo velocemente perché io me ne possa seriamente rendere conto.
Il corpo dell’uomo che mi teneva sotto tiro perde equilibrio, cadendomi addosso. Mi scanso. Osservo il suo corpo cadere a terra, per poi rimanere immobile e morto nella pozza del suo stesso sangue.
Sposto lo sguardo, atterrito, verso Yaotome, privo di pistola. Sento il respiro farsi sempre più pesante e trovo sempre più difficile respirare decentemente. Probabilmente mi sta venendo un attacco di panico, che devo a tutti i costi tenere a bada.
Yaotome si avvicina a me, tentando di tranquillizzarmi e a distrarci sono dei passi. Dietro di noi, Takaki sta camminando verso di noi e si inginocchia anche lui al mio fianco, coprendomi con il suo cappotto.
Lentamente mi ricordo che erano venuto a casa mia per arrestarmi e allora allungo silenziosamente le mani verso Yaotome, chinando la testa.
« Su, muoviti. » sussurro con voce roca « Non ho tempo da perdere. »
Lo sento sospirare e poi vedo le manette stringersi intorno ai miei polsi. Per me adesso è ufficialmente finita
Rimango per qualche minuto da solo nella sala degli interrogatori. Mi stringo nel cappotto di Takaki per cercare di smettere di tremare, anche se non so se per il freddo o per l’adrenalina che non ha ancora abbandonato il mio corpo.
All’improvviso nella sala entra Yabu - sensei. Vorrei afferrare una sedia e sbatterla con tutta la forza che ho contro quel sorriso irritante.
Lui appoggia davanti a me una bottiglietta d’acqua e dei panini incartati. Appena li vedo mi ricordo di avere una fame da lupi, ma piuttosto che dargli questa soddisfazione muoio di fare.
Lui non ci fa molto caso e si siede sulla sedia di fronte alla mia e continua a sorridermi sperando in chissà quale miracolo.
« Ti sono stati letti i tuoi diritti? » mi chiede fissandomi e io annuisco « Ti è stato detto perché sei qua? » annuisco di nuovo « Me ne vuoi parlare? »
« Di accuse completamente infondate? » sbotto seccato « Non avete niente per incriminarmi. Tra ventiquattro ore sarò fuori, lo sappiamo tutti e questo vostro interessamento è seccante. »
Lui abbozza un sorriso, quasi per nulla toccato dalle mie parole, si limita a prendere la cartellina che ha appoggiata sotto le braccia, la apre e lentamente tira fuori una foto, sistemandola davanti a me.
Sbianco, senza dire una parola. Nella foto ci sono io, nella stanza circolare, mentre mi spoglio.
Yabu ne sistema altre, l’una accanto all’altro e io non riesco a fare altro che a fissarle, mentre i ricordi si srotolano nella mente in una maniera quasi imbarazzante. Non riesco a pensare a nulla, se non ad ogni singolo episodio legato ad ognuna di quelle foto, marchiati nella mia mente come se avessero usato un timbro a fuoco.
« Sei abbastanza intelligente per capire che cosa significa. » prosegue lentamente Yabu continuando a fissarmi « Stiamo investigando sul giro di prostituzione minorile gestito dal gruppo mafioso “Akai chō”. Tu ne fai parte da cinque anni abbiamo fatto delle ricerche su di te. Se tu non testimonierai contro di loro, i ragazzi saranno costretti a incriminarti per intralcio alla giustizia. »
Rimango in silenzi e lentamente, con le mani che tremano, prendo una foto. Poi un’altra. Poi un’altra ancora. Ogni volta che un ricordo si unisce ad un altro, sento la nausea che sale lungo la mia gola, rendendomi quasi furioso.
Scaglio le foto sul pavimento, ansimando. Stringo una mano a pugno, senza guardarlo.
« Inoo - kun…? »
« Mi uccideranno. » ansimo con gli occhi lucidi « Se dico una sola parola, mi uccideranno, lo volete capire? »
« La polizia ti offrirà la giusta protezione. Se decidi di diventare un testimone, non dovrai più fare queste cose, perché tu non lo meriti. »
« Protezione? » rido, mentre le lacrime mi rigano le guance « Anche se ne arrestate dieci, ne spunteranno fuori altri mille. Si saprà che sono stato io a parlare. L’intero quartiere mi ha visto mentre venivo arrestato. »
« Inoo - kun… »
« No. » lo interrompo « No, non posso. Yabu - sensei, sarà una morte orribile la mia. Lenta e dolorosa. Mi vuoi condannare a questo? » ringhio
« Non puoi continuare a vivere nel terrore. E’ tempo che tu ti lasci tutto alle spalle. Hai diritto ad una vita migliore. Ad una vita più dignitosa. »
Scuoto la testa. Osservo le foto. Ne prendo una, con la mano che trema.
Non avevo mai provato così tanta umiliazione in tutta la mia vita, né così tanta vergogna. Il mio corpo nudo è steso sul pavimento. Un uomo, uno dei tanti, si sta divertendo con me.
Lacrime silenziose continuano a scivolare dai miei occhi. Vorrei fermarle. Eppure, più mi mordo le labbra, più mi sembra difficile impormi un freno.
Yabu si alza e si avvicina a me. Fa per abbracciarmi, ma lo scosto con violenza. Mi alzo in piedi, allontanandomi da lui.
« Non mi toccare. » ringhio « Cosa pretendi di sapere tu di quello che mi accade? Tu stai a casa tua, con la coscienza pulita, con la tua macchina, i tuoi soldi, la tua cena con gli amici. Che cosa ne sai di quello che ho dovuto subire io in questi anni? Cosa? » urlo cercando di contenere la mia frustrazione « L’umiliazione, la vergogna, il disgusto. Cosa ne sai tu di tutto questo? » bisbiglio serrando il pugno sulla foto che tengo in mano.
« Non so nulla infatti. Non so niente di quello che ti hanno fatto, di quello che hai provato. E vorrei che tu ne parlassi con me, così posso capire e posso aiutarti. »
Scuoto la testa, chiedendomi perché, perché non vuole comprendere? Lui sospira, passandosi le mani sul volto.
« Va bene. Direi che è meglio fare una pausa. Che ne dici di mangiare qualcosa? I panini sono squisiti. »
Annuisco lentamente, sentendo tutta la tensione scivolare lungo le gambe. Devo sedermi o rischio di cadere a terra. Allungo una mano, iniziando a mangiare a disagio il panino.
Yabu mi imita, finendolo molto più velocemente di me e quando ha buttato la carta nel cestino, inizia a radunare le foto che ho buttato a terra.
« E’ uno spettacolo penoso vero? » chiedo piano osservandolo.
« E’ più penoso vedere te che accetti tutto questo. » sussurra piano e io scuoto le spalle, senza sapere che cosa dire.
Torniamo in silenzio per un tempo che pare interminabile.
« Inoo - kun, posso parlarti sinceramente? »
Non mi muovo. Rimango in silenzio, immobile, a fissare le mie mani che si stringono l’una sull’altra, appoggiate al tavolo, desiderando solo di poter divorare un altro panino.
« Ci servono i nomi dei clienti che compaiono nelle foto. Per questo non sarai assolutamente messo in mezzo. »
« Va bene. » alzo lo sguardo « Ma non vi basta, vero? »
« Sai, parlavo prima con Yaotome e Takaki e vogliamo proporti una cosa. » mi limito a guardarlo, aspettando la sua proposta « Possiamo farci dare un mandato di perquisizione dal giudice. Ci devi solo dire dove trovare le prove che inchiodano quei criminali. »
« Dovrò testimoniare. » replico piano « Non voglio. »
« No. Se le prove sono sostanziose, non ci sarà bisogno di un testimone. »
Rimango in silenzio fissandomi le mani, per appoggiarci poi la fronte. Pensare è difficile, il cervello è confuso, non riesce più a trovare una linea guida plausibile.
« Promettimi che non farete mai il mio nome. »
« Dammi prove schiacciante e ti prometto che nessuno saprà mai che hai aperto bocca. »
Annuisco e gli prendo il blocco degli appunto dalle mani, appoggiandolo davanti a me. Inizio a scrivere i nomi dei clienti con una calligrafia incerta. Prendo una foto, penso al nome e lo scrivo. Vorrei evitare di guardarle, di guardare me, la situazione disgustosa in cui mi trovo, ma non ci riesci.
Rimaniamo ancora in silenzio e quando finisco appoggio la penna sul tavolo e spingo il foglio verso Yabu.
« Grazie. » mi dice prendendolo e iniziando a leggere.
Lentamente il suo sorriso scompare, mentre scorre la lista. Poi le sue dita si stringono sui lati del foglio.
« Scusami Inoo - kun. Torno subito. »
Rimango da solo. La porta si chiude dietro la sua schiena ancora prima che io possa dire qualcosa.
Quando la porta si apre, davanti a me c’è Takaki.
« Yaotome - san non viene a finire il lavoro di Yabu - sensei? » domando.
Da quando sono entrato alla stazione di polizia, non l’ho più visto. In macchina non abbiamo parlato, tanto era la vergogna che provavo e vorrei scusarmi. Non so esattamente per cose, ma sento la necessità di sentire la sua voce che mi rassicura, dicendomi che va tutto bene, che non mi odia, che non mi disprezza per la vita che faccio.
Vorrei che mi sorridesse, come ha sempre fatto, senza alcuna riserva.
« E’ impegnato a parlare con il suo superiore. Sai, riguardo la sparatoria. » mi risponde lentamente.
« Non capisco. »
« Sai, non avrei dovuto sparare all’uomo che ti teneva in ostaggio. Yaotome - san sta intercedendo affinché non io non venga estromesso dal caso. » si portò una mano dietro la testa, imbarazzato « Ho agito senza pensare. » ammise poi.
« Oh. »
Osservo i panini rimasti e timidamente ne prendo un secondo. Takaki ridacchia, ma mi lascia fare. Bevo anche la lattina di Coca-Cola che mi ha portato il poliziotto. Bussano alla porta ed entra un poliziotto che non conosco. Si avvicina a Takaki, gli dice qualcosa all’orecchio e poi esce di nuovo.
Il ragazzo si scusa, dicendomi che deve andare dai superiori e rimango da solo, ma non per molto, perché Yabu rientra dopo qualche minuto. Si siede davanti a me, tentando di fare conversazione, ma non gli do molti spunti per farlo.
Ad un certo punto allunga leggermente una mano verso il mio volto e mi toglie della maionese dalla guancia. Arrossisco, allontanandomi e chino lo sguardo.
Chino lo sguardo.
« Grazie per il pasto. » mormoro.
Lui si appoggia allo schienale della sedia. Socchiude gli occhi. Poi mi guarda.
Allunga il foglio con la penna verso di me.
« Ora puoi dirci dove possiamo trovare le prove per inchiodare definitivamente l’organizzazione? » mi chiede, sempre gentilmente.
Non lo guardo, mentre sento che il cuore continua a battermi troppo velocemente nel petto. Prendo la penna in mano e poi tento di fare mente locale, cercando di ricordarmi ogni singolo oggetto. Scrivo tutto quello che so e dopo quella che mi è parsa un’infinità di tempo, spingo il blocco verso di lui, sperando che gli basti.
Lo vedo sorridere, più sinceramente di prima e mi sento un po’ meglio. Almeno prima di morire avrò fatto qualcosa di decente nella mia vita.
Yabu si alza in piedi, infilando tutto nella cartellina, che consegna diligentemente ad una guardia di fronte alla sala degli interrogatori. Poi si volta verso di me, indicandomi la maglietta.
« Stai sanguinando dalle ferite alla schiena. Andiamo a farti medicare, che ne dici? »
« Schiena…? » mormoro stupito.
Lui mi fa segno di voltarmi verso lo specchio. Gli obbedisco. Piccole linee orizzontali di sangue macchiano la maglietta e sussulto.
Vorrei dire qualunque cosa per giustificarmi, ma dalla mia gola non esce alcun suono e il più grande si affretta a togliermi dall’imbarazzo.
« Non è un problema. Da adesso in poi non dovrai più preoccuparti di queste cose. » indica la porta « Adesso andiamo, si è fatto tardi. »
Annuisco, sperando che tutto stia andando per il meglio, cercando di ignorare la strana
strana sensazione che mi attanaglia la bocca dello stomaco e purtroppo ormai, ho imparato a fidarmi.
Entro nella macchina di Yabu in silenzio, mentre lui si siede dalla parte del guidatore, senza mostrare disagio di fronte al mio atroce silenzio. Accende il motore e ingrana la prima, avviandosi a ritmo sostenuto lungo la strada.
Arriviamo ad una clinica privata, ma nonostante ciò l’attesa è abbastanza lunga e ci ritroviamo così seduti in sala d’aspetto. Lui cerca di fare conversazione e io cerco di rispondere in maniera meno sgarbata di quello che vorrei.
« Cosa ti piacerebbe fare? » mi chiede ad un certo punto.
In silenzio mi fisso le mani. Sono sempre state troppo curate per essere quelle di una puttana. Me lo dicevano in tanti.
« Mi piace disegnare. » rispondo piano, quasi assorto « Quando ho qualche minuto libero... ci provo. » concludo.
Ninomiya annuisce.
« Sei bravo? » domanda poi e io alzo le spalle.
« Non lo so. Non li ho mai fatti vedere a nessuno. Non ho… nessun amico. » aggiungo titubante mordendo un labbro.
Mi dà fastidio rispondergli, fargli sapere tutte queste cose di me. Non voglio la sua pietà o la sua compassione.
Vorrei che la smettesse di guardarmi come se fossi un cucciolo abbandonato in cerca di attenzioni dato non sono né l’uno né l’altro.
So benissimo vivere da solo, senza nessuno che mi aiuti. So farmi compagnia con le poche cose che ho. Un po’ di musica, rubata da commercianti che fanno finta di non vedere, un po’ di disegno.
Questi sono i miei minuti, ritagliati da ore di violenze e di soprusi.
I minuti dove mi accoccolo sotto il kotatsu, da solo. Dove chiudo gli occhi e permetto al mondo intorno a me di non farmi più del male.
Sospiro.
« La lista dei clienti che ho scritto era così importante? » chiedo per cambiare argomento e per smorzare la tensione « Sei scappato come una scheggia. »
Lui continua a sorridere.
« Hai fatto la cosa migliore nel darci quelle informazioni. » risponde, evitando di guardarmi e darmi una risposta seria.
Annuisco, semplicemente perché non ho le forze per buttarmi in una discussione dove mi vedo già sconfitto in partenza.
Un’infermiera chiama il mio nome e mi alzo seguendola. Yabu mi imita ed entriamo nella stanza del dottore insieme. Io gli lancio un’occhiataccia, ma lui finge di non vederla e rimane accanto a me.
Mi tolgo la maglietta e mi sdraio sul letto. Il dottore trattiene un attimo il respiro, ma probabilmente Yabu deve aver fatto cenno di continuare, perché inizia a medicarmi.
La sua mano non è così delicata come mi aspettavo, ma mordo il cuscino con tutta la forza che ho nel corpo e cerco di non urlare quando mi disinfetta le ferite o quando mi fascia la schiena.
Poi passa ai piedi, rimasti feriti durante la fuga da Yaotome, e Yabu mi porge delle scarpe.
Lo ringrazio con un cenno del capo e quando il dottore sistema l’ultimo cerotto infilo dei calzini e poi mi allaccio le scarpe, rimanendo seduto sul lettino con le gambe che penzolano, quasi come se fossi in attesa del mio verdetto.
« Inoo - kun, puoi aspettare un attimo fuori? » mi chiede il dottore « Vorrei parlare con Yabu - sensei. »
Fisso l’assistente sociale, come ad aspettare una conferma.
« Vai, ti raggiungo subito. » mormora con tono rassicurante.
Annuisco. Esco e torno nella sala d’aspetto.
Sbadiglio, mentre lo aspetto. Mi appoggio alla sedia, socchiudendo gli occhi.