[Hey!Say!Jump] La vita che avremo dovuto vivere insieme [02/ ?]

Nov 30, 2012 20:16

Titolo: La vita che avremo dovuto vivere insieme.
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Yabu Kota x Inoo Kei ; Takaki Yuya x Chinen Yuri ;
Rating: NC17
Avvertenze: Slash, Death!Fic, Violence, AU!, Under!Age
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Kei non ha mai desiderato una vita migliore perché non sa che cosa significa essere felici. Ma l’incontro con quelli che lo salveranno dal baratro in cui vive da ormai troppi anni gli farà scoprire quello che si è perso fino a quel momento.
Note 1: Scritta per la 500themes_ita con il prompt "465. Il percorso di un bambino"
WordCount: 3146 fiumidiparole

**


Yaotome e Takaki continuano ad importunarmi con una costanza quasi spaventosa
Potrei denunciarli per persecuzione. Sarebbe divertente e allieterebbe le mie giornate sedentarie. Non c’è niente da fare in ospedale.
Effettivamente, anche se arrivano agli orari più disparati, Yaotome e Takaki rappresentano l’unico momento di divertimento nella giornata.
Finalmente ho avuto il permesso per alzarmi dal letto e abbozzare qualche passo. Mi hanno dato le stampelle e ho imparato quasi subito a muovermi con quelle come unico punto di appoggio. L’infermiera si lamenta, dicendo che non dovrei sforzarmi troppo, ma non la sto ad ascoltare.
Nonostante il dolore alle costole sia spesso lancinante, non riesco a rimanere immobile a letto per tutto il giorno.
Il giorno dopo il nostro primo incontro, Takaki mi ha portato tutta la serie che aveva appoggiato sul mio comodino e me la sono letteralmente divorata, più di una volta tanto è bella.
So che cercano di scalfire il muro di silenzi che ho eretto intorno a me per farmi denunciare tutto quanto.
So che non sono realmente interessati a me. So che vogliono solo mettere in prigione una lunga lista di pedofili.
So che una volta ceduto, loro perderanno qualunque interesse nei miei confronti.
Ma è bello finché riesco a farlo durare. E’ bello quando li sento ridere, cercando di convincermi che ci sono davvero altre alternative alla mia vita oltre il ricercare la morte. Che forse non tutti soffrono e che si può davvero essere sempre allegri e sorridenti come lo è Yaotome e che ci sono persone che ancora riescono ad imbarazzarsi per un sorriso seducente come Takaki.
Mi avvio faticosamente verso l’area comune del mio piano, dove ci sono le macchinette automatiche. Il dottore mi ha detto di non affaticarmi troppo e di non mangiare schifezze, ma non ne posso più del cibo insipido che mi portano a pranzo e a cena.
Mi frugo nelle tasche, cercando gli spiccioli che ho preso prima di lasciare la mia stanza.
Mi fermo a fissare il cibo nella macchinetta, cercando di decidermi.
Brioches, crostatine, focacce e merendine. Succhi di frutta, Coca-Cola, svariati tipi di tè.
Sbuffo, indeciso quando all’improvviso sento la voce di Yaotome che mi chiama. Mi volto.
Davanti a me, che si avvicinano, ci sono i due poliziotti.
Yaotome e Takaki si stringono intorno a me e iniziano a chiacchierare come sempre, facendo più casino che altro e io ridacchio, sentendomi purtroppo bene quando sto con loro.
Penso che sia la prima volta in tutta la mia vita, che desidero così intensamente una vita migliore.
Per avere accanto persone come loro, perché mi fanno sentire bene e iniziando a diventare quasi indispensabili.
« Oggi ti dimettono, vero? » mi chiede piano Takaki e io annuisco.
« Sì. Però devo portare le stampelle ancora per qualche giorno, fino a che il dolore alle costole non diminuisce. » rispondo senza guardarlo e spostando la mia attenzione sul cibo.
Forse non mi sarei dovuto attaccare così tanto a loro. Può essere già troppo tardi?
Mi appoggio con fare provocante contro il braccio di Takaki. Lui sussulta, avvampando e si allontana velocemente, quasi nascondendosi dietro Yaotome.
Ridacchio di nuovo, decidendo infine per una focaccia.
Mentre Yaotome ride per quella scena, mi avvio lentamente verso la mia stanza.
I due poliziotti mi seguono, mentre i due continuano a punzecchiarsi.
Mi lascio cadere sul letto, esausto. Nonostante tutto, forse avrei dovuto ascoltare il dottore e non sforzarmi così tanto.
« Tornerai a casa allora. » commenta Yaotome.
Sfodero un sorriso. Uno di quelli falsi. Che lui ci creda o meno, non è affar di mia competenza.
« Sì. » mi limito a dire.
« Allora per festeggiare la tua dimissione potremo andare a mangiare tutti insieme. Che ne dite? In qualche ristorante di ramen. Inoo - kun, mi pare che sia il tuo piatto preferito, vero? » domanda emozionato Takaki rivolgendosi verso di me.
Rimango un attimo perplesso. Probabilmente lui è il primo che si ricorda di queste cose prive di alcun senso su di me.
Si ricorda tutto e ha una memoria eccezionale.
Cerco di mascherare il mio imbarazzo, forse senza riuscirci molto bene.
« Sì, lo amo. » rispondo lentamente « Perché no? Tanto dopo non vi vedrò più. Meglio divertirci, no? »
I due non mi rispondono. Io evito di guardarli, mentre appoggio le stampelle contro il comodino e mi sdraio.
« Perché non dovremo più vederci? » mi domanda piano Yaotome.
Abbozzo un sorriso e alzo le spalle.
« Siete tutti uguali voi poliziotti. Alla fine vi stancherete di me e mi abbandonerete. Quindi, prima che ciò accada, vi lascerò io. Non è meglio così? »
Alzo lo sguardo e lo vedo passarsi una mano sul volto, poi fra i capelli. E’ incredibilmente serio, come non l’avevo mai visto. Il collega al suo fianco invece, rimane in silenzio per qualche attimo, il volto latteo.
« Perché? » mormora senza parole « Perché pensi questo? »
« Takaki - san, siete stati gentilissimi con me. Davvero. Vi ringrazio dal più profondo del cuore. Ma accadrà. E’ già successo in passato e voi purtroppo non siete diversi da tutti gli altri. »
« Invece lo siamo. » replica Takaki « Non siamo venuti a trovarti tutti i giorni per pietà o compassione. Vogliamo davvero aiutarti. E fino a che tu ti ostinerai a dire che tutto questo ti è capitato per uno stupido “gioco erotico” noi ti staremo vicino. Fino a quando non ti fiderai abbastanza per dirci la verità e per farti aiutare. Anche questo fa parte del nostro lavoro e almeno io sono intenzionato a svolgerlo per il meglio. »
Ansima. Ha parlato troppo velocemente, senza riprendere fiato. Cerca di trattenere le lacrime e io a quel punto abbozzo un sorriso.
Per quanto so già che tutto questo un giorno molto vicino ad oggi finirà, è così sbagliato cercare di afferrare quanta più felicità possibile e tenersela stretta?
« Allora questa sera pagate voi vero? Da bravi senpai. »
Yaotome ridacchia.
« Certo. Con che cuore invitiamo a pranzo un ragazzo e poi lo facciamo anche pagare? »
« Puoi mangiare tutto quello che vuoi. Il ramen è buonissimo. »
Annuisco, lentamente.
« Il dottore mi ha detto di riposarmi prima di lasciare l’ospedale. » dico piano socchiudendo gli occhi « Posso dormire un po’? » chiedo sbadigliando, sentendo improvvisamente la stanchezza colpirmi, effetto un po’ in ritardo dell’anestesia che mi ha fatto l’infermiera.
Yaotome mi sorride, poggiandomi la mano sulla spalla.
« Certamente. Ti passiamo a prendere noi con la macchina. Tu per adesso non devi pensare a niente. »
Non rispondo. Quando loro lasciano la mia stanza, mi sono già addormentato.

Quando esco dall’ospedale, i due poliziotti mi stanno aspettando sulla strada. Uno dei due apre lentamente il bagagliaio, ascoltando preoccupando qualche scricchiolio che fa sorridere.
Poso la borsa con i miei effetti personali nella macchina e poi entro, sistemando a terra le due stampelle. Li ascolto chiacchierare di cose che non hanno senso, passano dal cibo, alle partite di calcio e di baseball, ma quelle sciocchezze mi fanno, in qualche modo, stare bene.
Arriviamo in poco tempo al ristorante.
E’ piccolo, quasi intimo. Pochi tavoli e una famiglia apparentemente felice che lo gestisce. Due bambini piccoli corrono fra i tavoli, ricorrendosi fra di loro. La madre cerca di rimproverarli, ma senza alcun successo. I due scappano al piano di sopra.
Non c’è molta gente. Un paio di coppiette sono seduti ai tavoli più appartati del ristorante. Poco lontano dall’ingresso, in quei tavoli solitamente impiegati per dei piccoli gruppi, c’è solo un ragazzo, probabilmente della stessa età di Yaotome e di Takaki.
Forse ha l’aria un po’ stanca e sorseggia una birra, fumando una sigaretta. Sta leggendo una rivista, senza mostrare però particolare interesse.
« Kota! » urla Aiba sbandierando una mano.
L’uomo alza la testa e ci sorride.
Aggrotto le sopracciglia. Da quanti anni si conoscono per permettersi di chiamarlo solo con il nome di battesimo? Anche se queste considerazioni con Yaotome sono quasi superflue. Mi conosce da poco più di una settimana e ogni tanto si diverte a chiamarmi Inoo - chan, come se fossi un suo amico intimo.
Lo raggiungiamo al tavolo. Yaotome si siede accanto all’uomo, Takaki si siede nella panca di fronte, appoggiandosi con una spalla al muro.
Io rimango un attimo interdetto, prima di sedermi al suo fianco e ascolto i tre ragazzi parlare fra di loro.
Io continuo a guardarmi intorno. I bambini sono tornati e si sono seduti in un tavolo vicino al bancone a disegnare, rumorosi come solo dei bambini felici sanno essere.
Accenno un sorriso. Sembrano felici, nel loro semplice far nulla, nel loro punzecchiarsi a vicenda, nel loro costante ridere senza alcun senso.
« … Inoo - kun? » la mano di Yaotome si posa sulla mia spalla e, preso alla sprovvista, la schiaffeggio violentemente.
Lo guardo, cercando di capire esattamente che cosa ho fatto. Quando lo guardo, con gli occhi leggermente sbarrati, sbianco.
« Scusami. » mormoro con voce strozzata « Non volevo farti del male. Mi dà fastidio essere toccato all’improvviso e io non... » mi mordo un labbro « Mi dispiace. » mormorò chinando leggermente la testa.
Yaotome torna a sorridere, agitando la mano.
« E’ colpa mia. Non avrei dovuto, hai ragione. » alza il menù « Cosa vuoi mangiare? »
Ne prendo uno a mia volta, sfogliando lentamente le pagine che mi ritrovo davanti. Saranno anni che non entro in un ristorante, al sensazione mi riporta con la mente a momenti più felici, quando non avevo ancora conosciuto la crudeltà del mondo.
Quando ero solo un bambino che non aveva ancora intrapreso quel percorso di violenza e dolore che avrebbe poi caratterizzato tutta la mia vita.
Riusciamo ad ordinare, in maniera un po’ caotica, molto in stile Takaki e Yaotome. Vorrei prendermi una birra, ma tutti e tre me lo impediscono e io sbuffo, borbottando fra me e me.
Ripiego allora su una semplice Coca-Cola e su una ciotola di tonkatsu, una tipologia di ramen a base di brodo di maiale, uno dei miei preferiti e un piatto di gyouza, i ravioli cotti alla piastra.
Yabu, così si chiama il ragazzo che ha salutato Yaotome all’ingresso, ogni tanto mi fa delle domande, alle quali cercavo di rispondere rimando sul mio vago possibile.
“ Allora Inoo - kun, quanti anni hai? ”, “ Sei andato a scuola? ”, “ Che ti piace fare nel tempo libero? ”
Quale tempo libero? Quale scuola? Non ho mai frequentato una scuola da quando mio padre mi ha venduto alla yakuza, vendendo me, il suo unico figlio, per avere salva la pelle.
Non ho mai avuto particolari hobby, se non quello di rimanere in vita il più possibile.
E poi, non so ne chi sia, né che cosa voglia da me, ma certo è che gli rispondo così come vorrebbe. Non è mia abitudine parlare con degli estranei della mia vita.
Non voglio vedere nei loro occhi la compassione o la pietà di chi si ritrovava davanti a sé un anima reietta.
Quindi mi limito a sorridere. A volte un sorriso sarcastico, altre volte seccato, altre volte un po’ più seducente, o ancora, un sorriso un po’ più affabile.
I miei monosillabi non lo scoraggiano, ma forse non lo scoraggerebbe nemmeno una frane di massi in caduta libera sulla sua testa.
Sembra che si diverta nel farmi questa sorta di interrogatorio mascherato da conversazione amichevole. Ha un tono di voce basso e pacato, quasi familiare, talmente tanto che mi veniva solo voglio di detestarlo.
Vorrei che rimanga in silenzio il più a lungo possibile. O che torni, al limite, a parlare degli affari suoi con Yaotome e Takaki.
Che m’ignori, che faccia finta che io in realtà non sia seduto al suo stesso tavolo.
Invece no, continuava a parlarmi, a cercare di capirmi, con quel suo sorriso rassicurante, quasi come a volermi dire che di lui mi posso fidare, che sarebbe andato tutto bene.
Beh, mi dispiace Yabu - sensei. So che sei un assistente sociale, so che è il tuo lavoro, comprendo tutto.
Ma non ho assolutamente intenzione di parlarne. Né con te, né con i tuoi amici poliziotti e con nessun’altro. Alla sua ennesima domanda, alzo la testa dalla ciotola di ramen con un sorriso che lo stupisce.
« Yabu - sensei, credo che sia arrivata l’ora di smetterla. Perché non pensa alla sua di vita, invece che cercare di investigare nella mia? » gli chiedo seccato « Se è così tanto amico di Yaotome - san e di Takaki - san, sicuramente le avranno già detto che non ho nulla di dirle. E’ inutile che continua a perdere il suo tempo con me. »
Mi arrabatto nel prendere le stampelle il più velocemente possibile. E’ insopportabile, la sua sola vista mi fa perdere le staffe.
« Accidenti. Avevi ragione Yuya, è davvero un ragazzaccio. » commenta lui affabile.
Lo ignoro, mordendomi un labbro. Lascio il locale, con tutta la velocità che posso raggiungere. Esco sulla strada, l’aria fredda della sera mi risveglia, facendomi ricordare del perché non dovessi mai fidarmi di nessuno, se non di me stesso.
Mi avvio lungo la strada principale. Troverà sicuramente qualcuno disposto a portarmi a casa. Non ho soldi, ma questo negli ultimi tempi non è mai stato un problema. C’è sempre qualcuno disposto ad accompagnarmi a casa in cambio di un pompino o di una scopata.
Nervoso e con gli occhi lucidi per lo squallore che ho raggiunto, continuo a camminare, ignorando Yaotome che mi chiama a gran voce.
Si ferma davanti a me, ansimando. Mi fermo a mia volta, roteando gli occhi.
« Inoo - kun, fermati. Fammi spiegare. »
« Spiegare cosa? » gli urlo « Ti avevo detto di non voler parlare con nessuno, che non avrei detto niente a nessuno. »
Perché mi sento così tradito? Perché per l’ennesima volta sono stato ingannato? Non avrei dovuto riporre così tanta fiducia in loro, non avrei dovuto credere che sarebbero rimasti fermi, nel vedere un sedicenne che si prostituisce e che è finito all’ospedale, in punto di morte.
Sono stato uno stupido e un ingenuo nello sperare di poter essere lasciato in pace, libero di uccidermi e di agognare la morte come desideravo.
« Avrei dovuto far finta che tu non avessi niente o le ferite che ti hanno portato all’ospedale? Non potevo. Né in quanto poliziotto, né in quanto essere umano. Mi dispiace se il mio comportamento ti ha ferito così tanto Inoo - kun. Vogliamo solo aiutarti. »
« Aiutami rimanendo in silenzio allora. » mormorò sentendo le lacrime che mi rigano le guance e mi maledico per questo pianto perché dimostrano che sono più debole di quello che penso.
« Non posso e lo sai. »
« Mi dispiace. Allora credo che le nostre strade si divideranno prima del previsto. »
« Non lo permetterò. Riuscirò a salvarti, che tu lo voglia o meno. »
Accenno un sorriso stanco e scuoto la testa. Non riuscirei a scappare nemmeno se lo volessi. Yaotome è più forte, più veloce di me. E specialmente in salute.
Dal fondo della strada arriva un taxi, lo fermo e salgo nel sedile anteriore, accanto all’autista. Yaotome non fa nulla per fermarmi e mentre chiudo la porta accenno un sorriso.
Quasi quasi ci avevo sperato.
« Addio Yaotome - san. Grazie di tutto. La cena era buonissima. »
Lui non replica.
Mentre la macchina riparte, mi lascio ricadere sul sedile socchiudendo gli occhi.
Mi dispiace, ma questo era l’unico modo in cui poteva finire.

Sono passate due settimane e alla fine la mia vita è tornata a bussare alla porta, come se fosse alla ricerca di un pegno che non ho ancora finito di pagare. Il giorno dopo aver discusso con Yaotome al ristorante, i miei capi sono venuto a prendermi. Nel giro di poche ore sono tornato al lavoro di sempre e, come ogni giorno, a nessuno di loro è importato che le costole fossero ancora rotte o che sul mio volto spiccassero ancor i lividi di Takeshi.
A nessuno, in fondo, importa mai niente di me. Sono qui per prostituirmi e lo farò, che io lo voglio a meno.
Non ho ben chiaro il tempo che è trascorso da quando la ruota della mia vita ha ripreso a scorrere a ritmi a lei più congeniali. Come mi capita sempre più spesso negli ultimi tempi, riesco ad estraniarmi quando sono con i clienti.
Esattamente come in questo momento, dove mi ritrovo sdraiato sul letto di uno squallido motel e fisso apaticamente il soffitto, mentre il mio corpo viene mosso ritmicamente su e giù.
I gemiti dell’ennesimo uomo riempiono l’aria, mentre il mio unico compito è quello di rimanere in silenzio, di non fare altro che accontentare ogni capriccio del cliente.
So già cosa mi aspetta se non lo faccio.
Non sarà il cliente a punirmi, bensì la yakuza stessa. Il club non può permettersi di perdermi, quindi si limiterebbero a picchiarmi. Per farmi capire che non posso ribellarmi, che io appartengo a loro e che possono fare di me qualunque cosa.
Si limiterebbe a prendere possesso del mio corpo. Uno dopo l’altro. O tutti insieme.
Come accadde tanti e tanti anni fa.
“ Ti servirà a farti abbassare la cresta. ”
Così mi dicevano.
E allora stavo in silenzio. E mi sono adeguato, ormai da tanti, da troppi anni.
L’avevo capito subito che cosa mi aspettava.
Ero piccolo, troppo piccolo per essere destinato a questo mondo. Avevo circa undici anni e io ancora non comprendevo che cosa potesse accadermi di peggio di rimanere senza una madre all’improvviso.
Ma poi ho imparato e da quel giorno è stato un lungo susseguirsi di scene entrate ormai a far parte della mia quotidianità.
Sono salito di livello grazie ai clienti che non hanno fatto altro che chiamarmi, chiamarmi, chiamarmi, comprandomi per cifre esorbitanti.
Venivo e vengo tutt’ora buttato ogni santissimo giorno in una stanza circolare, tappezzato di specchi e tutti sappiamo che dietro ognuno di questi si trova una stanza, dove vi entrano al massimo due o tre persone.
Le quattro telecamere, situate intorno al centro, puntano tutte su di me. Io devo solo muovermi e spogliarmi, lentamente, come se fosse uno spogliarello.
E dentro le stanze segrete, atte a preservare la privacy dei clienti, c’è qualcuno che fa la sua offerta. Una specie di asta online, illegale, tesa al riciclo di denaro sporco e istigazione alla prostituzione minorile.
Chi offre di più, vince l’asta. Ed è in quel momento che per me inizia la morte, quando sento il cliente comunicare per quanto vuole tenermi, se per due ore, un giorno, una settimana.
Più è alto il prezzo che ha offerto, più mi vuole tenere.
Più è alto il prezzo che ha offerto, più soffrirò e questa è una cosa che ho imparato presto e alla quale mi sono abituato.
Da piccolo facevo di tutto per non morire. Mi aggrappavo ad ogni speranza, con le unghie, con i denti. Serravo gli occhi e speravo che tutto finisse in fretta, speravo di tornare nella mia stanza, nel mio futun, a piangere, a medicarmi le ferite.
Adesso non provo più nulla, se non rassegnazione. Ogni volta che mani estranee mi toccano, cerco di non pensarci. Faccio volare la mia mente verso posti stranieri, esotici, che non ho mai visitato.
Cerco di pensare ai miei cibi preferiti, ai miei libri, ai miei fumetti. Cerco di convincermi che non sono realmente presente.
Che è solo un contenitore quello che stanno toccando, che in realtà quello che mi stanno facendo non ha alcun valore, che non sto male, che non soffrendo e che tutto il dolore che provo, in realtà è solo frutto della mia immaginazione.

challenge: 500themes ita, pairing: yabu x inoo, fandom: hey!say!jump, pairing: takaki x chinen, pg: yaotome hikaru

Previous post Next post
Up