С падением советского коммунизма Италия, пережившая в двадцатом веке один фашистский режим и мечтавшая о другом, правда, "с человеческим лицом", как будто у режима Муссолини не было "человеческого лица", потеряла важнейшую идеологическую (или лучше сказать, душевную) опору и начала заново открывать для себя Шаламова, который из категории антисоветской и антикоммунистической литературы перешел в разряд просто литературы, достойной издания и прочтения. В первой половине девяностых годов
несколько итальянских издательств выпустили сборники шаламовской прозы, удостоившиеся некоторого внимания критики. Ниже подборка газетных и журнальных рецензий указанного периода, имеющих электронную версию. Для владеющих итальянским.
Luciano Bona, рецензия на сборник Varlam Salamov "I racconti di Kolyma", газета "L'Unione Monregalese", Mondovì, 23-04-1992, p. 3
Tino Cobianchi, рецензия на сборник Varlam Salamov "I racconti di Kolyma", газета "Il Popolo", Tortona, 24-05-1992, p. 11
Файл со статьей на портале Internet Archive Ruggero Puletti "Dal gulag di Kolyma una disperata denuncia del terrore comunista", "Avanti!", Martedi 9 Giugno 1992, стр. 23
Файл со статьей на портале Internet Archive Bruno Mozzone, "Salamov, prigionia e scrittura", газета "Corriere del Ticino" (Муццано, кантон Тичино, Швейцария), Martedì 25 Agosto 1992, стр. 35
Файл со статьей на портале Internet Archive Per Paolo Farné. "Varlam Salamov, I racconti di Kolyma, Sellerio, 1992, introd. di Victor Zaslavsky, trad. di Anita Guido", "SLAVIA. Rivista trimestrale di cultura", №1, Ottobre-Dicembre 1992
"Uno scrittore all'inferno. Salamov, grida dal Gulag", "Corriere della Sera", sabato 05 dicembre 1992 (доступ платный)
Gian Piero Piretto. "VARLAM SALAMOV, I racconti di Kolyma, introd. di Victor Zastavskij, Sellerio, Palermo, 1992, trad. dal russo di A. Guido", "L'Indice dei libri del mese", №10, novembre 1992, Napoli
GIANNI CORBI. "L' INFERNO PIU' OSCENO SI CHIAMA KOLYMA", la Repubblica, 14 novembre 1992
L' universo concentrazionario staliniano ha avuto molti biografi e disperati cantori. Una tragedia che dalle carceri moscovite della Lubjanka, della Taganka, di Butyrka, si estese fino ai lembi più estremi e desolati dell' impero sovietico. Varlam Salamov di cui sta per uscire un impressionante reportage (Nel lager non ci sono colpevoli, Theoria, pagg.171, lire 24.000) ebbe la sventura di sopravvivere per quindici anni nel peggiore di questi campi - Kolyma - che Solgenitsyn definì l' ultimo girone del sistema concentrazionario. Kolyma un buco nero, un imbuto grande quanto l' intera Ucraina, dove la temperatura può scendere a meno 70 gradi, dove nell' inverno il sole non si leva affatto e i suoi malcapitati abitanti hanno scritto: "Kolyma, meraviglioso pianeta, dodici mesi d' inverno, il resto estate". Qui, nel corso di una sola generazione, trovarono la morte più di tre milioni di persone. Salamov, arrestato la prima volta nel 1929 per una vaga accusa di trotzkismo, rimarrà a Kolyma dal 1937 al 1953. Il suo racconto è unanimemente considerato così valido che lo stesso Solgenitsyn afferma di aver volutamente escluso il mondo di Kolyma dal suo Arcipelago Gulag poichè tutto quello che c' era da dire su quegli orrori lo aveva già fatto egregiamente Salamov. La Kolyma di Salamov è un mondo rarefatto, compresso, dove i personaggi si muovono come in stato di trance, preoccupati soltanto della propria sopravvivenza immediata, del tutto indifferenti a tutto ciò che accade al di là dei muri e dei reticolati. Una introspezione ossessiva, sorprendentemente simile al comportamento dei detenuti nei lager tedeschi o, in tempi più recenti, a quello delle vittime dei khmers rossi in Cambogia. I pianificatori dei campi, a Kolyma come a Dachau, sono come dominati da una smodata voglia di ordine, di continuità, di gerarchia, di riti da rispettare, di elenchi da tenere in bell' ordine. Scrive Salamov: "Tutti quelli che non erano stati eliminati alla serpantinnaya, il carcere del Dipartimento minerario dove avevano fucilato decine di migliaia di persone coprendosi col rombo dei trattori, venivano fucilati in base agli elenchi: gli elenchi erano letti al suono dell' orchestra, della banda, quotidianamente, due volte al giorno, allo scadere del turno diurno e notturno". Non c' è campo di concentramento o di sterminio senza i suoi kapo. E la Kolyma non fa eccezione. "La Kolyma, e non solo la Kolyma", spiega Salamov, "si distingue per il fatto che tutti là sono dei capi, tutti. Perfino una piccola squadra di due persone ha un capo e un vice...il caposquadra è una sorta di capofamiglia, colui che sfama la squadra, che la disseta...". Ma il kapo è soprattutto uno strumento "della politica statale, un mezzo per l' eliminazione fisica dei nemici politici dello Stato...". La Kolyma è anche il Klondike di Stalin, la preziosa miniera dalla quale si ricavano le tonnellate d' oro necessarie per finanziare i grandiosi piani di industrializzazione forzata. Lo stakanovismo, cioè la produttività spinta all' estremo, era dunque la prima regola del Klondike staliniano. Ma non era facile raggiungere un risultato così ambizioso in una regione dove "il clima è rigidamente continentale, il freddo invernale raggiunge i 60 gradi sotto zero e con 55 si andava a lavorare". La tecnologia, anche quella più primitiva, era del tutto inesistente, ma gli ingegneri di Stalin trovarono in un attrezzo primordiale l' arma vincente. Era la vecchia antidiluviana carriola al cui elogio, e alla cui maledizione, Salamov dedica uno dei capitoli più intensi. La carriola del detenuto, scrive Salamov, fu il simbolo, l' emblema, lo stesso modo di essere delle anime morte della Kolyma. Questa macchina preistorica diventa un tutt' uno con il corpo del prigioniero: "Il carriolante non vede la ruota ma deve sentirla, tutte le curve si fanno alla cieca, dal principio alla fine del percorso. I muscoli della spalla, dell' avambraccio servono a girare, a scostare, a spingere la carriola su per il tratto finale... Finché questo movimento, questo impulso di forza sulla carriola, sulla ruota non ti viene automaticamente, non sei ancora un carriolante...". Nell' imbuto nero della Kolyma è impossibile persino accennare ad un sorriso, e Salamov se la prende con chi sostiene che anche sul lager si dovrebbe poter scherzare. Una impresa impossibile, addirittura oscena, sostiene Salamov, poiché il "tema del lager non può diventare un soggetto per umoristi. E non sarà mai oggetto di humour, né domani, né tra mille anni. Non sarà mai possibile accostarsi con un sorriso ai forni di Dachau, ai cunicoli della serpantinnaja". Anche le situazioni che di per sé avrebbero potuto suscitare un sorriso, ammonisce Salamov, erano in realtà avvenimenti mortali, lontani mille miglia da una qualsiasi forma di humour. Un esempio è l' episodio di cui Salamov fu testimone nella primavera del 1938, nella cava della miniera d' oro Partizan: "Una guardia, menando il fucile, urlava a un mio compagno: ' Fammi vedere la merdaé E' la terza volta che ti siedi. Dov' è la merda?' , e accusava il moribondo ' relitto' di simulazione. Di merda non ce n' era. Il ' relitto' Sereza Klivanskij, mio compagno di università, secondo violino del teatro ' Stanislavskij' , sotto i miei occhi, durante la defecazione a sessanta gradi sotto zero, fu accusato di sabotaggio, di riposo illegittimo". Poi, con la morte di Stalin nella primavera del 1953, arrivò l' amnistia passata alla storia come "l' amnistia di Berija". Il testo, annota con un sogghigno Salamov "fu stampato a Magadan e spedito in tutti i più remoti angoli della Kolyma, in modo che la riconoscente umanità del lager sentisse, gioisse, apprezzasse e ringraziasse devota...". Il disordinato esodo dai campi ebbe code tragiche. Una in particolare che Salamov descrive quasi di sfuggita, come uno dei tanti episodi di ordinaria mostruosità di cui fu attore o testimone. In un traghetto che trasportava i sopravvissuti della Kolyma, i delinquenti comuni per sfamarsi mangiavano lungo il viaggio sul fiume i loro compagni più deboli che vennero "sgozzati e bolliti nella marmitta di bordo, un po' per volta, e quando il battello giunse a destinazione li avevano sgozzati tutti...". Varlam Salamov non ha la forza descrittiva di un Solgenitsin né quella di un Vasilij Grossman che in Tutto scorre ci ha descritto le tappe della lunga notte staliniana, non trascurando nessun aspetto di quella dittatura, dal suo esordio fino all' evento liberatorio. E non ha neppure la disperata consapevolezza del fallimento che traspare nelle memorie del comunista italiano Dante Corneli che trascorse nei campi dell' oriente artico una ventina d' anni e che ci ha lasciato testimonianze memorabili ma purtroppo quasi sconosciute. E' forse proprio l' apparente mancanza di dimensione politica e psicologica ad aver indotto Primo Levi - altra grande vittima del mondo concentrazionario - ad avanzare molte riserve sui racconti di Salamov al momento della loro uscita, nel 1976, presso l' editore Savelli. Secondo Levi l' Auschwitz di ghiaccio di Salamov avrebbe il torto di essere del tutto privo di prospettiva ideologica, un difetto che renderebbe la statura dell' autore e del testimone inferiore a quella di chi combatté consapevolmente "il terrore hitleriano". Un giudizio davvero singolare poiché è lo stesso Salamov ad avvertirci che nei suoi Racconti della Kolyma ha voluto riversare, e senza nessun filtro, i disordinati flussi della memoria, e dell' orrore.
Guido Ceronetti, "Un grido dalla Siberia", TuttoLibri 12.12.1992 - num. 832 pag. 3 Mauro Manzin "NARRATIVA SALAMOV Parole urlate, poi scritte", в главной ежеденевной газете Триеста "Il Piccolo", 18 января 1993 года, стр. 7
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Questi sono esempi di un atteggiamento eroicamente serio ed onesto verso il proprio lavoro letterario, che ha sempre caratterizzato il codice comportamentale dei migliori rappresentanti dell'intellighenzia russa. Testimoni d'eccezione, Varlam Salamov e Boris Pa-sternak dialogano di vari problemi legati alla letteratura nel felice volumetto uscito da Rosellina Archinto, Parole salvate dalle fiamme (titolo che richiama le immortali parole bulgakoviane "Manoscritti non bruciano"). Luciana Montagnani lo ha tradotto da un originale russo, purtroppo non meglio precisato sul colophon; si capisce, comunque, che il collage dei testi e la loro scelta non sono stati eseguiti dalla traduttrice italiana. Sono documenti rari; ma ancora piu rare, inaudite, appaiono le circostanze della loro nascita.
L'ultimo racconto del celebre ciclo di Salamov I racconti della Kolyma (esistono varie traduzioni in italiano di questo libro, la piu recente e quella di Adelphi del 1995) e cioe La lettera, e dedicato a questa insolita situazione. La "lettera" e di Boris Pasternak. E partita nel 1952 da Mosca, dove Pasternak sta vivendo anni tremendi (gli e proibito pubblicare libri; deve vivere solo di traduzioni; e arrestata e mandata in un lager la sua donna amata, Olga Ivinskaja, il cui unico crimine e quello di essere stata la musa di Pasternak, e l'affascinante Lara del suo romanzo). La lettera viaggia a lungo e finalmente arriva all'inizio dell'anno 1953 nella lontana Kolyma, in uno dei campi di lavoro sibcriani dal regime pju severo, in cui e detentuto Varlam Salamov, che sta scontando il sedicesimo anno delle sue prigioni. Per entrare in possesso della lettera, il detenuto deve ottenere il permesso per potere attraversare centinaia e centinaia di chilometri di deserto, nella tempesta di neve ghiacciata, per raggiungere l'ufficio postale, firmare la ricevuta e finalmente schiudere la preziosa busta. La lettera che si trova
dentro e interamente dedicata a un'analisi del testo poetico...
Questo racconto sembra una parabola, anche se e mera verita. Cosi era iniziato il dialogo che poi e durato molti anni, e di cui tutto il senso, tutto il dolore, tutta la passione sono stati legati ai problemi della letteratura, della cultura.
Per quel che riguarda la cultura, la poesia, il lavoro creativo, nessun sacrificio poteva sembrare troppo grande ai due interlocutori. Salamov confessa che alcuni racconti brevi gli erano costati dieci anni di lavoro: Pasternak non si stupisce per niente, risponde che anche lui scrive cosi, e che spesso dopo aver "levigato" un pezzo di prosa per molti anni, alla fine gli capita di strappare e cestinare il frutto di tante fatiche.
Quanta attenzione dedicano all'analisi dei libri che hanno letto! Le loro critiche diventano praticamente dettagliatissime recensioni. La stessa impressione nasce anche dal frammento del diario inedito di Salamov, pubblicato dalla casa editrice Ibis a cura di Anastasia Pasquinelli e intitolato / libri della mia vita. La stessa puntigliosita, la stessa fermezza di giudizio e di principi, nella vita allucinante trascorsa nei lager e nelle carceri, tra varie umiliazioni e torture: il libro parla di ritmi e metri poetici, di allitterazioni e assonanze, di invenzione e verita del testo scritto, di vita e di morte che diventano letteratura.
Questi standard altissimi della dignita professionale sembrano ormai irraggiungibili; ma ormai e passata, grazie a Dio, l'epoca eroica, popolata da titani dello spirito, e oggi l'alto dialogo tra Pasternak e Salamov, riletto e ammirato da noi posteri, assume la maestosita di un simbolo.
"Il primo testimone dei lager sovietici - Varlam Salamov" - "Первый свидетель советских концлагерей Варлам Шаламов", "SLAVIA. Rivista trimestrale di cultura", №3-4, 1995