School Hard

Nov 27, 2009 21:57

Titolo: School Hard
Autore: p_will
Beta: harleen313
Personaggi/pairing: Andy/Joe, Pete/Patrick + vari ed eventuali
Rating: PG13
Avvertimenti: slash, AU
Conteggio parole: ~8500
Disclaimer: I personaggi non mi appartengono e gli eventi narrati sono totalmente frutto di fantasia.
Note: Scritta per il Secret Santa '08 @ sottoilpalco (fu Bandomitalia). No, il titolo non è preso da un porno ma da una puntata di Buffy.

Per: eyes_of_venom
Richiesta: 'Una Andy/Joe AU in cui Andy è un professore e Joe un alunno'





Joe odiava la storia.
Era un dato di fatto, una di quelle cose che tutti sapevano, che avrebbe potuto scriversi sulla carta d’identità tra i segni particolari. Era un assioma inconfutabile come “Patrick in realtà i cappelli li ha cuciti in testa” e “Pete muore se non manda almeno ventisette sms sgrammaticati al giorno, ventitré dei quali a Patrick”.
Joe odiava la storia, tanto ma tanto ma tanto.

« Non è normale questa tua smania di finire la ricerca di storia. »
« Non sto smaniando. »
« Sei arrossito. »
« Non è vero. »
« Stai negando l’evidenza. »
« Non- …Stumph, buttati da un balcone. »
Patrick aveva un’aria compiaciuta che gli faceva solamente venire voglia di prendere il suo stramaledetto cappello e infilarglielo nel naso. Ma visto che erano in biblioteca e la vecchia arpia al bancone li aveva già puntati (avrà avuto pure degli occhiali che più che fondi di bottiglia sembravano minibar al completo, ma non aveva risparmiato le occhiatacce alla maglia dei Neurosis che portava Joe), fece finta di nulla e si rimise a leggere la storia del colonialismo inglese. Il ghignetto di Patrick continuava a premergli sulla testa senza pietà.
« Ti rendi conto che non solo stai facendo i compiti, non solo sono di storia, ma li stai addirittura facendo in tempo? »
« Be’, sì, mamma pretende il mio scalpo se prendo qualche F » borbottò ricominciando da capo lo stesso paragrafo che leggeva da mezz’ora. Da quando, più o meno, Patrick aveva deciso che per il suo futuro punzecchiare Joe era più importante che saper risolvere un’equazione logaritmica.
« E non c’entra nulla Hurley » buttò lì Patrick.
Joe, sostanzialmente, squittì. E tutta la sala studio gli fece “shhh!” come un sol uomo. Patrick si appiattì sul tavolo singhiozzando in silenzio.
« Smettila di fare illazioni! Ho scoperto che mi piace il colonialismo inglese! » ringhiò, rosso in viso mentre rispondeva alle occhiate di morte della vecchia bibliotecaria.
Patrick grugnì con il viso nascosto tra le braccia. « Ti piace leggere pagine di sfruttamento umano e rivolte soffocate nel sangue? » Ridacchiò un altro po’.
Joe si sentì vagamente offeso - cavolo, non era un buzzurro analfabeta - e incrociò le braccia al petto, risentito. « Il mondo è bello perché è vario. »
« Ti piace dover imparare a memoria le rotte che ha percorso ogni bagnarola inglese nel millennio scorso? »
« Sì. »
« Ti piace Hurley? »
« Molto. »
« … »
« …Stumph, fottiti. Con qualcosa di duro e cartavetrato. »
Mentre Patrick rotolava sotto il tavolo Joe pensava ad un modo per occultare il corpo del suo migliore amico.

Il fatto era che Hurley era Hurley.
Era semplicemente forte. Fresco fresco di laurea, girava voce che fosse stato cacciato da un’importante scuola privata di Chicago per essersi presentato alla giornata Genitori-Insegnanti con un piercing alla bocca ed una maglietta dei Metallica sotto la giacca. (Altre voci erano che fosse stato cacciato dopo aver preso a pugni il preside per motivi oscuri, un’altra che fosse finito a Wilmette perché era stato bandito da tutti gli istituti del Wisconsin, dove aveva liberato di nascosto tutte le cavie del laboratorio di scienze facendo chiudere la scuola per una settimana.)
Era il professore che tutti vorrebbero. Divertente, simpatico, in grado di far sembrare vagamente interessante il sistema di riscossione fiscale della Francia del XVIII secolo; sapeva come tenere una classe ma non era severo, firmava i permessi di uscita senza nemmeno leggerli e una volta aveva perso un’intera lezione parlando della decadenza dei costumi americani e in particolare del sistema dei centri commerciali dopo un commento ben piazzato.
Solo che Joe non lo voleva come professore. E non sapeva se essere disperato o rallegrarsi che, in quanto supplente, Hurley sarebbe rimasto solo fino a fine anno, finché la loro insegnante non fosse rientrata dalla maternità.
Aveva a mala pena fino a giugno per passare ad essere, agli occhi del professore, da quel ragazzino buffo che balbetta sempre quando interviene a quel brillante gran pezzo di figliolo con cui infrattarsi nei ripostigli in barba alla di lui minore età. La cosa però si prospettava più difficile del previsto, perché Hurley sembrava un tipo così… moralmente integro.
Stava giusto deprimendosi riflettendo su quanto potesse essere dannosa tanta rettitudine (no, in realtà si stava spenzolando oltre la testa di quello davanti per vedere il sedere del prof che stava scrivendo alla lavagna) quando atterrò sul suo banco un bigliettino ripiegato con cura.
Sai che H. ha fatto la tesi sulle tratte di schiavi? si leggeva nella calligrafia tonda di Patrick.
Arrossì in zona orecchie e lanciò prima un’occhiata alla cattedra, terrorizzato che Hurley avesse letto il messaggio con un qualche fenomenale potere cosmico, poi uno sguardo truce a Patrick da sopra la spalla. tu che ne sai scarabocchiò, accartocciò e lanciò, sperando di beccarlo in faccia.
Nuovo biglietto che lo colpì all’orecchio. Ashlee diceva, e Joe dovette ammettere che non esisteva qualcosa che la capo cheerleader non sapesse; poi continuava: Tu pensa solo alla ricerca.
è fuori tema scrisse a malincuore.
Trohman sei un caso umano, potresti fargli abbastanza pena da strappargli un appuntamento Pensa a quanto sarebbe contento di trovarsi invece quattro cagate sui diritti dell’uomo e sull’uomo bianco che è brutto e cattivo.
Joe ci pensò. Quando arrivò ad immaginarsi i modi in cui Hurley avrebbe potuto dimostrargli la sua approvazione - modi più… entusiasti di una A+ - decise che era meglio rimandare a momenti più consoni certe fantasie. Non proprio quando Hurley si voltava verso di lui e gli chiedeva con espressione gentile di leggere a pagina centoventotto.
Gli piace la mia voce chiocciò una vocina nei recessi della sua testa, e sfogliò con mani tremanti il libro, per nulla aiutato dal sospiro di Patrick alla sua sinistra.

Dopo una settimana, l’unico risultato tangibile era che Joe sapeva molto più di quanto gli sarebbe mai servito in vita sua sul funzionamento delle navi mercantili e sulle malattie che ci circolavano sopra; ne aveva trovate un paio un piuttosto forti di cui si era persino andato a cercare qualche foto su internet (con esiti che stava cercando di dimenticare, grazie).
Niente di nuovo, invece, sul fronte Hurley. Nulla di nulla, a parte forse che ora il prof non aveva il sospetto, era sicuro di trovarsi davanti un bambino autistico. Continuava a balbettare, incepparsi, inciampare, scontrarsi contro gli armadietti ogni volta che entrava nel campo visivo di Hurley. Non andava bene! Doveva ammaliarlo con il suo eloquio ricercato! Doveva incantarlo con le sue movenze sinuose! Doveva-
« Devi consegnargli la ricerca. »
Guardò male Patrick per aver interrotto il suo delirio d’onnipotenza. « È presto. »
« Appunto » gli lanciò un’occhiata eloquente da sopra il bordo degli occhiali. « Piuttosto che covarla per altri tre giorni portagliela subito, così potrai fargli vedere quanto sei visceralmente interessato alla storia. E a delle ripetizioni private. Propedeutiche, sai. »
Idea interessante. Non sembravano esserci controindicazioni immediate, ed era dall’inizio della settimana che girava col fascicolo (amorevolmente rilegato e plastificato) nello zaino… non era troppo spudorato, vero?
« Vai a dargli quella benedetta ricerca prima che finisca la pausa pranzo! » sbottò Patrick. Joe corse via più che altro perché non voleva ritrovarsi una forchetta in un occhio.
Hurley era in sala insegnanti. Era seduto al tavolo sotto la finestra con il professor Smith e il coach Iero a mangiare qualcosa dall’aria molto verde e molto inquietante.
E Joe non stava spiando, andiamo, non era mica appostato sull’albero in cortile con un berretto militare e un binocolo per vedere di cosa fosse fatto l’intruglio nel piatto di Hurley. Stava osservando discretamente da una porta già aperta. Dal corridoio. Da dietro la bacheca dei trofei. Ma non si stava nascondendo, si era fermato lì per puro caso e ancora non l’avevano notato, ecco!
Fece un respiro profondo e partì.
…cioè, pensò di partire. Aveva le gambe stranamente poco inclini ad eseguire gli ordini del suo cervello. Lanciò un’occhiataccia alle proprie scarpe slacciate, che ricambiarono impunemente; fece un altro respiro profondo, contò fino a dieci, controllò di sfuggita nel vetro della bacheca di avere i capelli che somigliassero a qualcosa di umano e partì, stritolandosi la ricerca tra le mani.
La prima volta che entrava in sala insegnanti non per una punizione, e il tragitto non era mai stato così arduo.
Un passo, un altro passo, due colpetti alla porta. Si sentì scompigliare i capelli da una brezza misteriosa (no, guarda meglio, è il ventilatore) mentre gli occhi di tutti si posavano su di lui. Intrecciò lo sguardo con quello di Hurley, limpido, profondo, avanzò con sicurezza schiudendo le labbra in un sorriso brillante e un battito di ciglia dopo il pavimento gli stava correndo incontro.
Si sfracellò con un tonfo sinistro.
Più che il dolore per essersi quasi sbriciolato i denti, fu la bruciante consapevolezza di non aver mai fatto una figura di merda peggiore (nemmeno quella volta all’asilo che aveva vomitato sulla torta di compleanno. Del suo compagno di banco) a rischiare di fargli perdere conoscenza. Aspettò, per lunghi secondi, di svegliarsi dall’incubo o che partisse l’allarme antincendio o qualunque cosa, nel nome di dio. Invece, quando alzò gli occhi dalle mattonelle giallognole, vide una delle poche cose che avrebbero potuto rendere la situazione più allucinante.
« Tutto okay? » gli chiese Way con gli occhi sgranati dalla preoccupazione.
Way sapeva fare il suo lavoro. Era un bravo consulente scolastico, serio, appassionato, ma era… Insomma, metà popolazione studentesca era convinta che la vera funzione di Way fosse rassicurare gli alunni che c’era qualcuno più folle di loro.
Joe alzò lentamente gli occhi, illudendosi che sperandolo forte forte forte uno dei due sarebbe sparito. Way portava una cintura con la fibbia a forma di pipistrello e, incastrata dietro l’orecchio, una matita di quelle con le piume in fondo. Fucsia. Oh dio…
« Ti senti bene? Vuoi andare in infermeria? Quante sono queste? » Si mise a fare numeri con le dita a velocità supersonica.
« Gerard, lo traumatizzi di più tu! » trillò Iero, che rideva senza vergogna. Gli insegnanti di ginnastica sono tutti stronzi.
« Potrebbe avere un ictus! »
« S-sto bene… » mormorò Joe, ma nessuno lo sentì sotto il battibecco di quei due. Approfittando di non essere più al centro dell’attenzione strisciò verso il tavolo dove Hurley e Smith stavano ancora pranzando.
« Joe, ti sei fatto male? » chiese gentilmente Hurley.
La bocca di Joe si fece improvvisamente più secca del Sahara e annuì in fretta. « Io, uh, volevo consegnarle questa. » Gli mise il fascicolo spiegazzato sotto il naso.
« Sei in anticipo » si stupì il professore, prendendo comunque allegro la ricerca. La sfogliò un po’, sollevando lentamente le sopracciglia. « Ma… sono venti pagine. »
« Le tratte di schiavi sono un argomento affascinante » disse con convinzione.
« Hai fatto un abstract. »
« Uh… »
« A me non hai mai fatto un abstract, Joe » commentò in tono piatto Smith.
« Tu insegni matematica » s’intromise Ross, che trafficava lì accanto con la macchinetta del caffè. Smith si girò con espressione vagamente irritata. « Ciò non toglie. »
« È che… mi sono appassionato, allora… » disse con una vocina flebile Joe. Disastro. Disastro su tutti i fronti, e non si sentiva più il naso.
Poi Hurley sorrise, a lui, solo a lui, e si appoggiò la ricerca in grembo e gli disse: « Sono contento che ti piaccia. Se sei interessato posso consigliarti qualche libro… »
Certo, libro. A lume di candela, magari, a casa tua. Stasera va bene?
« Fa-fantastico! E ora è, ehm, tardi e devo… andare. »
La campanella suonò, in un’inaspettata dimostrazione di fortuna che era convinto di aver perso per sempre. Schizzò via rischiando ancora di inciampare sui lacci delle scarpe, in cerca di Patrick, per picchiarlo o coinvolgerlo in una danza della gioia.

Ma il tempo passava impietoso e il caldo di metà maggio sfiancava le giovani menti impegnate in poderosi sforzi intellettuali e la pazienza di Patrick.
Ah no, per quella bastava Joe.
Joe, infatti, era vittima di una inesorabile metamorfosi in ragazzina in calore. Con tendenze emo. Sospirava così tanto che l’unico motivo per cui Patrick continuava ad essere il suo compagno di banco a storia era che Joe ormai era diventato il primo della classe. (Okay, anche perché si sentiva in colpa a lasciarlo solo dopo che per mesi lui si era sorbito le sue pare mentali su Pete.)
Il povero Joe era rimasto tristemente disilluso quando i famosi libri che doveva consigliargli Hurley si erano rivelati non un intricato sistema per confessargli platealmente tutto il suo ardente amore, ma… dei libri che gli doveva consigliare. Manco prestare, glieli aveva indicati in biblioteca.
E, a ben vedere, Hurley sembrava restio a rimanere da solo con Joe. Visto che Joe ci provava, e molto anche, avevano notato che il professore tendeva a defilarsela a correggere compiti ogni volta che Joe gli si accostava senza nessun altro intorno.
Nella mente provata di Joe, questo non si era configurato come “quel poveraccio deve reggere cinque classi da solo, avrà da fare”, ma era chiara prova che Hurley aveva capito tutto ed era troppo gentile per stroncare le sue idiotiche avances, così si teneva a distanza di sicurezza.
Ulteriormente sviluppata, la teoria si era evoluta in “Hurley mi odia”.
Patrick aveva tentato inutilmente di dirgli che non era vero, che lui era paranoico e perché la prossima volta non te ne scegli uno più normale, di grazia? Aveva tentato e ritentato e Joe continuava imperterrito a fissare il culo di Hurley (ma quell’uomo doveva stare sempre a scrivere alla lavagna, porca miseria?) e sospirare.
Intanto i nervi di Patrick si attorcigliavano.

Pete aveva deciso che Joe non stava bene.
Il suo Pattycake era scontroso perché Joe aveva deciso che non valeva la pena di essere una persona sopportabile senza avere quel loro professore, e a lui non piaceva quando il suo Pattycake era scontroso e lo prendeva a calci quando tentava di scalargli la schiena. Patrick non stava bene perché Joe non stava bene, quindi Joe andava curato.
« Pete, no. »
Pete non diede segno di aver sentito alcunché, né di aver notato la presenza di un Patrick in fase di corrucciamento. « Oh, andiamo. Potete venire tutti e due, non è salutare stare sempre chiusi in casa a soffrire. »
« E in che modo sbronzarsi come marinai norvegesi sarebbe salutare? »
Questa volta Pete si voltò effettivamente verso Patrick. « Sbronzarsi è una cura universale. C’è un motivo se la Norvegia è così ricca e ecologica e ha inventato l’Ikea e i suoi marinai sono sempre felici. »
« L’Ikea è svedese! »
« Sono sicuro che anche i marinai svedesi non se la passano male, Tricky. »
« Pete, hey » lo chiamò Joe. « Pete, io non bevo. »
Pete lo fissò con sguardo vuoto
« Wentz, sono ebreo. »
« Oh cielo, mi dispiace » mormorò Pete, sinceramente preoccupato. « Vuoi parlarne? »
Quello che voleva Joe, per dovere di cronaca, era sprofondare negli abissi della terra e accartocciarsi su sé stesso, andando in letargo fino alla prossima glaciazione. O, in alternativa, avere cinque anni di più e non essere lo stupido ragazzino che non esisteva agli occhi del suo professore. Da nessuna parte nella lista c’era spiegare a Pete che l’ebraismo, nonostante il nome lunghetto e difficile, non è la fase terminale di una malattia incurabile.
« Allora? » incalzò Pete.
Joe lo guardò - l’espressione d’insistenza infantile che cozzava con i suoi vestiti - e Patrick - il migliore amico che potesse ricevere, che gli stava a fianco invece di prenderlo a schiaffi nonostante tutto - e fece qualche calcolo.
Forse poteva trovare un posticino abbastanza in alto nella sua lista per andare a bere. Mettendo tra parentesi la postilla “per smettere di essere una molletta sui coglioni e dar retta ai miei amici”.
« Okay, okay, andiamo. »
Patrick lo fissò come se fosse impazzito - anche senza il ‘come’ - e Pete lanciò le braccia in aria con un urlo vittorioso.

Appena entrati nel locale Pete scomparve alla vista sotto l’assalto di un’orda di persone, abbandonandoli a loro stessi. Fortuna che li voleva con sé perché si sentiva solo, eh.
Joe e Patrick si avvicinarono guardinghi al bancone, abituandosi all’atmosfera, le luci traballanti per il fumo e la musica martellante. Non fecero in tempo a posare le mani sul ripiano appiccicoso del bar che un tizio random sbucato da nonsisabenedove li identifico come “hey, quelli che sono entrati con Pete!” e senza avere nemmeno il tempo di dire “guh?” si ritrovarono un certo numero di amichevoli avventori più o meno sbronzi a raccontare la storia della loro vita e dei drink offerti dalla casa tra le mani. Joe annusò dubbioso: sembrava CocaCola. Sembrava. Patrick si era già scolato quella cosa e aveva iniziato a ridere con le guance tutte rosse, e di solito la Coca non aveva proprio quell’effetto su Patrick. Sorseggiò cautamente, concludendo definitivamente che quella roba era un qualcosa di simile alla CocaCola. Tipo, Coca corretta. O rum con tracce nascoste di Coca. E l’avevano pure detto di avere quindici anni - gli amici di Pete, come Pete, non avevano la minima cognizione di come comportarsi con dei minorenni.
Buttò giù tutto in un colpo solo. Era uscito proprio per smetterla di pensare a quello, perciò prese il bicchiere che gli stavano passando e poi un altro e poi un altro con dentro qualcosa di un bel colore, tutto verde e brillante, e poi le lucine del palco erano così carine e scintillanti e Joe era ubriaco. Patrick invece era buffo. E forse anche lui ubriaco, sì.
« Andiamo a cercare Pete! » esclamò. Poi rimase seduto a fissare fitto fitto le gocce che scivolavano all’interno del suo bicchiere. Joe non aveva ben capito la situazione ma rise comunque, perché sembrava una cosa da fare.
« No, sul serio, alziamoci. Devo parlare col bagno. …andare in bagno. E parlare con Pete. »
« In bagno? »
« Non so » fece una faccia pensierosa. « Non mi dispiacerebbe andare in bagno con lui. »
Pete non vede l’ora di portatrici, pensò Joe. Voleva farlo sapere a Patrick, perciò aprì bocca e disse tutt’altro: « Hurley non ci è mai venuto al bagno con me. »
Patrick - che sarà stato sbronzo ma sapeva riconoscere un tono piagnucoloso quando ne sentiva uno - lo trascinò di mala grazia giù dallo sgabello. « Su, up, ti ci porto io in bagno. »
« Ma io voglio andarci con Hurley… »
Joe non era mai stato in un bagno più divertente. Cioè, non era mai stato in un bagno con in corpo tutto quell’alcol, quindi gli sembrava tutto molto divertente lo stesso. A dir la verità era un bagno piuttosto banale e piuttosto sporco, con una parete graziosamente ricoperta di insulti e numeri di telefono; Joe sarebbe stato più che contento di allargare la propria conoscenza di parolacce se non avesse dovuto farla anche lui. La sua vescica iniziava a dire la sua su tutto quell’edonismo, ecco.
Dopo essersi lavato le mani ed aver, per buona misura, messo la faccia sotto il rubinetto, Joe si sentiva un po’ più lucido; tutti i liquidi espulsi dovevano esser in gran parte alcol. Si sentiva abbastanza lucido da poter prendere Patrick per un braccio e trascinarlo via, « Da Pete, e poi di nuovo al bar, che mi sento tristemente in grado di camminare in linea retta! », perché troppa lucidità non era quello che aveva in programma per la serata.
Pete lo videro dietro un amplificatore, dopo aver girato mezzo locale chiedendo a destra e a manca se avessero visto un idiota alto più o meno come un barattolo e con una felpa che brucia gli occhi, sì, proprio Wentz, da cosa l’hai capito?
« Pete, hey! » gridò Patrick. Pete, che stava ridendo con un paio di tizi dall’aria inaffidabile, non lo sentì minimamente. Gli arrancarono incontro, provando e riprovando, finché Pete non li vide e prese a salutare come un invasato. « Ragazzi, c’è il mio bimbo! E il suo amichetto. »
Joe stava per mandarlo molto elegantemente affanculo quando l’amico di Pete, quello di spalle senza maglia, con i capelli lunghi e un tatuaggio mostruoso a tutta schiena che sembrava muoversi sotto le luci incerte, si girò, ancora ridendo. E le parole gli morirono in gola con un gorgoglio.
Hurley. Andrew John Hurley, 23 anni il 30 maggio p.v., diplomato a pieni voti alla University of Wisconsin-Milwaukee. (Perché Joe non era uno stalker, sia chiaro.)
Hurley. Senza maglia.
« Oddiocristo! » strillò Patrick, cui l’alcol scioglieva la lingua. Joe concordava.
Hurley si interruppe a metà risata, sgranando gli occhi. Fissò Patrick, Joe, Pete, Joe, Pete, Patrick, Pete, Pete e il vuoto da qualche parte tra le teste di Patrick e Joe.
« Trickster, tutto bene? »
Pete era un uomo morto. Joe doveva ricordarsi di picchiarlo con un badile appena finita la trance mistica, che purtroppo si prospettava ancora lunga. Cioè, sapeva a quanti anni Hurley aveva perso il primo dentino, e nessuno gli aveva detto che sotto i vestiti aveva tutta quella roba?! Oh, doveva picchiare tante di quelle persone…
Intanto, Hurley si stava esibendo in una discreta faccia da sintomi del tetano mentre Pete li guardava con un sorriso ignaro del cavolo e Patrick stava per farsi cadere gli occhi fuori dalle orbite. Fu l’altro amico di Pete - uno alto quanto un lampione con addosso una combinazione di felpa-scarpe-catene da far impallidire le mise di Wentz - ad esporre il nocciolo della questione. « Vi conoscete? »
Joe sentì di adorare sempre di più Hurley quando questi rispose, perché non si sentiva ancora in grado di aprire bocca senza sparare qualcosa di immensamente imbarazzante. « Sono dei… i miei studenti. Patrick e Joe. »
« Joe? » lo spilungone si illuminò in una maniera che non aveva niente a che vedere con tutto l’oro che aveva al collo. « Joseph Trohman? »
« Eh? » Tenersi sui monosillabi era una mossa saggia. E comunque iniziava ad avere un po’ paura, non solo perché arrivava a mala pena all’ascella di quel tizio. Come…?
« Hai degli studenti? » chiese Pete portandosi una mano alla bocca sconvolto.
Comprensibile che Hurley avesse la faccia di uno che vorrebbe fare del male a qualcuno ma ha tanta di quella scelta che non sa da dove iniziare. Si avvicinò a Pete conficcando casualmente il calcagno sul piede della pertica (che imprecò qualcosa di strano che c’entrava con un cobra) e disse a denti stretti: « Sarai sorpreso di sapere che alcuni di noi hanno un lavoro. »
« Io lavoro! »
« Tu rantoli nei microfoni mentre altra gente suona, non è un lavoro » commentò il tizio.
« Parlatemene! » strillò Patrick in tono più acuto del normale. Agguantò Pete per un braccio e sempre a voce troppo alta li incitò a seguirlo ad un tavolo appartato e possibilmente molto lontano.
Joe e Hurley rimasero a fissare le loro schiene che scomparivano nella folla. E poi rimasero un altro po’ a guardarsi in giro e fissare ovunque che non fosse l’altro… almeno Hurley. Joe, inibito un po’ dall’alcol un po’ dallo shock, si stava godendo quel gran pezzo di body art che aveva davanti; ad un certo punto Hurley incrociò le braccia al petto in un inutile tentativo di coprirsi e Joe si mise a fissargli le braccia. C’era molto inchiostro da fissare, e lui non poteva che esserne contento.
« Allora… » attaccò incerto Hurley. Joe fece uno sforzo sovrumano per scollargli gli occhi dalla clavicola e puntarli più su. « qual buon vento? »
« Pete » Pete era la causa di tutti i mali terreni, come risposta andava sempre bene.
« Allora il suo “Pattycake” era il nostro Patrick… » guardò distrattamente il punto dov’erano spariti gli altri con vaga apprensione.
« Tu- er, lei, come conosce Pete? » Doveva saperlo se voleva gustarsi a pieno il pestaggio di Pete.
Hurley arrossì. « Storia lunga, niente di che… » provò a sviare la conversazione, ma incontrò gli occhioni blu di Joe spalancati dalla curiosità e cedette. « Ho suonato per un periodo con lui. »
« Suoni? Cioè, lei. »
« La batteria. »
Oh, Joe era così innamorato.
« Ma tu non sei troppo piccolo per stare qui? »
E anche così fregato.
« Ho sedici anni » sbottò indignato. Come se ci fosse bisogno di ricordarlo, come se effettivamente non fosse troppo piccolo per stare in quel locale.
Hurley, infatti, sollevò un sopracciglio. « Quanto hai bevuto? »
Joe impallidì. La cosa si stava trasformando in una lenta discesa nell’incubo e adesso non poteva farsi beccare a ubriacarsi illegalmente o potevano pure sospenderlo e in quel caso sarebbe morto, perché i suoi l’avrebbero spellato vivo. « La prego non mi spedisca a casa » mormorò.
Per un attimo fu convinto che Hurley l’avrebbe mandato via a calci. Lo stava studiando con un’espressione seria che non sapeva classificare, e si sforzò di tirare fuori la faccia più innocente del suo repertorio per fargli un po’ pena. E poi Hurley sorrise senza motivo. « Aspetta » Joe fu preso dal panico quando lo vide sparire dietro l’amplificatore ma dopo una manciata di secondi Hurley era già di ritorno, con (purtroppo) una maglia e… un pennarello. Forse era brillo anche lui.
« Dammi la mano » chiese, e Joe si sciolse un pochino mentre eseguiva meccanicamente l’ordine. Poteva anche staccargliela, a questo punto; era felice solo di sentire le dita di Hurley che gli sfioravano il polso, il palmo, e si stringevano attorno alle sue dita. Era talmente felice che ci mise un po’ ad accorgersi che Hurley gli stava scarabocchiando addosso. « Ecco » disse soddisfatto, rimirando la grossa X nera che gli aveva tracciato sul dorso della mano. « Così non ti serviranno più niente » e gli scompigliò i capelli.
Joe non credeva di aver bisogno di bere altro per sentirsi più ubriaco di così. Gli sembrava di avere il cervello in panne, la bocca impastata e le gambe molli, e la cosa peggiore era che probabilmente l’alcol non c’entrava nulla; si sentiva pietrificato, congelato, tranne per le guance che bruciavano e la mano, che era ancora stretta in quella di Hurley.
Se ne accorse anche il professore e la mollò in fretta, come se scottasse davvero. « Su, andiamo dagli altri » disse in tono piatto, evitando di fare contatto visivo. Joe si lasciò condurre docilmente al tavolo di Patrick, troppo intorpidito dalle farfalle nello stomaco per prestare attenzione ad altro che non fosse la mano di Hurley che premeva leggera come un fantasma tra le sue scapole.

Il suo probabilmente era il miglior dopo-sbronza della storia. O il meno peggio, ad essere pignoli.
Era ancora avvolto da una soffice nube di gioia e tepore che attenuava il mal di testa, lasciandolo libero di rotolarsi nel letto e rivivere tutta la serata precedente.
Era stato qualcosa di surreale, qualcosa che neanche nei suoi voli pindarici più spericolati aveva mai anche solo sperato di raggiungere. L’amico di Pete, Gabe, era un tipo totalmente folle che aveva insistito perché Joe gli si sedesse accanto per indottrinarlo in un qualche culto; Joe non era stato molto a sentire, visto che dall’altro lato aveva Andy.
Andy, non Hurley, non il suo insegnante. Andy, con cui non aveva parlato di scuola o ricerche ma di concerti e tour con la band di Pete e a cui aveva consigliato dei cd da ascoltare. Andy, davanti al quale finalmente era riuscito ad essere disinvolto e loquace, che fosse per l’alcol o per l’atmosfera diametralmente opposta a quella di un’aula. Andy, che gli aveva offerto una Coca (senza correzioni. Sì, vabe’, è il gesto che conta) e aveva tirato un bicchiere d’acqua in faccia a Pete che stava cercando di compromettere Patrick (non che Pete dopo avesse smesso, comunque).
Inutile dire che tornando a casa, seppure a piedi, col freddo e le intemperie, Joe aveva saltellato con un sorriso demente stampato indelebilmente in faccia.
Inutile dire che i tatuaggi di Andy erano finiti di diritto al primo posto dei suoi materiali da fantasticherie private.
Inutile dire che ancora il lunedì mattina emanava una positività da far digrignare i denti a tutte le povere persone normali che non trovavano esaltante iniziare una nuova settimana. Tipo Patrick.
« Non ho la minima intenzione di starti intorno quando avrai fatto sesso » ringhiò, osservando poi con soddisfatto stupore Joe che si bloccava e ammutoliva diventando rosso alla velocità di un semaforo. Insinuazioni: nuova mossa da tenere a mente per spegnere Joe.
« Che dice Pete? » chiese appunto per pensare ad altro.
« Pete è stupido » alzò gli occhi al cielo, con un velo di affetto nello sguardo che però non poteva sfuggire a Joe. « Gli ho chiesto perché non ci avesse mai detto di conoscere Hurley, e sai che mi ha risposto? “Eh, ma che potevo saperne, continuavate a chiamarlo ‘professor Hurley’!” Certe volte mi viene il dubbio che gli piaccia farsi picchiare. »
Fu il turno di Joe di sollevare un sopracciglio allusivo. Patrick balbettò qualcosa di indignato e gli tirò un pugno alla spalla, fuggendo via con la visiera del cappello calata sul viso mentre Joe ridacchiava e si affrettava a seguirlo ed entrare a scuola.
Joe continuò a sprizzare la sua molesta contentezza, sebbene con più riguardo nei confronti dell’umore di Patrick, per tutta la giornata, raggiungendo come prevedibile un picco all’ora di storia.
Hurley si comportò come se niente fosse, interrogò, corresse i compiti, perse venti minuti a discutere se lo sfruttamento animale nell’agricoltura fosse in qualche modo paragonabile con la schiavitù con un tipo in prima fila e ignorò Joe e Patrick. Al suono della campanella Joe stava iniziando a convincersi di aver avuto una lunga e vivida allucinazione per tutto il finesettimana.
Finché, quando stavano per uscire dall’aula, Andy non li fermò.
« Hey, ragazzi, devo darvi una cosa » rovistò un po’ nella sua valigetta e finalmente tirò fuori un foglietto viola pugno in un occhio, tutto spiegazzato. Lo consegnò ad un Joe perplesso. « Gabe mi ha ordinato di dirvi che vi vuole a casa sua sabato per la mia festa di compleanno a sorpresa. »
« La sua festa a sorpresa » ripeté Patrick. Andy scrollò le spalle; non c’era molto da spiegare quando si trattava di quegli individui.
Joe aprì il foglio e trovò il disegno piuttosto infantile ma, almeno, comprensibile, di una cartina: c’erano un tot di strade e una casetta stilizzata piuttosto male con dei palloncini scarabocchiati intorno; sulla parte bassa del foglio c’era scritto “party time, bitchez!” e accanto un qualcosa che, solo dopo averlo fissato terrorizzato per un bel po’, Joe capì essere un cobra. Sembrava - uhm - tutt’altro.
« Sono le indicazioni per arrivare da Gabe, sorprendentemente dovreste capirci qualcosa » stava dicendo intanto Andy. Si mise a sistemare i libri sulla cattedra con gesti nervosi. « Non vi dovete preoccupare, cioè, non c’è bisogno di portare nulla. Ma non sarebbe male se ci foste. »
« Certo, verremo, grazie mille » rispose Patrick per Joe. Andy sorrise e Patrick gli fece ciao con una mano, mentre con l’altra pilotava Joe nel corridoio e verso la loro lezione successiva, visto che l’amico era chiaramente entrato in stato catatonico.
…purtroppo già mezz’ora dopo era con le mani tra i capelli per il regalo che devo assolutamente fargli ommioddio è l’Occasione!, ma Patrick era una persona che si accontentava dei momenti di pace che la vita gli donava.

« Scusascusascusa ci sono, possiamo andare! »
« Dio, cos’è successo, non trovavi i trucchi? » borbottò Patrick mettendo in moto.
Joe gli mostrò il medio senza enfasi mentre smanettava con la radio. « Mi stavo preparando » spiegò con aria di sufficienza.
Patrick lo guardò con la coda dell’occhio. Era vestito esattamente come ogni giorno, con le stesse scarpe e la stessa pettinatura. Quello che Patrick non sapeva era che aveva passato un’ora abbondante a rivoltare l’armadio passando in rassegna qualsiasi pezzo di stoffa in suo possesso prima di decidersi. « Tu sei fuori… » canticchiò, svoltando ad uno degli incroci della mappa di Gabe.
« Zitto o non ti lascerò ascoltare il tuo prezioso jazz » lo minacciò tutto contento. Era di umore a dir poco favoloso.
« Primo: ringrazia che te lo faccio ascoltare perché sei ignorante. Secondo: sei sulla mia macchina, e mi hai fatto aspettare quindici minuti nel tuo vialetto di casa mentre ti sistemavi i boccoli, perciò non hai proprio il diritto di avanzare reclami. Ora smettila di sorridere ai passanti e alza il volume. »
Arrivarono a casa di Gabe senza perdersi una sola volta (benché ad un certo punto avessero dovuto accostare per capire le indicazioni sulla cartina), ma scendendo dall’auto si trovarono davanti una casa estremamente normale e dall’aria poco festaiola. Era così normale che quasi si presero un infarto quando da dietro la casa arrivò assordante il rumore degli amplificatori che venivano accesi.
« Credo che vi denunceranno » esordì gioviale Patrick appena giunsero nel giardino sul retro. Pete gli corse incontro con gli occhi brillanti ed un cacciavite in mano che gli davano l’aria da psicotico omicida. « Trickster, non hai ancora sentito niente! »
« Strano, tutto il resto dell’isolato ha sentito benissimo… »
« Dove sono tutti? » chiese Joe, ostentando disinteresse. Forse ostentava male perché Pete rispose con un ghignetto.
« Di sotto, ovviamente. »
“Di sotto”, si scoprì, era il seminterrato.
Il seminterrato di Gabe era il classico tipo di seminterrato con una rampa di scale di quelle perverse con i gradini stretti stretti alti alti, pareti senza intonaco, tubature a vista e un fottio di angoli bui dove ti aspettavi di trovare qualche cadavere - di topo. Forse.
« Benvenuti nel mio antro! » li accolse Gabe, emergendo dalle ombre dietro la porta con una felpa viola fluorescente e un braccio stretto possessivamente alla vita sottile di quella che doveva essere la sua ragazza. « Oh, questo è Bilvy. »
…sì, vabe’, come non detto.
« William Beckett » gorgheggiò porgendo elegantemente una mano affusolata. Joe la strinse di default, lievemente perplesso.
« Allora, vi piace qui? » domandò Gabe.
« È, be’… caratteristico » disse Patrick. « Gli attrezzi da tortura dove li tenete? »
« In camera da letto » rispose candido William. Patrick iniziò ad allontanarsi lentamente.
« Dove tenete il festeggiato, invece? » domandò (sempre con grande disinteresse) Joe.
« Segregato in cucina a sistemare pacchi di patatine » rispose - ovviamente - il festeggiato. Joe emise un piccolo gemito interiore per il formidabile tempismo e si voltò. Andy stava scendendo le scale con, effettivamente, le braccia cariche di sacchetti di porcherie varie. « Ma sarei sceso prima se qualcuno si fosse degnato di dirmi che eravate arrivati » Sorrise.
Joe sorrise in rimando, le farfalle nel suo stomaco che iniziavano a svolazzare in formazione compatta, ma prima che potesse dire anche solo “auguri” si ritrovò trascinato via con Patrick da un William in vena di socializzazione, ed intanto Andy veniva placcato da, fra tutti, Way, che era appena arrivato insieme ad un tizio con gli occhiali e l’espressione piatta. « Andy! Devo farti assolutamente leggere questo nuovo fumetto che ho trovato oggi! » stava dicendo animatamente Way mentre il suo accompagnatore (che, spiegò William mentre li trascinava in giro per la stanza a conoscere tutta altra gente incredibilmente alta, era il fratello di Gerard che conosceva Gabe che aveva avuto forse sì forse no una storia con Pete. Patrick lo prese subito in antipatia) salutava Gabe.
E Andy rimase off-limits per tutto il tempo. Era normale che tutti volessero abbracciarlo, sbaciucchiarlo e fargli tanti auguri nel giorno del suo compleanno, ma anche Joe voleva farlo e ogni volta che provava ad avvicinarsi l’altro era sempre attorniato da un muro invalicabile di persone. Ciondolò un po’ in giro, aiutò a sistemare gli amplificatori e perse mezz’ora buona a dare un’occhiata a tutti i dischi disponibili, fece conoscenza con gli amici folli di Gabe e chiacchierò a lungo con Travis insieme a Patrick, dando una pacca sulla spalla all’amico ogni volta che lo vedeva assottigliare gli occhi incrociando la figura dello Way minore.
Sperava di poter beccare Andy prima della torta ma le candeline furono soffiate senza che trovasse un solo momento buono. La prima fetta venne spiaccicata in faccia ad Andy da Pete, e Andy si vendicò infilando la testa di Pete in un boccale di birra (anche se non si capiva come questa potesse essere una punizione) e Joe decise di defilarsi alle prime avvisaglie di uno scontro a fuoco - ehm, cibo.
Andò a sedersi in giardino, beatamente solo, libero di respirare profondamente e chiudere gli occhi con il sottofondo della grande battaglia nel seminterrato. Poi dei passi.
« Ciao » aprì gli occhi e Andy gli andava incontro e sorrideva, con una striscia di panna ancora sulla guancia. Joe volle istintivamente leccarla, ma piuttosto arrossì e abbassò gli occhi. « Credo che Patrick sia caduto nello scontro, ma Pete stava andando a rianimarlo. »
« Spero non voglia uccidere il mio passaggio a casa » ridacchiò nervosamente. Si bloccò quando Andy gli si sedette accanto, proprio attaccato al suo fianco sull’ampio muretto di casa Saporta. Il cuore gli batteva all’impazzata e il fianco gli formicolava dove sfiorava il braccio di Andy, perciò, con riluttanza, si fece un po’ più in là. Non voleva rischiare.
Andy lo fissò con uno sguardo imperscrutabile per qualche istante. « Ti stai divertendo? » chiese.
Ora- « -sì » disse piano.
« Mi dispiace che siano così… be’, così, capisco che magari non è il tipo di serata che avevi in programma- »
« No, davvero, va tutto bene » si voltò a guardarlo in faccia e gli sorrise, e questa volta non abbassò gli occhi, nemmeno quando Andy rispose allo sguardo e le lenti dei suoi occhiali sembravano scintillare divertite. Fu proprio lui a girarsi per primo e Joe lasciò andare quel respiro che gli si era bloccato in gola, osservandogli il profilo, quelle guance che per un attimo gli era quasi sembrato di veder tingersi di rosso, la linea del collo e delle spalle e di quelle braccia ricoperte d’inchiostro che sbucavano dalla t-shirt. Le sere di maggio nell’Illinois sono afose ma lui rabbrividì improvvisamente.
E dopo Andy si stava girando di nuovo, l’ombra di un sorriso sulle labbra e gli occhi, questa volta, divertiti. « Non mi hai fatto nessun regalo? »
Porca miseria io l’avevo detto che c’era da cercare qualcosa, adesso che figura di merda insostenibile che ci fai-
Ma anche se non aveva bevuto niente non si rese conto di essersi mosso ed avergli tolto gli occhiali, e il suo cervello stava ancora imprecando per tutt’altro mentre lui si allungava e premeva le labbra su quelle di Andy. E poi basta.
Basta per lunghi secondi che si allungarono in eterno finché non gli crollò tutto addosso - il bacio, gli occhiali, la propria mano poggiata sul polso di Andy, le labbra di Andy che iniziavano ad aprirsi sotto le sue e il respiro trattenuto di And- Hurley- il suo professore, cazzo.
Cazzo.
Si alzò di scatto come se avesse toccato i fili scoperti di una chitarra. Si sentiva male. Si sentiva il respiro bloccato e una nausea che saliva senza pietà lungo la sua gola, qualcosa che non aveva provato nemmeno dopo quella prima sbronza.
Gli occhiali gli scivolarono a terra dalle dita e quasi ci camminò sopra, ma Hurley non disse niente. Era immobile, semplicemente, pietrificato con le sopracciglia lievemente corrugate e lo sguardo assente. Lentamente, come se non se ne rendesse conto, come se fosse qualcun altro a muoverlo, si sfiorò la bocca, e Joe desiderò disperatamente di morire.
« Io… scherzavo. » Dio, non c’era nemmeno bisogno di dirlo ma Hurley era così troppo serio, troppo preciso, così troppo fottutamente sé stesso per capire che per una volta era meglio non dire nulla. E poi finalmente incontrò gli occhi di Joe, e fu davvero, davvero doloroso.
Inciampò per raccoglierli gli occhiali - perché poi, non stava nemmeno muovendo i piedi - e tentò di inventarsi qualcosa, uno dei balbettii incoerenti che era così bravo a tirare fuori in classe, ma non ce la faceva nemmeno a tenere la bocca aperta così gli schiaffò le sue dannate lenti tra le mani e fuggì di corsa. Via, da qualche parte, verso l’uscita da quel delirio.
Attraversò la festa senza riconoscere una sola persona o fare un saluto e si ritrovò a guidare la macchina di Patrick con qualche canzone senza senso che usciva dallo stereo. Si sforzò di respirare e si sentì in colpa per aver rubato la macchina al suo amico.
Ma tanto Patrick poteva contare su Pete. Lui su chi ormai?

Sua madre lo vide solo la mattina dopo. Era entrata in salotto preoccupata dai rumori a quell’insolita ora di domenica mattina ed aveva trovato il suo primogenito raggomitolato sul divano davanti ad una tv accesa e palesemente ignorata. Non aveva detto una parola, ma si era piazzata davanti al divano, spento la televisione e messo in piedi suo figlio con delicata fermezza. Era bastato un solo sguardo di sfuggita perché Joe finisse sotto una tonnellata di piumoni nel letto dei suoi genitori, con un’aspirina sfrigolante nel bicchiere sul comodino e suo padre che grugniva in corridoio per essere stato sbattuto fuori dal proprio letto alle nove e mezza, ma stiamo scherzando?
“Sta male” aveva sentito dire lapidaria sua madre, ed era vero. Aveva preso freddo correndo in auto con i finestrini abbassati, passato la notte in bianco, saltato la colazione e oh, hey, baciato il suo insegnante alla sua festa di compleanno! Stava molto male.
Si buttò una coperta sulla testa per non sentire più niente. Faceva un caldo insostenibile sotto quella montagna di stoffa ma andava bene, davvero. Meglio lì sotto a soffocare che fuori.
Quando sentì la porta aprirsi e richiudersi si strinse più forte il piumone addosso, incassando la testa sotto il cuscino. Sua madre era una donna attenta e perspicace e, sebbene la amasse spassionatamente quando capiva che qualcosa non andava senza dire nulla, sapeva benissimo che avrebbe iniziato a fare domande al momento meno opportuno. Perché era troppo perspicace.
Il materasso si abbassò e Joe rotolò un po’ più in fondo alla sua alcova, pronto a fare del suo meglio per dare l’impressione di avere la polmonite piuttosto che il cuore spezzato.
Ma sua madre gli accarezzò solamente la testa da sopra le coperte; piano, giusto per fargli sapere che lei era lì quando ne avesse avuto bisogno. Il senso di colpa gli fece tirare fuori il naso.
Sua madre sorrise. « Ti serve niente? » Joe scosse piano la testa. « Okay, allora dormi. Ti porto qualcosa quando ti svegli. » Gli diede un bacio sulla fronte e si alzò.
Avrebbe voluto dirle grazie, chiederle di rimanere, ma aveva passato la notte in piedi ed era così stanco e si era già addormentato quando la porta della camera si chiuse.

Al suo risveglio Joe trovò: una spremuta d’arancia (bah, dottori - mai che ti facciano trovare qualcosa di buono quando stai male) sul comodino; un biglietto sotto la spremuta d’arancia che diceva che Patrick aveva chiamato tre volte; un totale di dieci chiamate perse sul cellulare da parte di un numero sconosciuto, Pete, Gabe ma soprattutto Patrick; un messaggio che avvertiva che la sua memoria era intasata e doveva cancellare qualche sms.
Bevve la spremuta perché non toccava cibo da quasi ventiquattr’ore, poi spense il cellulare e si ributtò sotto le coperte. Passò tutto il pomeriggio in uno stato di dormiveglia, troppo spossato per tenere gli occhi aperti ma con il cervello troppo pieno per lasciarsi andare, anche se era l’unica cosa che voleva; ad un certo punto sentì suo padre entrare in camera per mettergli un bicchiere nuovo sul comodino, e poi sfiorargli la fronte in cerca di una febbre che non c’era. Fece finta di dormire - non aveva la forza di affrontare i suoi.
Purtroppo sua madre non era dello stesso avviso.
Lo sorprese mentre usciva dal bagno, quella sera, pallido con un cencio e con due borse sotto gli occhi che però non la impietosirono. « Hai intenzione di saltare scuola? » Il suo tono era gentile, ma la posa da generale d’acciaio con cui si era piazzata al centro del corridoio lo era meno.
« Sì » mormorò Joe. Il solo pensiero di entrare nello stesso edificio in cui lavorava An- Hurley gli faceva venire voglia di fare dietro-front ed inginocchiarsi davanti la tazza del water. La scuola era la fonte di tutti i suoi problemi, l’immonda istituzione che gli rendeva impossibile frequentare A- Hurley e il posto dove era iniziato tutto.
Sua madre lo studiò con gli occhi ridotti a fessure. « Va bene » disse infine « ma non ti coprirò ancora oltre. »
« Sto male mamma, non devi coprirmi » biascicò superandola per strisciare in camera sua.
« Oh tesoro » sospirò sua madre. « Faccio la cardiologa, so riconoscere un cuore malandato. »
Joe la ignorò.

« Joe. Joooooe? …Joy? »
Il giovane Sam Trohman dovette abbassarsi per schivare un calzino. « È vivo, te lo lascio » comunicò a Patrick andandosene via.
« Tuo fratello è un santo. » Entrò in camera di Joe e si trovò davanti uno scenario apocalittico o, ad esser precisi, pseudo-ospedaliero. Le tende tirate, l’aria soffocante, una confezione di aspirine riversa sulla scrivania e un cumulo di coperte che si identificò come Joe con un grugnito. « Tu sei disperso. »
« Non ho voglia di tornare a scuola » Emerse da sotto il cumulo e rotolò a lato per fare spazio a Patrick. « Ho fatto un casino. »
« Lo so » all’occhiata stranita di Joe spiegò: « Quando sei sparito - rubando la mia macchina tra l’altro, grazie di avermi avvertito così non ho passato mezz’ora a sclerare - Andy è tornato alla festa con una faccia che, be’… non era molto contento di raccontare tutto ma Gabe non ha bisogno degli strumenti di tortura per far parlare la gente. »
Joe gemette. « Lo sa tutto lo stato adesso, vero? »
« No » Patrick fece un sorriso soddisfatto. « Abbiamo messo a tacere la cosa. Pete deve ancora riprendersi. »
Joe non aveva neanche la forza di chiedere cosa fosse successo a Pete. « Mi odia » piagnucolò.
Patrick sospirò. « Sai qual è la prima cosa che ha fatto? Mi ha chiesto il tuo numero. »
« Per avvertirmi che mi avrebbe denunciato per… per, tipo, molestie. »
Patrick aveva troppo tatto per ricordargli che, se proprio, il minore era lui e sarebbe finito dietro le sbarre Hurley. Non era lì per buttarlo giù, d’altronde. « Ti va di accompagnarmi al prom? »
Ci fu un lungo attimo di silenzio. « Prom, hai presente? Brutta musica, più brutti vestiti, teenagers che si accoppiano? » alzò gli occhi al cielo di fronte alla faccia da tonno di Joe. Lo sapeva che si era scordato.
« Ma… » si prese il viso tra le mani. « Dove lo trovo ora un vestito adatto?! »
« Ah ah ah » grugnì Patrick. « Mi serve qualcuno che mi ci porti, visto che mia madre mi ha tolto la macchina da qui alla laurea. »
« E Anna? » chiese Joe perplesso. La ragazza aveva dato ampia dimostrazione della sua predilezione per Patrick in tutte le lezioni che avevano insieme.
Patrick fece una smorfia. « Quella matta vuole stuprarmi. »
« Anche Pete. »
« Insomma, vuoi venirci o no? » disse asciutto.
« No » non gli interessava minimamente. Non gli interessava nulla di quello che aveva a che fare con la scuola. « …e vorresti passare il prom con me? »
Patrick arrossì ancora di più. « Non voglio passare il ballo con te! Ho promesso ai ragazzi del gruppo di sistemare gli amplificatori e Brendon mi picchia se gli do buca. »
« Non voglio venire » si girò verso il muro.
Ora ne aveva abbastanza. « Trohman » iniziò, alzandosi per puntare un dito minaccioso verso la schiena di Joe « Non ho intenzione di lasciarti a macerare nella tua depressione. Dopo avermi abbandonato ad una festa piena di pazzi, ed avermi rubato la macchina, e non aver risposto ad una sola delle mie chiamate per due giorni, il minimo che puoi fare è strisciare a prendere le chiavi della tua auto e portarmi a quel maledetto ballo! »
« …mi vesto. »

Mai il suo odio verso la scuola era stato così viscerale. Gli sfavillanti, scintillanti, orripilanti addobbi con cui era stata riempita la palestra per l’occasione non aiutavano. Ah, quanti progetti aveva fatto per quel ballo! Folli, impossibili, ma così tanti. E dopo tutto quello che era successo si era persino scordato che fosse arrivato il giorno fatidico.
Patrick stava schivando gli assalti gioiosi di Brendon e, tra una pausa e l’altra, sistemando l’impianto della sala, e lui era solo soletto ad uno dei tavoli a bordo pista, la testa abbandonata sulle braccia incrociate. Che schifo i balli.
Qualcuno spostò la sedia al suo fianco, ma lo ignorò. Era lì per fare l’autista, non per accogliere i primi arrivati in vena di conversazione. Poi una mano si posò sulla sua spalla, seguita da un “Joe” mormorato, e scattò in piedi il più lontano possibile.
Hurley lo guardò con espressione ferita. « Volevo chiamarti » tentò.
« Non è successo niente » sbottò Joe, le parole che si accavallavano l’una sull’altra che non eguagliavano minimamente la velocità del suo cuore impazzito, che gli era volato in gola. « Mi sono sbagliato, non volevo farlo, è stato un equivoco, ti prego non odiarmi. »
Il viso di Hurley era pallido e sbattuto quasi quanto il suo, e il sorriso stiracchiato che vi si disegnò sopra era solo inquietante. « Penso che ci sia stato davvero un equivoco. »
« Dio sì- »
« Vuoi uscire con me? »
« …non credo di aver capito. »
Non poteva aver capito. Probabilmente Hurley aveva detto “vuoi uscire di qui” o “vuoi uscire dalla mia vita” o “mi repelli, come posso non odiarti”.
Quindi probabilmente si stava alzando per prenderlo a pedate, e si stava avvicinando per prenderlo meglio a pedate, e gli stava prendendo il viso tra le mani perché forse preferiva una testata e lui non si stava muovendo perché si meritava di finire in ospedale, a soffrire su un letto asettico.
Quello che non si meritava, e che non si aspettava, e che era chiaramente un’allucinazione e a breve si sarebbe svegliato ancora sotto il suo cumulo di piumoni, era la barba di Andy che gli solleticava le guance.
Lo stava baciando a stampo.
In palestra, sotto la globosfera. Prima del ballo.
Joe era già in ospedale ed era in coma, non c’era spiegazione.
« L’equivoco » disse Andy amabilmente « è stato credere che tu mi fossi indifferente. Perché mi sei molto poco indifferente, e mi piacerebbe portarti da qualche parte… quando avrò finito la mia supplenza qui, si intende. »
« …non credo di aver capito. »
« TI AMMAH! » strillò Brendon, e da quando tutti si erano messi a guardarli? Patrick si nascose il viso tra le mani.
« …continuo a non capire. Mi dai qualche ripetizione? »
Andy rise e lo abbracciò stretto. Il loro pubblico, in perfetto accordo con i pensieri di Joe, fece un verso di disappunto alla scena romantica mancata.
Ma andava bene lo stesso. Fino alla fine della scuola, sarebbe andato bene.

fall out boy, panic at the disco, [pg13], cobra starship, fall out boy » pete/patrick, the academy is..., multiband » cs/tai... » gabe/william, my chemical romance, !will, fall out boy » andy/joe, # bandom secret santa

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