Titolo: Bow ties are cool.
Autrici:
p_will,
waferkya,
perlinha.
Beta: le tre qui sopra in ordine sparso.
Fandom: Game of Thrones RPF
Pairing: Richard Madden/Kit Harington
Rating: R
Conteggio Parole: 7164 (
FDP)
Prompt: Down, down, down. Sì, quella delle Lollipop.
Warning: slash, p0rn, oral!sex
Disclaimer: se fossero nostri non sarebbero qui per raccontarlo. Ok, non sono qui per raccontarlo lo stesso, ma ve lo raccontiamo noi.
Note: ASDHSKJFAJBLBLBLBLBLBL VOGLIAMO FARE UN ALTRO GIRO ♥
I’m going down down down down
trying to get away
Richard è accucciato dietro un mucchio di cappotti impacchettati, ma non si sta nascondendo. Non precisamente. Insomma, non è rintanato in un bagno con le luci spente a trattenere il respiro per non farsi sentire da nessuno, stava solo… cercando un posto appartato. Se il posto appartato casualmente blocca alla vista la maggior parte del suo corpo è semplicemente un caso, e comunque gli si vedono i piedi. Perché non si sta nascondendo, vedete? Sta facendo una telefonata.
Sta cercando di fare una telefonata, per la precisione, ma come legge di Murphy vuole il momento in cui hai più bisogno di raggiungere qualcuno è quello in cui l’operatore ti spedirà inevitabilmente in segreteria telefonica, tutti e sette i tentativi. Quindi più che altro è non-nascosto dietro un mucchio di cappotti a maledire il mondo, la sua copertura telefonica, e il cellulare di Kit. Vorrebbe poter maledire Kit, ma ad immaginarselo in attesa davanti al bar, con una sigaretta tra quelle labbra soffici e le sopracciglia che si curvano preoccupate all’insù mentre lo cerca con lo sguardo prima a destra poi a sinistra e poi di nuovo da capo, sente solo una morsa allo stomaco che gli impedisce anche solo di pensar male di sua nonna. Il cellulare non è difeso nella sua bolla di senso di colpa, però.
All’ottavo tuu tuu- Questa è la segreteria telefonica del numero… riattacca con un ringhio stressato e inizia a comporre un messaggio con forse un po’ più forza del necessario. I tasti scricchiolano minacciosi mentre scrive contrattempo sul set, forse faccio tardi -xx e poi resta a fissare lo schermo per un altro paio di minuti indeciso se aggiungere qualche x, infilarci una faccina, o rimpinzare il messaggio di scuse a caso. Alla fine decide di saltare scuse e faccine ma completa il tris di bacini, preme invio, e fa un sospiro.
«Signor Madden, ecco dove si era nascosto!»
«Non mi ero nascosto,» dice con un sorriso tirato al viso dell’intervistatrice, che sbuca radioso da due cappotti scansati all’improvviso. Si tira su e i pantaloni assurdamente stretti che gli hanno infilato con gran dispiego di forze fanno sentire la loro malvagia presenza, stringendo in tutti i posti sbagliati. A fine servizio potrebbe non essere più in grado di fare figli, si rende conto mentre alza una gamba per scavalcare la base dell’appendiabiti e la stoffa tira come una seconda pelle troppo aderente.
Non è nemmeno iniziato che già non vede l’ora di fuggire.
*
I’m going down down down
bitter melody
Nessuna giornata è davvero una bella giornata se Kit Harington ha bisogno di prendere la metropolitana per andare da qualche parte, perché vuol dire, innanzitutto, che s’è dovuto vestire, doversi vestire è un’attività universalmente riconosciuta come molto, molto, molto spiacevole, no? Appunto. E poi, comunque, vuol dire che è dovuto uscire di casa, perché, per quanto gli piacerebbe, in tutta onestà, ancora non vive in un posto talmente grande da avere bisogno di prendere la metropolitana per spostarsi dalla camera da letto alla cucina. La palazzina in cima alla quale un architetto molto audace è riuscito a strizzare quella specie di sottoscala mansardato che è il suo appartamentino non ha neppure l’ascensore, ma Kit è innamorato di casa propria, del divano, specialmente, perciò il fatto che sia dovuto uscire, ecco, pure quello è una cosa incredibilmente negativa.
E, ancora, Kit non è che poi abbia un senso dell’orientamento così straordinario - che è un modo come un altro per dire che, no, non è capace di non perdersi, pure quando tutto quello che deve fare è seguire delle dannate frecce colorate appiccicate dovunque sulle pareti. A prova d’idiota, no? Ma non a prova di Kit, che già fa fatica a ricordare con precisione dov’è che abita Richard - anche se è a casa di Richard qualcosa come cinque giorni alla settimana, ma la spiegazione qui è che, poi, quando smette di stare da lui, Richard a casa ce lo riporta in macchina, e nel frattempo non è che sono usciti poi tanto, non solo dal suo appartamento, ma anche solo dalla camera da letto, per dire; oh, là dentro Kit non si perderebbe mai, - per cui, figurarsi, gli basta imboccare la scala mobile e già non ha più la minima idea di dove deve andare.
Vaga per un po’ con aria spaesata, tentando di dare un senso alla mappa della metropolitana che ha avuto la geniale idea di portare con sé, ma la poveraccia non si rivela di grande aiuto, dal momento che, anche quando Kit l’ha sfregata tre volte, non ne viene fuori nessun Genio panciuto ad accompagnarlo fino al treno che deve prendere, possibilmente tenendolo per mano.
Alla fine, si risolve a domandare ad un tizio che se ne sta seduto su uno sgabello con la schiena appoggiata alla parete piastrellata, a suonare una chitarra che ha tutta l’aria di essere sopravvissuta perlomeno a una guerra mondiale. Kit se ne accorge mentre gli si avvicina, che il tizio sta strimpellando una canzone tristissima, tanto lenta che potrebbe essere una marcia funebre. Quasi perde coraggio e quasi abbandona il proposito di chiedere informazioni; si fa forza, però, ripensando al messaggio di Richard - forse faccio tardi, ha detto; forse, e faccio tardi, niente che non lasci ad intendere che potrebbe essere già lì mentre Kit è colpevolmente incapace di trovare la linea giusta della metropolitana da prendere, - ripensando a quella tripletta di baci che ha aggiunto lì in fondo e che lui s’è sentito sulla pelle, per quanto sia un pensiero patetico e triste, e viene avanti a testa alta, pronto ad affrontare li nemico, e a farsi dare indicazioni da lui.
*
Avrebbe dovuto saperlo che “forse faccio tardi” è una iattura quasi peggiore di “potrebbe sempre piovere”. Dopo l’intervista - stranamente rapida e indolore, perciò ha il sospetto che verrà ridotta ad un taglia e cuci dei momenti salienti e quindi durerà dieci secondi in tutto - è dovuto ripassare sotto le grinfie del parrucchiere (a quanto pare qualche ciocca si era arricciata nella direzione sbagliata), della truccatrice (a quanto pare respirare rovina il fondotinta), del catering (a quanto pare, perdere tempo fa venire fame) e infine di nuovo da un costumista.
«Guarda come l’hai ridotto,» protesta, schioccando la lingua di fronte allo stato del suo cravattino. Si sente in colpa per averci giocato durante tutta l’intervista, ma era nervoso e aveva bisogno di un antistress e il papillon era lì, e lo stava un po’ strozzando. Però non è così tanto spiegazzato da avere bisogno di venti minuti di sistemazione per essere portabile, suvvia.
L’uomo gli liscia per la sedicesima volta il colletto, raddrizza di quel millimetro o due il fiocco e lo lascia andare con una pacca sulla spalla. «Cerca di resistere, per favore.»
«Posso provarci,» risponde, le mani che già prudono dalla voglia di allentarlo, ma fa il bravo bambino e si siede al suo posto con le manine tra le ginocchia - per evitare ogni tentazione - ad aspettare il suo turno. È già in ritardo di quaranta minuti e probabilmente Kit l’ha già mandato al diavolo per fuggire con un musicista di strada o la cameriera del bar. Se lo meriterebbe, d’altronde, non è questo il modo di trattare il proprio non-sa-nemmeno-lui-cosa. Se arrivasse all’appuntamento e trovasse un bigliettino attaccato ad un lampione dove Kit gli spiega come lui e Thomas, il musicista della metro, si sono conosciuti e hanno capito di amarsi follemente con uno sguardo e che hanno deciso di comune accordo di espatriare in Canada per sposarsi e adottare tanti bambini cinesi, Richard non avrebbe nulla da ridirgli. Gli si spezzerebbe il cuore, sì, ma annuirebbe compunto ed entrerebbe nel bar, solo, in ritardo, e mediterebbe sulla propria sorte e sulll’ingiustizia di essere coinvolti in interminabili servizi fotografici. Poi entrerebbe in bagno e si impiccherebbe col cravattino.
… meglio passare a pensieri più allegri. Rassicurandosi che è ancora presto e Kit non lo abbandonerà per il primo passante, fa un lungo respiro e si mette a pensare ad un modo per ingannare il tempo.
*
Kit sta contando: una, due, tre, quattro, cinque, sei cicche di sigaretta buttate alla rinfusa attorno ai suoi piedi, l’ultima che ha lasciato cadere che ancora sfumacchia un po’, non l’ha calpestata per bene. Se continua con questo ritmo, si troverà rapidamente assediato da una palizzata ad altezza di formica di filtri, un girotondo di tabacco bruciato e ovatta ingiallita, e magari arriverà ad accumulare abbastanza mozziconi per farne una montagnola, una piramide, uno ziqqurat, un Olimpo, un acquedotto, uno svincolo dell’autostrada che lo porti fino al set fotografico dove Richard ha chiaramente trovato la morte.
Lo sta aspettando da, quanto? Tre quarti d’ora? Richard è in ritardo come nemmeno uno scuolabus la mattina del tuo primo giorno di liceo, e dire forse faccio tardi non serve a coprire un buco temporale di più di un’ora e mezza. Kit ha fatto fuori sei sigarette, che sarebbero state molte di più se non fosse stato costretto a controllarsi e razionarle, dal momento che ha dietro soltanto un pacchetto già mezzo iniziato, e non può davvero andare a cercare un tabaccaio, perché se poi Richard arriva mentre lui è via?
In circostanze come questa, Kit è convinto che l’ignoranza sia la cosa più santa, per cui si impedisce con ogni fibra del proprio essere di tirare fuori il cellulare e controllare esattamente da quant’è che sta lì ad aspettare. Sceglie un ottuso, educato far finta di niente per cui, quando Richard arriverà - se mai arriverà; Kit ha smesso di fumare qualcosa come quattordici respiri fa e ha già avuto il tempo di elaborare ottocentoventisei scenari apocalittici per cui domani a quest’ora starà piangendo sulla tomba di quel cretino d’un ritardatario, ha immaginato già pure i titoli dei giornali: Robb Stark rapito dagli alieni, sprofondato in un varco spaziotemporale nascosto nel cesso di casa sua, presunta assunzione al cielo, precipitato l’aereo con cui stava scappando in Cecoslovacchia con l’amante, - se Richard arriverà, dunque, scusandosi convulsamente per il ritardo mostruoso, la faccia arricciata in un’espressione ai limiti del contrito, gli occhi serrati e le mani giunte davanti alla testa, a profondersi in inchini mortificati e parolacce contro se stesso e il mondo e la categoria dei fotografi tutti, allora Kit si lascerà sfuggire un sorriso e dirà, ma no, sono appena arrivato.
Poi magari non è proprio l’ignoranza che lo farà parlare così - magari è quella stessa cosa per cui Richard lo guarda e lui puntualmente s’illumina come un semaforo, rosso, verde, arancio e tutte le sfumature intermedie, - ma, insomma, Kit sta per avere un attacco di panico per quanto si annoia, e Richard doveva essere qui alle sei e invece ora - la forza di volontà non è mai stata granché il punto forte di Kit, per cui, ecco che in un millesimo di secondo ha già il cellulare tra le mani - sono le sette e ventitré, ventiquattro, venticinque, e di Richard neppure l’ombra, per cui, ecco, se cominciasse a blaterare che la terra è piatta e i continenti sono ottantacinque, coraggio, dategli torto. No, seriamente.
*
Sono le sette e ventitré.
Ci sono grosse, grasse cifre digitali che lampeggiano bianche e insistenti su qualsiasi schermo posi gli occhi - e sono tanti - e non ci sarebbe niente di particolare, davvero, sono una delle cose meno interessanti in tutto lo studio, se non fosse che Richard doveva vedere Kit alle sei. Ossia un’ora fa. Un’ora e ventitré, ventiquattro minuti fa, ottantaquattro minuti, un numero esorbitante di secondi che non avrebbe mai pensato di scoprire, ma ehi, a quanto pare è così disperatamente annoiato che potrebbe mettersi persino ad ammazzare il tempo con delle moltiplicazioni!
«Guarda in camera, ecco, bravo, perfetto!»
Sarebbe molto meglio se il fotografo smettesse di dire “bravo, splendido, perfetto!” tra uno scatto e l’altro, visto che chiaramente non può essere perfetto se sono ore che gli gira intorno facendogli foto anche ai peli del naso (che in effetti avevano provato a sistemargli, al trucco).
«Adesso più distante, fai il distante, sii raccolto, oh, che splendido broncio!»
Non è un broncio, è l’espressione di chi vuole uccidere tutti e subito.
Che assomiglia ad un broncio, okay, ma è l’intenzione che conta.
«Bene, ragazzi, muovetevi a cambiare le luci e si ricomincia l’ultimo set! Richard, torna pure allo sgabello.»
L’intenzione di Richard in questo momento, per esempio, è quella di prendere lo sgabello per le sue gambette sottili e sbatterlo in testa alla prima cosa che gli capita sotto mano, lampada o tecnico delle luci che sia.
Gli hanno fatto persino più foto di sua madre il suo primo giorno di scuola - c’è un album intero nella teca nel salotto della famiglia Madden con le foto di “Rich va a scuola”, giusto per dire - e Richard non ne può più. Basta. Stop. È al limite. Vuole solo strisciare fino al bar e scusarsi del ritardo fino a perdere il fiato e poi, una volta perdonato, perché il suo Kitty alla fine lo perdona sempre, strisciare un altro po’ fino alla prima superficie piana e imbottita, possibilmente una sedia, e annegare in una tazza di tè. O rannicchiarsi contro Kit in un angolo del locale e annegare nel profumo del suo collo, che nel punto in cui diventa spalla smette di sapere di dopobarba e diventa un miscuglio delizioso di cotone e pelle.
Ma a quanto pare non è il momento adatto per cadere dallo sgabello e mettersi a fare le fusa per terra, tanto più che l’espressione da trota pescata con l’esplosivo, che con la coda dell’occhio vede riflessa in uno degli schermi che lo circondano, non sembra proprio quella che il fotografo intendeva quando diceva “bello, imperscrutabile e misterioso”, quindi deve ricomporsi. Fa un bel respiro, conta fino a dieci, esegue tutti gli ordini e li precede addirittura, comportandosi da perfetto modello e ignorando i minuti che ticchettano lenti, sempre più lontani dall’ora del suo appuntamento. Non rotola a terra strappandosi i capelli tra le lacrime isteriche nemmeno una volta, e questa gli sembra una grande conquista. Il parrucchiere del set potrebbe avere un colpo apoplettico se gli giocasse un tiro del genere, dopotutto.
*
Kit sta ancora aspettando. La raccolta di mozziconi attorno a lui si è arricchita ancora e lui sta cominciando a pensare che, magari, sarebbe stato meglio se si fosse cercato un cestino, invece di contribuire a trasformare il marciapiede nell’equivalente tabagista del pavimento di una fumeria d’oppio, ma, sorprendentemente e forse neanche troppo, il mantenimento del decoro pubblico non è proprio la prima delle sue preoccupazioni, al momento. Neanche la seconda o la terza, in realtà, e forse non ci figura proprio, sull’elenco delle cose che stanno minacciando la sua sanità mentale, perché Richard è in ritardo, e lui non sa che fare.
Ha provato a chiamarlo, quando ha trovato la forza di ammettere che forse - forse - stava cominciando a farsi un po’ troppo tardi, e puntualmente si è ritrovato ad essere reindirizzato alla segreteria telefonica, e poi ha smesso, quando ha cominciato ad avere la sensazione che l’operatrice dalla voce metallica e impersonale - un computer, con ogni probabilità, - lo stesse prendendo per il culo, burlandosi dei suoi due o trecento tentativi di mettersi in contatto con Richard, tentativi che, comunque, non lo qualificano affatto come essere umano chiaramente psicolabile e con seri problemi a gestire gli eventi inaspettati.
Perciò, a questo punto gli sembra che le opzioni rimaste siano solo due: o Richard è scappato col fotografo, oppure lo hanno ammazzato per davvero. Kit è a tanto così dal mettersi pure a passeggiare su e giù con le mani nei capelli, giusto per mettere la ciliegina candita in cima alla sua interpretazione dello stupratore seriale - la signora che abita al primo piano del palazzo di fronte al bar è già uscita sul balcone per ritirare il bucato, innaffiare dei gerani che hanno tutta l’aria di essere secchi da un paio di decenni e poi per appendere di nuovo ad asciugare i panni che aveva tolto mezz’ora prima, - quando gli viene il brillante pensiero che, ehi, non è che debba proprio per forza restar lì a rendersi ridicolo, annoiarsi oltre ogni possibile limite umano e convincere chiunque viva in quella strada a chiudere in casa le proprie figlie e le proprie mogli, e a sguinzagliargli appresso cani e poliziotti.
È un uomo, ormai, ha due gambe e due piedi e una mappa della metropolitana tutta spiegazzata, ficcata nella tasca posteriore dei jeans, perciò può benissimo andare e, in qualche modo, raggiungere il posto che ha palesemente fagocitato il suo Richard. Mentre s’incammina nella direzione dalla quale ha il pallido ricordo di essere arrivato, la quantità spropositata di giorni e settimane e mesi trascorsi immerso nel personaggio di Jon Snow suggeriscono a Kit che sarebbe il caso di procurarsi un’arma di qualche tipo, giusto nel caso in cui si rendesse necessaria per davvero un’azione di forza. Gli manca Lungo Artiglio, tutto a un tratto, anche se era solo una roba farlocca che lui, per la maggior parte delle scene, agitava in tutti i modi sbagliati; impiega giusto tre passi per scuotere via il pensiero, le punte dei riccioli che gli pizzicano leggermente il viso da tutte le parti.
Arriverà allo studio, e non sarà successo niente di paranormale e non ci saranno schizzi di sangue né nessuna tragedia e neppure un ricciolo ramato fuori posto; ne è sicuro, vuole esserne sicuro, ma quando un’ambulanza sfreccia a sirene spiegate attraverso un incrocio, due strade più avanti, Kit non riesce a fare a meno di rabbrividire, con un pessimo presentimento a precipitargli come un cubetto di ghiaccio giù giù giù lungo la spina dorsale.
*
Quando sono le otto meno cinque (le otto meno cinque, Dio, vuole morire) e non c’è un pelo del suo naso che non sia stato fotografato da qualsiasi angolazione, arriva finalmente il permesso di smontare tutto. Visto il flebile brusio di vittoria che si leva da ogni angolo dello studio, non dev’essere il solo pronto a mangiarsi le mani fino al gomito pur di andarsene a casa.
Resta indietro appena il tempo di assicurarsi che non ci siano problemi con le foto o le riprese, e che quindi possa davvero darsela a gambe senza il rischio di essere chiamato ad un orario assurdo della serata per sentirsi dire che deve rifare tutto da capo, poi si ferma a scambiare qualche breve parola con gli altri modelli e i tecnici che si sono già rimessi al lavoro per smontare tutto, quel tanto che basta per non sembrare un trombone pieno di sé che pensa solo alla piega delle proprie ciglia (benché la conversazione verta più o meno univocamente su è stata la giornata più lunga della mia vita, dov’è il mio letto, qualcuno mi porti a casa subito) prima di lanciarsi verso l’uscita con uno scatto da centometrista. Schiva una ragazza che porta in spalla un riflettore che deve pesare il doppio di lei, rischia di atterrare un cameraman alle calcagna dell’intervistatrice alle calcagna di qualcuno di molto più veloce di entrambi, e quand’è ad appena qualche metro dalla porta, la sua strada verso la libertà viene bloccata dal metro e cinquanta di costumista.
È solo grazie ai riflessi sviluppati dagli allenamenti sfiancanti fatti per sembrare un soldato quantomeno decente in Game of Thrones che riesce a frenare in tempo e non spalmarla contro il muro. Anche se probabilmente lei avrebbe potuto respingerlo con la sola forza dell’irritazione, che le divide le sopracciglia con una profonda ruga di contrarietà.
«Buonasera, signor Madden.»
«Buonasera, signora… » Strizza gli occhi in cerca di una qualche targhetta col nome ma niente, e non se lo ricorda. Per gli dei vecchi e nuovi e anche gli altri che si sentono in vena di dargli retta, che non voglia mettersi a fare conversazione proprio ora. «Splendido shoot, non trova?»
Lei spunta qualcosa nella sua cartellina con una penna lucida come una spada e altrettanto minacciosa, dopodiché torna a guardarlo truce. «Sa cos’è che potrebbe rovinare uno shoot del genere? Il furto.»
Richard sbatte le palpebre sperando che tutto acquisti un senso, ma non succede niente.
«Il furto di vestiti.»
… no, niente, vuoto totale.
«Oh, per l’amor di- l’appropriazione illecita di pezzi della collezione. Ha presente, quando un modello esce dallo studio senza riportare il completo in cui ha posato?»
Richard sbatte di nuovo le palpebre. La costumista incrocia le braccia al petto ficcandosi la cartellina sotto un gomito e lo fissa. Richard abbassa gli occhi e si dà mentalmente dell’idiota.
«Giuro che tutto ciò non è assolutamente come sembra… okay, probabilmente è come sembra,» ammette di fronte ad un eloquente sopracciglio alzato «ma c’è un buon motivo. Un’emergenza. Una questione di vita o di morte. Sono in ritardo e devo andarmene ora.»
«A meno che non sia in ritardo al suo trapianto di fegato, signor Madden, le assicuro che c’è tutto il tempo di riconsegnare il completo.»
«Lei non capisce, sono schifosamente in ritardo-»
«Le ripeto, signor Madden,» ringhia lei, con un tono che spiega facilmente come una donna alta un tappo e un barattolo possa essersi fatta strada nel suo ambiente (ossia a cartellinate in faccia) «che può prendersi tutto il tempo che vuole per rimettere quei vestiti al loro posto, ma se non si muove entro cinque minuti sarò costretta a chiamare la security.»
Richard non è troppo grande per buttarsi alle sue ginocchia e mettersi a piangere. Visto però che ci sono telecamere a tiro e il suo agente lo scuoierebbe se facesse una cosa del genere, e che chiaramente la carta “lei non sa chi sono io” sarebbe utile quanto una racchetta da tennis ad una partita di rugby, si trova costretto ad adottare un’altra strategia. Fa un sospiro e si passa una mano tra i capelli, facendosi finire un paio di ricci sugli occhi. «La prego, signorina,» mormora, avvicinandosi un po’ - ma rispettosamente! - con un sorriso ammaliante in volto «c’è una persona che mi sta aspettando ed è un appuntamento importante, sono sicuro che anche a lei è capitato di arrivare tardi da qualcuno e saprà cosa si prova… »
«No,» dice, guardandolo come se fosse un animale fastidioso che vorrebbe schiacciare con la sua cartellina «e non sono una signorina da quando avevo quattordici anni. Vada a spogliarsi ora.»
Con la morte nel cuore, Richard fa dietro front e va verso i camerini per togliersi quello stupido cravattino di dosso e, possibilmente, dargli fuoco.
*
Se gliel’avessero raccontato due ore fa, che sarebbe riuscito ad arrivare dove voleva senza neppure troppa fatica, Kit sarebbe scoppiato a ridere quasi istericamente, cascando di culo sul marciapiede già mezzo foderato di mozziconi di sigaretta, e magari la signora del palazzo di fronte si sarebbe decisa a chiamare la polizia e l’avrebbero portato in manicomio. E invece, per fortuna, non ha incontrato nessuno che gli predicesse il futuro, e adesso è lì che sgattaiola furtivamente nell’elegante palazzone che ospita lo studio del fotografo del maledetto signor Porter. Kit è costretto praticamente a gattonare, per riuscire a superare l’ingresso senza farsi vedere dal portiere semiassopito sul bancone, ma da lì in poi il percorso è facile: scale, scale, scale, scale fino al secondo piano e poi trovare un modo per sgattaiolare, ancora, fino al set vero e proprio. Si prospetta una giornata di grandi sgattaiolamenti, avrebbe detto, stamattina, l’oroscopo di Kit, se solo si fosse preso la briga di leggerlo.
Riprova a chiamare Richard, tra uno scalino e l’altro, perché non si sa mai, magari hanno finito due minuti fa e adesso sta andando via e ha preso l’ascensore e Kit non vuole rischiare di aver fatto tutta questa strada - senza perdersi neppure una volta! La forza dell’amore, davvero, - inutilmente. Segreteria telefonica, di nuovo, e di nuovo la voce sintetica di una signorina sconosciuta che sembra irridere il suo essere un ragazzino perdutamente perso per Richard Madden - e chi nell’universo creato sarebbe capace di rimproverarlo per una cosa del genere, comunque? Kit ancora fa fatica a capirlo, - e allora lui continua a salire, imbronciandosi appena.
Appesa sulla prima porta a sinistra c’è una targa grande quanto il citofono di casa sua, con inciso sopra un nome spagnolo terribilmente altisonante e il laconico sottotitolo di fotografo. Kit si morde le labbra e pensa che magari dovrebbe bussare, ma non c’è il campanello. Sta lì ed esita, dondolandosi un po’ sui talloni, incerto sul da farsi, quando la porta si spalanca di botto e per fortuna che lui non s’era avvicinato più di tanto, perché altrimenti se la sarebbe beccata direttamente sul naso. Una truppa di quelli che suppone siano tecnici delle luci viene fuori dall’appartamento a passo di marcia, quasi mandando Kit a gambe all’aria. Li sente brontolare qualcosa a proposito di uno stupido riflettore che fa una stupida luce troppo gialla per gli stupidi pantaloni beige che quello stupido fotografo ha a tutti i costi insistito per far indossare ad un altro stupido modello, e mentre ridacchia mentalmente, immaginandosi quanto debba essere insopportabilmente ridicolo un uomo con addosso dei pantaloni beige, Kit approfitta del momento per infilare la porta e correre dentro, andando a rifugiarsi dietro il primo separé che vede.
Sono dentro, brontolerebbe contro il bavero della giacca, se avesse un microfono nascosto lì e qualche centinaio di poliziotti stipati in un camioncino al piano terra con le orecchie tese ad aspettare una sua comunicazione. Sfortunatamente, la sua vita è tutto meno che un film di spionaggio, per cui Kit deglutisce, si sistema il jeans sui fianchi, liscia due pieghe sulla maglietta e si ficca un ricciolo dietro l’orecchio, pregando che nessuno si accorga di lui, quando uscirà fuori dal suo nascondiglio per andare a cercare Richard.
E nessuno si accorge di lui, davvero, miracolosamente; però lui si accorge di Richard, subito, appollaiato su uno sgabello al centro di una pozza di luce troppo gialla, che ha l’espressione più miserabile dell’universo e ha addosso un pantalone beige cucito per qualcuno con venti centimetri di gambe in meno. E un papillon.
Un papillon. Kit sgrana gli occhi, poi li chiude, li riapre e, sì, niente, Richard è ancora lì, vestito in quel modo, e lui ha bisogno di una sigaretta, di una rastrellata in mezzo agli occhi, di una bottiglia di vino da scolarsi in un unico sorso perché c’è tutta una serie di cose che gli si agita tra le tempie, e nessuna di quelle è una reazione normale - una risata, per esempio, perché l’hanno conciato come un pagliaccio, povero Richard, o una battuta squallida, o il bisogno fisico di denudarlo perché è vestito da coglione, e non per il semplice fatto che Richard nudo è sempre meglio di Richard ingolfato dentro degli abiti. No, ecco. Kit sta avendo tutti i pensieri sbagliati e poi Richard si raddrizza sul suo sgabello, evidentemente il fotografo deve essersi rotto le palle di aspettare il riflettore nuovo e vorrà arrangiarsi con questa luce giallissimamente gialla, e mette su l’espressione seria e irresistibile da photoshoot.
Kit ha un brivido che non si prende neanche il disturbo di tentare di reprimere e, mentre tenta con la forza di scollare lo sguardo dalla faccia impossibilmente attraente di Richard, si accorge della tizia alta, no, bassa poco più di un metro che lo sta fissando con aria truce dall’altra parte dello studio. Si ricorda, di punto in bianco, che è in un posto teoricamente off-limits per i non addetti ai lavori e capisce, per quanto gli pianga il cuore e un po’ anche gli occhi - per davvero, - che farebbe meglio a trovare un posto dove tornare a nascondersi, prima che la sicurezza venga a sbatterlo fuori a calci.
Si volta, allora, pronto a fuggire dietro il separé da cui è appena emerso, ma si rende conto con sommo orrore che una ragazza se lo sta portando via in tutta tranquillità, per andarlo a sistemare chissà dove. Trattiene a stento il panico e si guarda intorno, evitando accuratamente di permettersi di scrutare la zona dell’universo in cui esiste Richard e il suo terribile pantalone e il suo ancor più terribile papillon che a Kit, possiamo ammetterlo, piacciono da impazzire, e finalmente la vede: la porta di quello che può essere solo un camerino, a dar retta al foglio appiccicato con lo scotch su cui una grafia frettolosa ha scribacchiato ‘Richard Madden’. Kit non si permette di esitare neanche per un altro minuto, e si fionda in quella direzione, più veloce di un fulmine.
*
«Argh,» esclama, sbattendo la porta per entrare in camerino con soddisfacente violenza. Visto che non c’è nessuno - non un truccatore, non un agente, non un rompicoglioni qualsiasi dei diciottomila che sembrano essersi dati convegno nello stesso studio e alla stessa ora del servizio - lo ripete, più forte e con più convinzione, nella speranza che la cosa lo faccia sentire meglio.
Non ha molto effetto.
Si scalcia via le scarpe mentre entra nel camerino e si richiude la porta alle spalle con un altro botto, rischiando di spaccarsi qualsiasi cosa quando gli rimane un calzino impigliato e la scarpa non se ne vola via. Sembra una candid camera, e la voglia di piagnucolare torna rapida e prepotente. Dare una testata allo specchio, però, potrebbe avere degli sgraditi effetti collaterali, quindi si limita a infilarsi le mani tra i capelli, affondando le dita nei ricci per scombinarli e togliersi quell’impalcatura di lacca e gel che gli hanno messo in testa, tornare se stesso, ritrovare la calma. Quando sulla sua testa c’è un sufficiente disastro smette di tirarli da tutte le parti e si passa le mani sul viso, premendosi i palmi contro gli occhi. Un bel respiro, l’ennesimo, poi si riparte.
Peccato che, prima ancora che possa soltanto abbassare le mani al cravattino per slacciarlo, qualcuno lo placchi d’improvviso alle spalle.
*
I'm going down, down
on my knees.
Richard si rifiuta di credere che Kit sia davvero lì, che quello non sia un miraggio, un orribile scherzo della propria mente, una specie di conforto da parte del suo cervello agonizzante che esala le sue ultime sinapsi prima di schiantarsi nell'oblio dell'autocompatimento per aver perso per sempre l'uomo che più ha amato in vita sua. Si sta giustappunto giudicando orribilmente patetico, quando le labbra di Kit, le inconfondibili, uniche due labbra (e ogni tanto ci pensa, che se Madre Natura fosse una tipa intelligente, a lui ne avrebbe messe almeno altre quattro paia) dell'uomo che inverosimilmente non ha perduto senza rimedio a vantaggio di un suonatore di chitarra scassata o un barista o un passante qualsiasi, ma che altrettanto inverosimilmente è lì dietro di lui e lo sta girando, seggiola e tutto, verso di sé, si posano sulle sue, senza nemmeno uno straccio di preambolo, un ciao sono qui perché mi ero rotto di aspettare e oltretutto ho pure finito le sigarette e non avevo voglia di ricomprarle e pregiudicarmi i polmoni per sempre nell'attesa di te che non arrivavi, ma quanto cazzo ti ci hanno tenuto sotto quei riflettori gialli?, un qualcosa che lasci presagire che quello che lo sta baciando in maniera così famelica e odorosa di Lucky Strike sia davvero il suo Kitty e non, per esempio, un bellissimo parto della sua mente. Un parto talmente ben riuscito che vorrebbe adottarlo e dargli un nome.
Richard sembra assolutamente stupefatto, anzi no, proprio incredulo, mentre risponde, sì, al bacio, ma non chiude gli occhi perché sono troppo spalancati dalla sorpresa e ci dev'essere una qualche temporanea paresi a bloccare le sue palpebre. Glielo si legge in volto, che non riesce a credere alla sua effettiva, reale presenza lì in quel camerino, di fronte a lui, e che l'unica cosa che gli dà la speranza di non essere completamente impazzito è proprio quel bacio, al quale infatti si aggrappa come fosse l'ultimo appiglio, quello finale, il più sognato e sudato, sulla parete più difficile di un percorso di free climbing. Il compito di Kit ora è dimostrargli di essere davvero lì, in carne, ossa e riccioli, anche se questo volesse dire usare le maniere forti.
Ed è proprio per questo che non esita un solo secondo a tirarlo su dalla sedia quasi di peso e spingerlo contro il fragile muro di cartongesso del camerino, che infatti traballa non poco, con non poco fracasso, ed appiccicarglisi contro come una calamita su un frigorifero vintage. Solo, senza un bigliettino o una foto o una cartolina in mezzo. Proprio senza niente in mezzo, a dire la verità. A parte quel meraviglioso farfallino che gli cinge il collo in maniera così perfetta, buffa e inverosimilmente eccitante ai suoi occhi. Quel papillon a pois, che su chiunque altro, insieme a quei (di nuovo, su chiunque altro) ridicoli pantaloni beige di due taglie più piccoli, avrebbe reso con particolare crudeltà l'idea del cocco di mamma vergine a quarant'anni, mentre chiaramente su di lui, per qualche inspiegabile motivo dovuto forse alla sua pelle candida o ai suoi capelli ramati o ai suoi occhioni tersi o in generale a una particolare aura di complessiva sdraiabilità estrema che lo contorna e ne contraddistingue la presenza anche a un ipovedente girato di spalle in una stanza buia, ebbene, su di lui tutto quell'ambaradan di cose lungi dall'essere portabili da qualsiasi comune mortale ha esattamente l'effetto contrario, e Kit lo giura, lo giura sulla testa del proprio pesce rosso, non si è mai, mai sentito così... così poco casto in tutta la sua vita. A dire la verità, si sente proprio un maniaco. Non gli è mai capitato di lasciarsi distrarre così piacevolmente da un semplice capo d'abbigliamento in ogni caso più adatto a un clown che a un attore professionista. A parte forse la prima volta in cui ha visto Richard con una camicia bianca, ma in ogni caso sempre di lui si tratta. Sempre di capi, accessori o addirittura espressioni facciali che Rich non può fare a meno di indossare con tutta la scioltezza di questo mondo, lasciando che, di volta in volta, come per magia, gli venga esaltato un particolare tratto fisico o somatico in maniera decisamente illegale.
È tutta colpa sua, quindi, se Kit quasi gli strappa i vestiti firmati nuovi di zecca di dosso, impiegando un'accuratissima attenzione affinché il farfallino non si sgualcisca o, peggio, si slacci e svolazzi via dall'amato collo di Richard (lì sarebbe proprio una tragedia: Kit si immagina già di un colore a metà tra il peperone e la melanzana mentre tenta inutilmente di spiegargli perché è assolutamente necessario che il papillon torni intorno al suo collo entro i seguenti venti secondi). Il pericolo maggiore lo corre quando tenta di sfilargli la camicia, dimenticandosi di slacciare il primo bottone (è stato praticamente inevitabile partire dall'asola più in basso), ma dopo la leggera colluttazione dita-stoffa, tutto va per il meglio. A parte forse quando i pantaloni così adorabilmente stretti di Richard si sono rivelati una trappola mortale per la di lui virilità, e, cosa ancor peggiore, non si sono proprio voluti staccare dalla sua pelle e consegnarlo alle cure delle mani di Kit. In ogni caso, con infinita pazienza e qualche gemito di dolore, anche quel problema è stato risolto con successo. Forse l'intera operazione sarebbe stata molto più facile se si fossero presi almeno cinque secondi per staccarsi l'uno dall'altro e giudicare la questione anche con gli occhi, non solo a tentoni, ma probabilmente il tutto non sarebbe risultato altrettanto divertente.
Kit non lo sa, ma il suo viso, e in generale l'intera sua persona, ha su Richard un effetto davvero simile a quello che un frigorifero ha su una calamita. Un frigo pieno di torte e gelati e latte al cioccolato e panna montata, nella fattispecie. Perciò è inevitabile e, anzi, proprio naturale che una volta resosi conto di cosa stia succedendo, della presenza di Kit, della posizione in cui nel giro di pochi secondi si è venuto a trovare, della presenza di Kit, della temperatura tutto a un tratto incredibilmente tropicale, ma soprattutto della presenza di Kit, un impeto magnetico perpetuo lo spinga a fiondarsi direttamente sulle sue labbra con zero possibilità di rilascio nei seguenti trenta minuti. A meno che, ovviamente, Kit non decida, una volta completato il lavoro di eliminazione fisica di ostacoli stoffacei, di staccarsi di propria spontanea volontà dal suo viso e cominciare una lunga, tremenda, lentissima discesa lungo la quale porta le sue labbra rosse e gonfie di baci a contatto con un sentiero di pelle sempre troppo stretto e scosceso, pieno di buche, dossi naturali e panorami mozzafiato tutto intorno.
La cosa davvero buffa è che Richard non si è ancora reso conto di avere sempre indosso il papillon, e ancora più buffo è il fatto che forse non se ne accorgerà mai. Kit ridacchia tra sé mentre continua a scendere, micron dopo micron, tentando al contempo di tirarsi sempre più addosso Richard, attirandolo verso il proprio bacino con le mani saldamente aggrappate ai suoi fianchi pallidi che non avrebbero nemmeno bisogno di essere spronati perché stanno già abbondantemente dondolando da soli, mentre lassù in alto il loro padrone ha cominciato da un pezzo a sbuffare e ansimare come un treno a carbone, completamente ignaro del fatto che il suo Kitty sia ancora integralmente vestito. Ma anche se se ne accorgesse, per Kit non farebbe una gran differenza, visto che ormai è quasi arrivato al primo capezzolo, e allungare le mani per spogliarlo sarebbe un'impresa impossibile e troppo contorsionistica per essere compiuta senza staccare le labbra dalla sua pelle. Cosa che al momento non ha la minima intenzione di fare. E Richard, pur se inconsapevolmente, non può fare altro che concordare in pieno: la sua bocca ha la priorità su tutto.
Richard ha un sapore buonissimo. Si potrebbe pensare che sappia di latte, come suggerirebbe il candore che lo ricopre, ma non è così: sa di uomo, e di fine lana costosissima, e di cotone altrettanto fine e costoso, e di un lontano docciaschiuma al rosmarino che mischiato alla pelle di chiunque altro saprebbe solo di pollo arrosto, mentre su di lui riesce ad acquisire un aroma speciale, indescrivibile, tutto suo. Kit vorrebbe dirgli che il suo corpo è chiaramente stato progettato per esaltare qualsiasi cosa vi venga poggiata sopra, Rich, hai proprio un corpo esaltatore, ma, come ben sappiamo, le sue labbra sono troppo impegnate ad assaggiarlo senza alcuna fretta, per potersi permettere il lusso di enunciare una frase che alle sue orecchie arrivi in una forma di senso compiuto. Perciò si limita a mugugnargli parole a caso all'altezza del cuore, e il riverbero nella cassa di risonanza toracica deve piacergli molto, perché Richard gli pianta le mani tra i capelli e li stringe come se dovesse strizzarli (ma mai tanto da fargli male, e per questo Kit gli è molto grato), spingendogli il viso ancora più verso il proprio petto (rischiando di schiacciargli un po' il naso), e leggermente in basso, come se non volesse che la discesa si arrestasse proprio ora.
E Kit, per carità, lo accontenta, e lascia lo sterno per dirigersi, sempre lentissimamente, verso l'ombelico, dove affonda la lingua come se fosse ripieno di gelato. Azione immediatamente seguita da una specie di ringhio basso e non ancora soddisfatto su ai piani alti. Ringhio che si trasforma in nulla (o meglio, in fiato bruscamente trattenuto), quando Kit, cercando una posizione un po' meno da colpo della strega (va bene, ha poco più di vent'anni, ma la sua schiena è quella di un essere umano, non certo quella di un ornitorinco), poggia finalmente un ginocchio sul pavimento, segno inequivocabile che quella famosa discesa subirà presto una lunga sosta. Mentre trattiene il fiato, Rich, da uomo intelligente quale è, cerca di tirare la sua inesistente pancia il più indietro possibile e al contempo di sollevarsi un po' (con molta discrezione, ovviamente) sulle punte dei piedi, di modo che la bocca di Kit possa scivolare inesorabilmente un po' più giù per una semplice questione di fisica e movimento ascendente-discendente dei corpi e forza d'inerzia e attrazione gravitazionale o qualsiasi sia la legge giusta, che Newton lo perdoni, insomma per un motivo non dipendente dalla sua diretta volontà. Ebbene sì: calcoli scientifici, abuso di gravi, esperimenti su esseri umani, empirismo a tutto spiano. A tanto può arrivare un uomo pur di sentire le labbra del proprio non-sa-nemmeno-lui-cosa intorno al punto più sensibile (in questo momento davvero tanto, tanto, estremamente tanto sensibile) del proprio corpo. Tanto più se il non-sa-nemmeno-lui-cosa in questione è il suo Kitty. Il suo piccolo, innocente, tenero, paziente, amorevole, delizioso, bellissimo, morbido, caldo- no, ustionante, maledetto, scriteriato, torturante, esasperantemente lento Kitty.
In ogni caso, riesce solo in parte nella sua scientificamente sperimentale impresa, perciò, visto che davvero, con tutta la buona volontà del mondo, ormai non ce la fa più e probabilmente verrebbe anche solo se a Kit venisse la malaugurata idea di soffiarci sopra, si vede costretto a ripiegare verso metodi un po' più drastici, e spinge leggerissimamente la sua testa in basso, usando le mani che ha ancora intrecciate nella fitta boscaglia dei suoi capelli, sperando con tutte le sue forze che capisca le sue ignobili ma purtroppo non ignorabili necessità fisiche. Perché la verità è che lui ci starebbe anche otto secoli, così, con la bocca di Kit poggiata sul punto esatto dove il sottile sentiero di peli rossastri che gli parte dall'ombelico smette di essere un sottile sentiero e comincia a farsi bretella di accelerazione verso una più importante strada a quattro corsie, ma purtroppo è umano, maschio per giunta, e anche lui è ancora nella ventina. Perciò, sul serio, dopo una tortura del genere inflitta da una persona del genere, ci manca solo l'arbitro allampanato del Guinness dei Primati con la sua cartellina multicolore a documentare il fatto che abbia saputo resistere per tutto quel tempo senza nemmeno un cedimento strutturale a livello delle ginocchia.
Ma per fortuna Kit mostra di aver capito, e dopo quella che potrebbe aver percepito come un'eternità, ma allo stesso modo anche come mezzo secondo netto (lasso di tempo durante il quale qualcuno ha pure avuto l'ardire di bussare alla porta reclamando i suoi preziosissimi vestiti, ricevendo per tutta risposta un dignitosissimo e per niente a doppio senso mmmmhahhhhrrivotrapoco), lascia finalmente accadere l'inevitabile, prodigandosi con ogni mezzo di cui è a disposizione per fargli capire quanto gli sia grato per avergli donato l'imperitura (perché ormai gli rimarrà tatuata sulla corteccia cerebrale in sæcula sæculorum) immagine di lui senza niente addosso che non sia quel benedetto farfallino. Per ribadire ciò, lo fissa senza il minimo ritegno, dal basso della sua privilegiatissima posizione (in effetti, ripensandoci, più che un maniaco, in questo momento si sente una groupie degli anni Settanta) durante tutto il (ahimè, troppo breve) tempo che impiega a farlo finalmente sospirare di soddisfazione a pieni polmoni.
*
I'm going down, down, down, down
stop to, please.
Una volta ripresosi almeno il minimo sindacale per poter definire il proprio stato di coscienza come decente (cioè dopo circa due ere geologiche e mezzo, durante le quali entrambi hanno fortemente sospettato l'urgente necessità di un defibrillatore), Richard prende un profondissimo respiro, gonfiando pancia e torace, sgonfiando torace e pancia, come gli ha insegnato il maestro di yoga proprio l'altro giorno, e, fissando intensamente Kit in quei suoi occhioni ad elevata percentuale di finissimo cacao del Worcestershire, dondolando un po' la testa verso di lui con aria leggermente ammiccante, gli sussurra:
«Allora, che ne dici di riconsegnare questi ridicoli vestiti e andarci a prendere quel tè che ci sta aspettando da qualche ora?»
Quando si accorgeranno che all'appello manca il farfallino, Kit sarà già molto, molto lontano.