Buonasera a tutte fanciulle!
Sono qui, riemersa da un bel weekend intenso dove a malapena controllavamo la pagina amici (questo perché siamo fangirl che ogni ora speravano che annunciassero il debutto dei Kisumai... MA VABBé) e quindi ora riprendo tutto e ricomincio anche a postare.
Ci avviciniamo alla fine. *_* Anche in questa parte c'è abbastanza violenza, non tanto come nella precedente, però. C'è soprattutto tanta tensione, credo. Sì, ecco.
Ma per sicurezza, e per qualche scena piuttosto forte, sappiate che anche il rating di questa parte è NC-17, quindi, a vostra discrezione.
Non dico altro perché sono pigra, a voi. *_* ♥
Titolo: Wrong world (5/6)
Pairing: Jin Akanishi (KAT-TUN) x Tomohisa Yamashita (NewS)
Genere: AU politica, romantica (?)
Rating: NC-17 per violenza, molta violenza; non aspettatevi descrizioni accurate di scene sessuali.
Summary: Un giovane politico, dalle idee piuttosto rivoluzionarie e forse troppo ingenue, viene rapito, per evitare che “parli troppo”, proprio prima di una conferenza stampa. La sua guardia del corpo, nonché suo compagno di letto, non riesce a sopportare l’idea di averlo lontano da sé.
Warnings: Come ho già detto, davvero molta violenza. Non credo che ci siano altri warnings da fare, questo è sufficiente, no? Non immaginatevi niente di carino e confettoso, questa volta. PoV di Jin.
Commenti: Sono stata proprio tanto contenta di aver scritto questa fanfiction, mi è piaciuto così tanto. ;__; Scritta per il prompt "AU. l'uke della situazione, personaggio scomodo estremamente in vista (preferirei un politico con idee particolari/scomode etc.), viene rapito, privato della memoria e costretto a prostituirsi. vorrei che fra il seme e l'uke ci fosse un qualche tipo di rapporto, ovviamente (amicizia? compagni di letto? fiiiidanzati? *occhioni dolci*), e, soprattutto, vorrei che il seme conducesse indagini etc. in perfetto Hollywood style per ritrovare la sua dolce metà ♥ punti bonus per estremo realismo e happy ending." della meravigliosa
xnyappyallyx!
Disclaimer: Don't own.
Parte Prima. Parte Seconda. Parte Terza. Parte Quarta. Wrong World
“È solo frustrante. Frustrante da morire. Non lo sopporto, non lo sopporto, lui e la sua stupida faccia...”
“Dai, Pi. Cerca di... respirare. Calmarti. Non puoi reagire così ogni volta che ti senti sconfitto in uno scontro a parole da qualcuno dei tuoi avversari... non sarà l’ultima volta che capita.”
“Ma io... avevo ragione, Jin. Lui diceva cose sbagliate, cose cattive, ma le rigirava in quel modo che... lui le diceva meglio, ma io avevo ragione.”
“Lo so. Lo so, Tomohisa. Ci vuole tempo, e anche tu imparerai a rigirare le parole come lui...”
“Ma io non dovrei averne bisogno! Io avevo ragione...”
“Cosa posso fare, per riuscire a calmarti?”
“Possiamo... farlo in modo un po’ diverso? Solo questa sera.”
“Diverso? Che strane cose ti è venuta voglia di provare, piccolo pervertito?”
“Ma no, scemo! Solo un po’... un po’ più lento, dolce. Come se facessimo... l’amore. Solo questa notte...”
“...vieni qui, Pi. Facciamo l’amore per tutta la notte...”
Non ricordavo quanti mesi fossero passati, dalla nostra prima notte insieme, da quel nostro primo errore.
E le cose non sarebbero cambiate, se anche tra noi ci fosse stato un rapporto più serio - non avrei comunque tenuto il conto dei nostri mesi insieme, era stupido.
I nostri erano momenti, momenti seguiti da altri momenti, ciclici, infiniti, pieni, tanto da non lasciare il tempo di leggere tra le settimane per capire quanto tempo fosse passato.
Dopo quella nostra prima notte - quando mi sentivo svuotato e pieno allo stesso tempo, quando avevo perso le sensazioni a cui avevo ormai fatto l’abitudine e mi sentivo pervaso da sentimenti che non avevo mai provato prima, per quanto patetico potesse suonare - non ero sicuro che ne sarebbero seguite altre, non volevo rendere tutto più artificiale segnando nella mia mente quella data nel calendario.
Era tutto così perfettamente naturale, tra noi.
Era stato naturale scivolare nella routine delle tue lenzuola, delle tue gambe morbide e delle tue risate facili, era stato naturale discutere per la doccia ogni mattina dopo, finire col farla insieme, rubarsi il cibo dal piatto, ridere ed arrivare in ritardo ovunque dovessimo andare.
Era tutto naturale, i baci e i silenzi, e le notti passate a ballare vicini e ad ubriacarci solo nei nostri respiri, nei locali più affollati di Tokyo, dove non eravamo altro che noi stessi, due volti sconosciuti in una folla di volti tutti simili, lucidi di calore umano e voglia di sesso.
Erano infinite, ormai, le notti in cui cedevo ai tuoi capricci, accontentando ogni tuo desiderio, aggiungendo quella sensazione di falsa sgradevolezza, da parte mia, per farti credere che tu fossi l’unico ad avere bisogno di quel nostro rapporto.
Ma non ci hai mai creduto, non è vero?
Non ci hai mai creduto, a giudicare dal sorriso che si dipingeva sulle tue belle labbra nelle infinite notti in cui ero io a cercarti, a chiamarti per correre da te, a chiedere ad un collega che mi aveva sostituito di farsi da parte prima del tempo, dopo aver dimenticato i miei impegni ed essere corso da te, accecato da quella che non volevo ammettere essere gelosia.
E quelli erano i momenti che in assoluto preferivi, ne sono sempre stato certo.
Erano i momenti in cui ero così docile da seguire ancora di più ogni tuo desiderio, lasciando anche da parte le stupide finzioni del non volerlo veramente, per colpa della confusione che mi martellava la mente, della insensata gelosia nei tuoi confronti.
Eravamo molto di più di quanto non temessimo di dirci - come se una parola potesse sul serio definire il nostro rapporto, le nostre notti insieme, le ore che potevamo trascorrere in silenzio, semplicemente guardandoci, baciandoci, ascoltando i nostri respiri.
E, per quanto fossi certo che quanto successo tra noi ormai mesi prima fosse stato del tutto inevitabile, non riuscivo a fare a meno di chiedermi cosa sarebbe successo, se non avessimo commesso quell’errore, se non ci fossimo lasciati cadere l’uno tra le braccia dell’altro.
Forse sarei stato una guardia del corpo più professionale, forse non ti avrei stretto a me con tanta forza ogni volta che eravamo in mezzo alle persone, riparando il tremore del tuo corpo da quegli sguardi d’assalto.
Forse non ti avrei baciato con trasporto in locali affollati, non avrei insinuato le dita sotto la tua camicia, per sfiorare la delicata curva della tua schiena, forse ti sarei semplicemente rimasto accanto durante gli orari di lavoro, per poi sparire e tornare alla mia vita non appena smettevi di vestire i panni del giovane ed ambizioso politico.
Forse qualcuno ti avrebbe catturato prima, quando non ero insieme a te perché non era mio dovere essere lì in quel momento - o forse, non ti avrei abbandonato nella piccola sala dove dovevi tenere la tua conferenza stampa, cedendo ai tuoi occhi dolci ed all’ennesimo capriccio, e nessuno avrebbe potuto mettere in atto il piano che ti aveva allontanato da me.
Non riuscivo a pensare con lucidità, e, allo stesso tempo, non riuscivo a smettere di sentirmi gli occhi bombardati dalle immagini dei giorni appena passati, del nostro rapporto, che si era stretto sempre di più.
Sapevo benissimo che, nel momento esatto in cui mi fossi fermato a pensare a cosa stavo facendo, a ciò che avevo fatto nelle ultime ore, mi sarei reso conto che la fortuna non mi avrebbe seguito per sempre.
Avevo improvvisato, sino a quel momento, e avevo tutta l’intenzione di continuare a farlo, perché, se solo avessi cercato di farmi un piano, avrei visto in un istante le falle che si aprivano da tutte le parti, troppe, perché le cose continuassero a funzionare.
Quello delle ultime ore non ero io, non ero stato io a mimetizzarmi alla perfezione in un gruppo di delinquenti, non ero stato io a prendere le parti dei colpevoli in una rissa di cui non mi sarebbe dovuto importare niente, non ero stato io a sparare a sangue freddo ad un uomo, non uccidendolo solo grazie ad un colpo di fortuna, alla mira sbagliata, alla vista annebbiata di dolore e alcool e paura.
Avevo agito senza pensare, sotto l’influsso della rabbia che mi chiudeva lo stomaco ogni volta che pensavo a te, ed ora, ora che mi ero fermato, la mano mi tremava attorno al ferro freddo della pistola, la canna ancora calda della pallottola sparata da poco.
Mi tremavano le mani, le spalle, sentivo alla bocca dello stomaco un bruciore tanto forte da impedirmi di respirare, probabilmente ero stato colpito di nuovo, proprio lì dove le mie ossa erano incrinate, e avrebbero avuto bisogno di assoluto riposo per tornare a saldarsi, non una rissa e sin troppe emozioni.
Scesi dalla mia auto lentamente, tirandomi ancora una volta il cappuccio sulla testa, per nascondere al buio di quella notte le mie incertezze - così fragili da non venire nemmeno prese in considerazione, non c’era tempo, non avevo tempo per aspettare nulla.
Dentro la macchina sarei stato solamente inutile, non sarei stato in grado di pensare, e forse sapevo, che se mi fossi fermato un istante di più, mi sarei reso conto della follia a cui stavo andando incontro, da solo.
Sarebbe bastato fermarmi lì, chiamare la polizia, indicare il posto, lasciare che fossero loro ad occuparsi di te, mentre io, le mie ossa rotte ed il sangue rappreso che mi prudeva sul mento, saremmo rimasti in un angolo, a rigare di lacrime le guance sporche di polvere e sudore, ad aspettarti.
Eppure quel pensiero non riuscì nemmeno a sfiorarmi, avrei potuto chiamare la polizia, ma in quegli attimi fondamentali di tempo che avrebbero impiegato ad elaborare un piano, a radunare la squadra, qualcuno avrebbe già potuto aver avvisato le guardie dell’intrusione, avrebbero potuto farti del male, portarti via.
Ucciderti.
Non c’era tempo.
Mi mossi sin troppo velocemente, e mi ritrovai accasciato alla portiera della mia auto, con una mano alle costole, ed una nausea tremenda che mi premeva sulla gola.
Avevo gli occhi lucidi, mentre cadevo battendo le ginocchia sull’asfalto freddo, una mano sulla portiera della mia macchina e l’altra per terra, graffiandomi il palmo, cercando di sostenermi.
Non avevo nemmeno provato a trattenermi, mi ero abbandonato alla sorte, riversando quel miscuglio scuro di alcolici, medicinali, sangue, con due colpi di tosse troppo potenti per non farmi lacrimare gli occhi.
Mi ero pulito la bocca sulla manica della giacca, respiravo a fatica, ma non c’era tempo, non avevo tempo.
Non avevo tempo per sentirmi meglio, né per chiedermi quando fosse stata l’ultima volta che avevo mangiato qualcosa di solido e non in flebo, probabilmente insieme a te, quindi, ormai giorni prima.
In quel gesto, se non altro, mi accorsi che non indossavo altro che la felpa scura con il cappuccio, che era stata perfetta per mimetizzarmi in quel bar, ma non sarebbe decisamente stata sufficiente per ciò che mi accingevo a fare.
Raccolsi la pistola che avevo lasciato cadere per terra, poco più avanti, e mi alzai in piedi, seppure con fatica.
Non ero al massimo della forma, non lo ero affatto - se avessi avuto solamente un minimo di lucidità in più, probabilmente avrei lasciato perdere, avrei chiesto l’aiuto della polizia o della mia squadra, sarei tornato in ospedale a farmi curare la costola incrinata, ora rotta, probabilmente, dopo gli ultimi avvenimenti.
Ma non avevo lucidità, in quel momento meno che mai, e mentre aprivo la portiera della mia auto per prendere il giubbotto antiproiettile e indossarlo, chiudendolo immediatamente, non riuscivo a pensare ad altro che a te.
E non avevo un piano, non avevo nemmeno mai avuto la minima intenzione di farmene uno.
Tenendo la pistola alta, stretta in una mano, mi ero avvicinato all’edificio, con il cappuccio calato sulla testa, ero scuro come la notte che mi avvolgeva, nonostante avessi perso del tutto il senso del tempo, e non riuscissi a definire con esattezza da quante ore fossi uscito dall’ospedale, quanto tempo avessi passato lì dentro, attaccato alle flebo, e quanto in quel bar, ad inalare fumo e discorsi pieni di violenza.
Non riuscivo a pensare ad altro da fare che cercare un’uscita secondaria, e mi nascosi dietro quello che sembrava il muro di cinta, prima di sporgermi lievemente, con la pistola puntata, nel caso qualcuno mi avesse scoperto così in fretta.
Non c’era nessuno.
Il silenzio di quella notte era quasi inquietante, tanto forte da riuscire a riempirmi le orecchie, nonostante, attorno a me, non ci fosse alcun rumore se non quello dei miei passi lenti.
Probabilmente le persone che dovevano essere lì di guardia erano all’interno dell’edificio, per non destare sospetti, aveva un senso, ma sembrai rendermene conto solo qualche passo dopo.
Dall’esterno, non c’era niente che potesse indicare che quell’edificio non fosse niente di diverso da una semplice fabbrica in disuso, le mura sporche di tempo e polvere, i vetri opachi, rotti, o direttamente non più presenti.
Era un posto freddo e silenzioso, e non riuscivo a tacere il suggerimento della mia mente sulla possibilità di essere stato preso in giro, che quell’uomo avesse trovato la lucidità di mentire anche con la propria vita in pericolo, e che tu non fossi affatto lì dentro.
Non volevo tirarmi indietro, però, non arrivato a quel punto.
Al peggio, avrei fatto un giro in una fabbrica abbandonata e vuota, accompagnato dal solo suono dei miei passi nel silenzio di quella notte - al meglio, ti avrei trovato, ti avrei portato via con me.
In ogni caso, valeva la pena di rischiare.
Non appena notai un’entrata nell’edificio, mi sporsi, tentando di essere più silenzioso ed invisibile possibile, stringendo la pistola in una mano, in alto, pronto a sparare.
Il pavimento era sporco, pieno di calcinacci e rottami di quelli che probabilmente dovevano essere macchinari moderni, all’epoca in cui la fabbrica era funzionante, vetri rotti delle finestre mancanti.
Ed oltre a quello, il vuoto, il silenzio, l’odore pungente di polvere e muffa, probabilmente delle rifiniture di gomma di qualche macchinario.
Non c’era nessuno - e forse mi aspettavo sul serio di vedere le guardie camminare avanti ed indietro tra quei calcinacci, a proteggere il segreto dell’aver nascosto lì la loro preda, proprio come nei film americani.
Alcuni fasci di luce illuminavano a scacchi il pavimento, bluastro dei lampioni e della notte, e, nonostante non vedessi nessuno, il buon senso di suggeriva a gran voce di evitare quanto più possibile quelle zone illuminate, rimanere nascosto negli angoli di sporco e buio come un topo.
Mi chinai appena - e nel farlo, un altro dolore lancinante all’altezza della bocca dello stomaco, tanto forte da togliermi il respiro, e, per un istante, avevo temuto che avrei vomitato di nuovo, tossendo, mettendo in allerta chiunque ci fosse dentro quell’edificio, sempre che ci fosse realmente qualcuno pronto a stare in allerta.
Ma non successe, e quel lampo accecante di dolore si fece appena più fievole, quel minimo da riuscire a permettermi di respirare, invece, ed ebbi la certezza di avere almeno una costola rotta.
Non potevo fermarmi, in ogni caso, nonostante certi movimenti mi venissero infinitamente più difficili, e cominciai a camminare rasente i muri, cercando di controllare la situazione, tenendo la pistola puntata dritto davanti a me, e, nello stesso tempo, una mano sul muro, a sfiorare i cambiamenti del mio percorso senza doverli vedere.
Non ero stato addestrato ad una vita simile, nulla di ciò che avevo imparato comprendeva qualcosa del genere, nulla, in effetti, comprendeva l’essere davvero disposto ad uccidere.
Non ero un poliziotto, l’essere parte di una squadra di forze dell’ordine dello Stato non faceva di me parte del corpo di polizia, ma semplicemente una guardia del corpo, non ero adatto ad essere altro che quello, a causa del mio temperamento indeciso, o forse sin troppo nervoso.
E non ho mai sopportato le situazioni di forte stress, non ho mai sopportato di trovarmi davanti agli occhi qualcosa di diverso da ciò che mi aspettavo - e ciò che mi aspettavo, in quel momento, era il silenzio occasionalmente interrotto dallo squittio e dalla corsa di qualche topolino, proprio come succedeva in quei film che mi rendevo conto di aver visto ormai troppe volte, insieme a te, mentre commentavamo su quanta poca realtà ci fosse in essi.
Ce n’era veramente poca, perché nessun topo fermò il mio lentissimo percorso verso il lato opposto del lungo corridoio in cui ero, non inciampai nemmeno in qualche rottame sparso per terra, niente di tutti quegli imprevisti fasulli che vengono sempre aggiunti nei film per creare quel minimo di tensione in più.
Eppure, alzando gli occhi, i volti addormentati di due uomini lievemente illuminati da quella luce bluastra, mi bloccarono sul posto.
Erano seduti per terra, con le spalle contro il muro, a poca distanza da un ingresso, e quelle che sembravano in tutto e per tutto delle scale.
Vicinissimo a loro due pistole, lasciate per terra quasi per distrazione, non erano riusciti a rimanere svegli, o forse nemmeno ci avevano provato, sicuri che nessuno sarebbe mai entrato di propria volontà in una fabbrica in disuso, tanto sicuri di quello quanto lo erano del fatto che nessuno li avrebbe mai traditi, rivelando il nascondiglio dell’uomo che avevano rapito, sulle cui tracce c’erano due terzi delle forze dell’ordine dell’intero Giappone.
Deglutii lentamente, la pistola puntata contro quelle due figure ignare e dormienti, e l’altra mano posata sul petto, ed il mio cuore batteva così forte che lo sentivo, anche attraverso gli strati di vestiti, la felpa, lo spesso giubbotto antiproiettile.
Vedendo quell’ostacolo, dritto davanti a me, il mio primo istinto sarebbe stato quello di aggirarlo.
Non sono mai stato bravo ad affrontare di petto i problemi, a guardarli dritto in faccia per riuscire a risolverli - e questo tu dovresti saperlo bene, per il modo senza dubbio incredibile in cui sono riuscito a tenere in piedi quella che era in tutto e per tutto una relazione senza tuttavia riuscire a darle un nome.
Ma sapevo anche, in quella situazione, che non avrei potuto raggirare i problemi, non avrei potuto evitare di affrontarli, per una questione più morale, ed una decisamente più pratica.
La questione morale era solamente il fatto che non avessi alcuna possibilità di riuscire a raggirare le questioni in una situazione simile, di stress così intenso - ma era la pratica a preoccuparmi di più, in quel momento.
Se quei due uomini erano lì, con delle pistole, davanti a quelle scale, era sicuramente perché avevano qualcosa da proteggere dagli intrusi, qualcuno a cui fare la guardia, a cui impedire di liberarsi.
Eri tu, c’eri tu al fondo di quelle scale strette e sporche, e non poteva essere altrimenti.
Ed io sarei dovuto passare esattamente di lì e, anche nel caso fossi riuscito ad essere abbastanza silenzioso per poterli superare senza tuttavia svegliarli - un’impresa quasi impossibile, conoscendomi - una volta che fossi riuscito ad averti nuovamente con me, a portarti in salvo, sarei comunque dovuto passare davanti a loro.
Presi un profondo respiro, mozzato a metà dal dolore lancinante che ancora sentivo al petto, sapevo di non essere in buone condizioni, sapevo anche che fingermi uno di loro non avrebbe mai funzionato.
Solo nei film l’eroe ha abbastanza culo da indovinare la parola segreta, da mettere in soggezione i suoi falsi compagni, da inventare una scusa plausibile per liberare la vittima e portarsela via con sé, senza destare alcun sospetto, ed uscendone illeso.
Ma mi ero reso conto ormai sin troppo bene quanto la situazione che stavo vivendo non avesse davvero nulla in comune con un film - ed il mio volto sporco di polvere per le due risse in cui mi ero cacciato non so bene quanti minuti prima, il sangue rappreso sulla mia bocca, l’odore acre di fumo e polvere da sparo, non avrebbero mai indotto nessuno a credermi.
Per non parlare della possibilità davvero remota che la fortuna mi assistesse, con ogni probabilità, se avessi cercato di indovinare una presunta parola d’ordine, sarei finito freddato da un colpo di pistola nel giro di cinque minuti.
E non potevo permettermelo, assolutamente - del resto, non avevo avvisato ancora nessuno della tua presenza lì, e nessuno, oltre a me, avrebbe potuto portarti via e salvarti.
In quel momento, in quei fatali secondi in cui non riuscivo nemmeno ad elaborare un piano, sembrai anche rendermi conto di quanto quella situazione potesse costarmi la vita.
Ogni secondo che passava, le probabilità che io non uscissi vivo da quella fabbrica abbandonata sembravano aumentare, ma non riuscivo a tirarmi indietro, non riuscivo nemmeno a pensare di fare una cosa del genere.
E sono sempre stato uno che ci teneva alla propria pellaccia, lo sai, vero?
Non sono mai stato particolarmente altruista, non sono mai stato così generoso da aver intrapreso la mia professione perché mi piacesse salvare le vite altrui.
Mi piace avere potere, questo è vero.
Mi è sempre piaciuta la sensazione di potere che dava una professione del genere, il senso di rispetto che si espandeva nell’aria non appena lo dicevo a qualcuno, conscio che le persone avrebbero cominciato a temermi, a desiderare di non farmi arrabbiare, esattamente com’era successo in quel piccolo bar sporco, mentre cercavo di sapere qualcosa in più del tuo rapimento.
E sono sempre stato attento nell’accettare incarichi che non mettessero a repentaglio la mia vita, ed in quel momento mi rendevo conto che se tu non fossi stato proprio tu, mi sarei sentito sollevato, in quel letto d’ospedale, nel sentire che non sarei più stato la tua guardia del corpo.
Ma non lo ero, ed era mio compito proteggerti sino alla fine, a costo della vita. A costo della mia vita.
Senza pensarci, tirai fuori dalla tasca dei miei jeans il mio cellulare, sincerandomi che i tasti non facessero alcun suono, mentre scrivevo un messaggio, breve, conciso, al capo della mia squadra.
“Ho trovato Yamashita. È nello scantinato della fabbrica abbandonata della Mitsubishi a Minato-ku. Sto andando a prenderlo, venite qua con la polizia.”
Mi riportai il cellulare nella tasca, sperando con tutto me stesso che il messaggio arrivasse a destinazione, che il capo della mia squadra lo leggesse, lo sentisse, anche se era ormai notte inoltrata.
E non avevo paura.
In quel momento non riuscivo ad avere paura, ero riuscito ad assicurarti un modo per fuggire, per essere portato in salvo, mi sarebbe solamente - solamente bastato proteggerti con la mia stessa vita, in caso avessero cercato di farci del male, di fermarci, di spararci contro.
E non mi spaventava, così come non mi spaventava il pensiero di potermi essere sbagliato, dovevi per forza essere lì.
La sorveglianza non era stretta come avevo immaginato, ma, del resto, sembravano tutti così certi che nessuno li avrebbe traditi, rivelando il nascondiglio, e probabilmente ancora in attesa di altre guardie che gli dessero il cambio, probabilmente gli stessi uomini che io avevo messo fuori gioco in quel vicolo buio, a pochi passi dal locale in cui si ritrovavano a discutere di cose sin troppo pericolose.
E avevo ricominciato a camminare, lentamente.
Non volevo svegliarli, non volevo nemmeno aggredirli, li avrei lasciati lì, immobili, addormentati ed ignari di tutto, cercando di eludere la loro sorveglianza e superarli, avrei rimandato a dopo l’idea sul come occuparmi di loro, se mi fossi accorto che non c’era un’altra uscita e che saremmo di nuovo dovuti passare davanti a loro.
Ed avevo stranamente fiducia nella fortuna, per una volta - ero sicuro che, quando finalmente fossi riuscito ad averti nuovamente tra le mie braccia, la polizia sarebbe già arrivata, e sarebbe stato molto più semplice portarti in salvo.
I miei passi, seppure incredibilmente silenziosi, sembravano rimbombare nelle mie orecchie, così come il battito del mio cuore.
Respiravo a fatica, forse per la tensione, o forse per le contusioni che sicuramente avevo riportato nelle ultime ore, ma ero gonfio di adrenalina, e non mi ero mai sentito così invincibile in tutta la mia vita.
Quando fui abbastanza vicino a loro da riuscire a distinguere i loro lineamenti nella luce soffusa della notte, mi sembrava di riuscire a sentire l’odore dei loro respiri sfuggire dalle labbra socchiuse nel sonno, vedevo quasi i piccoli scatti delle pupille sotto le palpebre chiuse, impegnati in un’eterna fase REM, da cui era impossibile liberarsi per un sonno più profondo, nella posizione in cui erano.
Deglutii ancora, sapevo che tutto ciò non era possibile, ma, in quel momento, quei pensieri mi sembravano davvero dolorosamente reali.
Trattenni il respiro, come se il rumore impercettibile dei miei polmoni che si liberavano dell’anidride carbonica potesse davvero svegliarli, e, quando finalmente riuscii a superarli, non riuscii a trattenermi dall’abbandonarmi ad un silenzioso sospiro di sollievo.
Mantenni ben stretta la pistola, l’indice sul grilletto, appoggiando le spalle al muro per evitare di venire attaccato alle spalle, mentre scendevo le scale, di sbieco, per riuscire a controllare la situazione.
Man mano che scendevo gli scalini, uno ad uno, lentamente, la strada davanti a me sembrava farsi più luminosa.
Non era uno scantinato, non esattamente - quanto più un piccolo magazzino sporco, freddo, illuminato da una lampadina nuda che dondolava lievemente, spinta dall’aria invernale che entrava attraverso il vetro rotto di un lucernario, in un angolo.
E poi delle voci, che non si preoccupavano di sussurrare, due uomini, le loro armi e la loro barba non fatta, il loro odore di alcool e di sporco, e, per terra, tu.
Tu.
Mi sembrava quasi di osservare la scena da lontano, da un altro mondo, da dietro un vetro troppo spesso.
Eri pallido, le tue labbra livide, eri infreddolito.
Eri altrove, non ti avevo mai visto con quello sguardo, con quegli occhi vuoti e silenziosi e dolorosamente freddi, che mi facevano male al cuore.
Non avevi addosso nient’altro che i pantaloni dal taglio elegante e la camicia una volta bianca del giorno della tua conferenza stampa, la cravatta allentata male, forse tirata da qualcuno, il colletto lievemente sporco di sangue - e la giacca per terra, rovinata, forse ti era stata sfilata di proposito, perché potessero legarti meglio, o forse per abbandonarti volutamente in quel freddo, del tutto disinteressati alla tua salute.
Avevi uno zigomo arrossato, le labbra rotte in un punto, i capelli non erano perfetti come sempre, erano disordinati, sporchi, scomposti.
Tenevi le spalle basse, come per paura di una reazione se ti fossi mostrato appena più vitale, appoggiate al muro dietro di te, e non riuscivo a vederti le mani, forse te le avevano legate dietro la schiena.
Eri tu, dentro quell’uomo distrutto, c’eri tu, e tutta la tua dolcezza, eri vivo.
Il solo pensiero riuscì a darmi una forza che non avevo mai creduto di avere, ancora più grande di quella che mi aveva spinto sino a lì, consapevole che non avessi fatto tutto invano, che sarei davvero riuscito a riabbracciarti, a portarti in salvo.
Avrei quasi voluto cercare di attirare la tua attenzione, in qualunque modo, per incontrare i tuoi occhi e parlarti, come mille volte avevamo fatto, senza bisogno di usare la voce - per dirti che ero davvero venuto a salvarti, per raccontarti in un istante come mai non fossi riuscito a farlo prima, per chiederti scusa, un milione di volte, e giurarti che non ti avrei abbandonato mai più, che mai più avrei permesso a qualcuno di farti del male.
Avevo ancora paura, però, che il tuo semplice sollevare lo sguardo avrebbe potuto attirare l’attenzione dei due uomini che, in quel momento, non era palesemente su di te.
Stavano litigando, discutendo in proposito a qualcosa, a considerare dal loro tono animato, ma vedevo solamente uno dei due, e la nuca dell’altro, troppo in basso rispetto all’altezza di un uomo adulto, come se fossero seduti su qualcosa.
Scesi ancora un gradino, puntando la pistola ed assicurando il mio indice attorno al grilletto, mentre allungavo il collo per riuscire a scorgere qualcosa di più.
Erano entrambi seduti su due cassette di legno rivoltate, usandone una terza per giocare a carte, posare lì alcune lattine di birra, come quelle vuote che ormai erano rotolate per terra, alcune fermandosi contro i tuoi piedi, contro le tue gambe strette al petto.
Non mi avevi visto, avevi lo sguardo puntato per terra, con quella rassegnazione che mai avevo visto in te, e non riuscii più a rimanere immobile a guardarti nemmeno un altro istante.
Gli ultimi gradini sembravano essere volati sotto i miei piedi, forse li avevo semplicemente saltati, tanta era la fretta che avevo.
Non riuscii nemmeno a bermi la tua espressione nel momento esatto in cui mi avevi visto, potevo solamente immaginarla, sperare che i tuoi occhi tornassero a riempirsi di quella luce che li illuminava ogni volta che eravamo insieme, a parlare troppo, a non parlare affatto.
In un angolo del mio sguardo riuscii solo a registrare il tuo viso che si sollevava, smetteva di guardare in terra come a chi è stata annunciata la propria morte, mentre tutta la mia attenzione si portava sugli uomini davanti a me.
Non volevo che urlassero, non volevo che il rumore svegliasse i due che erano di guardia in cima alle scale, o sarebbe diventato tutto molto più difficile.
Con l’ennesimo colpo di prontezza di spirito che non era affatto da me, mi portai alle spalle dell’uomo a me più vicino, che si era alzato in piedi, portandogli la mano sulla bocca, e stringendolo forte.
L’altro uomo sembrava meno sveglio, ancora meno pronto di me, perché guardo la scena con le labbra lievemente dischiuse, forse già troppo pieno di birra, per rendersi conto che non era uno dei suoi compagni, quello che era appena sceso lì dove tenevano un uomo che avrebbe portato a tutti loro tanti, troppi anni in carcere, se fosse stato trovato e se avesse potuto accusarli.
E nel momento esatto in cui si alzò, non riuscii a farmi alcuno scrupolo nel colpirlo forte con il calcio della pistola, dietro la nuca, facendolo cadere svenuto immediatamente, ringraziando per la prima volta da quando mi ero trovato in quella situazione assurda tutti i film che avevo visto, perché finalmente mi erano valsi a qualcosa.
Portai immediatamente la canna della pistola alla tempia dell’altro uomo, mentre gli tenevo ancora la bocca tappata, perché non urlasse - non volevo minacciarlo, non ne avevo nessuna intenzione, non mi sarebbe servito a nulla.
Volevo solo che rimanesse zitto, mentre liberavo la sua bocca sporca di saliva e paura e portavo la mano al suo mento, obbligandolo a voltare la testa con forza da un lato, mentre gli tenevo ferma la spalla opposta, forse rompendogli qualche vertebra, ma di sicuro facendogli perdere i sensi all’istante, e senza che nessuno mi avesse sentito.
Respiravo pesantemente, mentre lo lasciavo cadere per terra, tenendolo per il bavero della giacca perché non andasse a finire sulle bottiglie di vetro, provocando un fracasso che non mi serviva.
Il battito del mio cuore pulsava forte nelle mie orecchie come mai prima, mentre mi voltavo verso di te, finalmente.
Quanto tempo era passato?
Non riuscivo a contarlo, non riuscivo a rendermene conto, sapevo solamente che fosse notte, perché il tuo viso, che non mi era mai sembrato così pallido - e così bello - era lievemente illuminato di una luce fioca, bluastra.
Non riuscivo a non avere paura che fossi troppo spaventato per parlarmi, non riuscivo a temere che fossi arrabbiato perché non ero riuscito a proteggerti, che non mi volessi più vedere, che volessi solamente che ti portassi in salvo, per liberarti di me, per cercare qualcuno di più capace, che non avrebbe commesso un errore tanto stupido come cedere ad un tuo capriccio.
Eppure, in un modo o in un altro, anche tutta quella paura se n’era andata, eri vivo, eri con me, e io non potevo sbagliare assolutamente niente, adesso.
“Jin...”
Era così dolce, e flebile, e quasi evanescente, la tua voce.
Mi guardavi come se fossi stato la tua unica luce, mentre mi chinavo velocemente davanti a te, posando la pistola accanto al mio ginocchio, cogliendoti il viso tra le mani.
“Pi... sono qui...”
Ero lì, ero lì con te, ed era l’unica cosa che ero in grado di ricordarmi in quel momento - oltre ai tuoi occhi stanchi, e tristi, e spaventati, e pieni di lacrime e di speranza.
Piangevi, mentre mi guardavi, e non riuscivo a capire se quelle lacrime fossero frutto di tutte le tue emozioni, che si erano finalmente liberate, oppure perché sapevi meglio di me quanto sarebbe stato difficile uscire da quell’edificio, entrambi, insieme, vivi.
Io avevo appena steso due degli uomini che ti facevano la guardia, e ne avevo visti altri due, addormentati, ma non avevo idea di quanto fosse grande quella fabbrica - né di quante persone ci fossero al suo interno.
Non feci altro che sorridere, come un idiota, e piangere, e posare la fronte contro la tua, per confonderti, e non farti vedere le mie lacrime.
“Avevo... così paura, Jin...”
Mi allontanai appena da te, per guardarti negli occhi, per asciugarti le guance, avevo le mani fredde e ruvide, e sporche, ma quel tocco sembrò per te la carezza più rassicurante del mondo, a giudicare da come si ammorbidì la tua espressione.
“Avevo paura che... ti avessero... avevo paura che non ci fossi più, perché non venivi da me...”
E volevo urlare, più di ogni altra cosa al mondo.
Volevo tornare indietro e uccidere tutti coloro che avevano rallentato il mio arrivo da te, che si erano messi sulla mia strada, per averti fatto soffrire in quel modo.
E volevo urlarti che non ti avrei mai lasciato, non avrei mai permesso a nessuno di farmi seriamente del male, se tu fossi stato ancora in pericolo.
Ma, forse, ancora più di tutto questo, volevo baciarti, e rassicurarti, e dirti che non ti avrei abbandonato mai più.
Avevo lasciato che le nostre labbra si incontrassero in un bacio lieve e salato di lacrime e sangue, i miei occhi aperti sulle tue palpebre socchiuse, sulla consapevolezza che non avessi smesso di piangere.
“Sono qui, Pi... non ti lascio, te lo giuro.”
Mi avevi guardato, e sembravi così fragile, così debole ed inerme, mentre ti abbandonavi contro il mio petto, mentre ti circondavo la schiena sottile per raggiungere le tue mani, cercare di slegare i nodi in quella corda ruvida che ti stava già ferendo i polsi.
Non sembravano nodi semplici, erano stretti, doppi, tripli, ma non riuscii a farmi prendere dal panico - per quanto assurdo potesse sembrare, sentivo ancora una lontana reminescenza del profumo del tuo shampoo, nei tuoi capelli, mentre vi poggiavo il viso contro, godendomi quella vicinanza che mi era mancata così tanto.
E li scioglievo, uno ad uno, avvicinando sempre di più il momento in cui ti avrei finalmente liberato, cercando di pensare ad un piano, uno qualsiasi, che non coinvolgesse l’uccidere tutti i presenti sulla nostra strada.
Speravo che il capo della mia squadra avesse letto il messaggio e avesse già eseguito i miei ordini, che l’edificio fosse stato già circondato dalla polizia, con le armi puntate, pronto ad accoglierti in una tela di sicurezza che le mie braccia da sole non sarebbero bastate a darti, per quanto doloroso fosse ammetterlo.
E quando finalmente riuscii a sciogliere l’ultimo nodo, sentendo le tue mani ammorbidirsi in quella stretta forzata e liberarsi del tutto dalla corda, tornai a guardarti in volto, facendo davvero i conti per la prima volta, con il fatto che non avessi idea di come fare, per riuscire a salvarti.
Ti eri stretto un polso con la mano, era arrossato e graffiato, e mi avevi guardato, con quegli stessi occhi pieni di paura, lacrime e speranza, ma non erano più lontani e freddi come pochissimi minuti prima, quando ti avevo trovato.
Sembrava quasi che ti fosse bastato vedermi, nuovamente lì per te, al tuo fianco, per sapere che il mondo non ti aveva realmente voltato del tutto le spalle.
Ti avevo accarezzato una guancia, ed un istante dopo mi ero sfilato velocemente il giubbotto, portandolo sulle tue spalle, vestendoti, sentendo quanto fredda fosse la tua pelle.
E mi avevi guardato con lo stesso sguardo grato che avevo visto su di te troppe altre volte, ma era molto più intenso, persino più dolce.
E poi, ti avevo accarezzato di nuovo, cogliendo il tuo viso tra le mie mani tremanti, pensando alle mille cose che avrei voluto dirti in quel momento - tra cui, più di tutte, prima di tutte le altre, il modo in cui mi ero sentito morire nello svegliarmi in un letto d’ospedale, sapendo che ti avevano portato via da me.
Eppure non ti avevo detto assolutamente nulla, avevo solamente baciato le tue labbra in un soffio, come se fosse naturale, come se fosse dovuto, un bacio così dolce nello scantinato di una fabbrica abbandonata, circondati dai corpi senza sensi dei tuoi rapitori.
“Hai paura?”
Riusciva a sconvolgermi ogni volta, quel tuo essere in grado di sorridere in qualunque situazione.
Persino in quel momento, le tue belle labbra, rotte da qualche colpo poco delicato sul tuo viso, si erano incurvate in un sorriso lievissimo, e gentile, ma sin troppo presente.
Assurdo, in quella situazione.
E poi avevi scosso il capo, in un leggero cenno di diniego, senza smettere di guardarmi negli occhi, stringendoti appena nel giubbotto che ti avevo fatto indossare, per riscaldarti, e le tue guance tornavano a colorirsi appena.
“No. Ora non ne ho più.”
Mi ero alzato in piedi lentamente, evitando qualunque tipo di movimento troppo brusco, tenendoti per i gomiti.
“Ce la fai a camminare?”
Avevi semplicemente annuito alle mie parole, ma, una volta in piedi, ti eri abbandonato contro di me, stringendomi con pochissima forza, come se non ne avesse veramente abbastanza.
Probabilmente era dal giorno in cui eri stato rapito che non mangiavi niente, a giudicare dal tuo aspetto sciupato, si erano limitati a darti solamente qualcosa da bere, non del tutto interessati alla tua salute, quanto più al mantenerti in vita, almeno sino a quanto non avrebbero ricevuto ordini diversi da chi aveva commissionato il tuo rapimento.
Mi ero morso l’interno della guancia, cercando di non farti notare l’espressione di dolore che mi aveva colto, quando mi avevi stretto in quel modo, avevo ancora dolori ovunque, nonostante, alla tua vista, mi fossero scomparsi quasi tutti, come se mi avessi fatto da magia.
Ma ti eri tirato su quasi subito, stringendo le mani sulla mia felpa e guardandomi, con aria preoccupata, non ero stato abbastanza veloce a fingere, a trasfigurare il mio viso perché non notassi quella smorfia.
“Jin... stai bene..?”
Non ero riuscito a fare altro che sorriderti, annuendo lievemente anche io, prima di voltarmi a studiare per la prima volta la stanza in cui eri, per cercare una via di fuga che non comprendesse il passare nuovamente davanti alle due guardie addormentate - sapevo che in due non saremmo riusciti a fare abbastanza piano, era già un miracolo che non avessero sentito nulla quando avevo steso i loro compagni.
“Non preoccuparti per me, pensiamo ad andare via... quella porta?”
Parlavo a bassa voce, rendendomi conto di quanto tempo fosse passato, di quanto tempo avessimo perso, semplicemente a guardarci, per renderci davvero conto che fossimo finalmente insieme, che quell’incubo si stava avvicinando alla fine, più che mai.
E tu avevi annuito, guardando per qualche istante gli uomini svenuti per terra, per poi tornare con lo sguardo su di me, cercando le mie mani, per stringermi, per avere un appoggio più morale che fisico, mentre mi mettevi fretta, in direzione di quella porta.
“Ho... visto delle persone arrivare da lì, ogni tanto...”
Annuii anche io alle tue parole, dirigendomi in direzione di quella porta, più in fretta e quanto più silenziosamente possibile, finalmente certo sul fatto che ci fosse un’uscita, dall’altra parte, anche se non sapevo assolutamente dove.
Aveva fatto rumore, aprendola, era una vecchia porta d’acciaio, e si era mossa con un lungo cigolio sordo.
Avevo trattenuto il respiro, cercando con tutto me stesso di sentire qualche rumore al piano di sopra, o alle mie spalle, che potesse farmi capire che quel cigolio aveva messo in allarme qualcuno, ma, fortunatamente, non sentii niente.
Ti guardai ancora, stringendo la tua mano nella mia, e oltrepassammo quella porta insieme, trovandoci in un corridoio completamente buio.
In quel momento maledissi la mia ostinazione nel non essermi preso qualche istante di tempo per prepararmi, per pensare a cosa fare e a cosa mi sarebbe servito, prima di correre a cercarti.
Se solo ci avessi pensato, magari avrei potuto portare una torcia elettrica, o qualcosa del genere - ma era davvero impossibile che io riuscissi a pensare a mente fredda in quelle condizioni, lo sapevo sin troppo bene.
Ti eri stretto nuovamente a me, nello stesso identico modo in cui ti stringevi tutte le volte che eri obbligato ad attraversare una folla di flash e domande indiscrete, ed io avevo portato una mano attorno alla tua vita, proteggendoti, stringendoti, scivolando in quella posizione familiare.
Per un istante avevo pensato di usare l’illuminazione dello schermo del mio cellulare per vedere qualcosa, ma, ben presto, mi resi conto che sarebbe servita solamente ad attirare l’attenzione di qualcuno, se qualcuno ci fosse stato in quel corridoio, e che i miei occhi si sarebbero abituati al buio, in ogni caso.
Camminavamo pianissimo, per non fare rumore, non inciampare in qualche rottame sparso per terra, tra pezzi di tubature rotte e cumuli di polvere, rasenti i muri, mentre l’altra mia mano stringeva ancora la pistola, pronto a sparare al primo rumore.
Avevo di nuovo il cuore in gola.
Avevo troppa paura di un passo sbagliato, ora che tu eri con me, improvvisamente non ero più tanto sicuro di essere disposto a more, non ero così sicuro che te la saresti cavata ugualmente, soprattutto.
Mi aveva spaventato vederti così inerme, per la prima volta, mi ero reso davvero conto di quanto fosse vero, quando scherzavi con me, dicendomi che non te la saresti mai cavata da solo, per quanta palestra potessi aver fatto.
Eravamo ancora agli inizi del nostro rapporto, eri ancora fortemente dipendente dalla mia presenza su un piano più fisico che emotivo - ancora non eri diventato il ragazzo dolce che mi stringeva, e mi diceva che non mi voleva più come guardia del corpo, perché temeva per la mia incolumità.
Sapevo bene quale momento avevo preferito, mi era piaciuto quel livello che aveva raggiunto il nostro rapporto, tale da arrivare a preoccuparsi l’uno della salute dell’altro, ma non ti avrei mai lasciato da solo, avresti dovuto saperlo, stupido.
Avresti dovuto saperlo benissimo.
Il tuo respiro mi sfiorava la guancia, era irregolare, anche tu avevi paura - e lo notavo anche da come le tue dita sottili mi stringevano la stoffa della felpa, da come avessi quasi paura di guardare avanti, ma non riuscissi a distogliere gli occhi dall’accecante buio che ci circondava.
Ti avevo stretto di più la mano attorno alla tua vita sottile, per farti sentire la mia presenza, ma non osavo fermarmi, non osavo nemmeno distogliere lo sguardo da davanti a me per riuscire a vedere la tua espressione.
“Stai tranquillo, piccolo mio, ci sono io, qui. Va tutto bene.”
Mi ero limitato a quel sussurro, abbandonandomi ad un nomignolo che non avevo mai usato prima, pieno di quell’affetto e quel desiderio di possessività che avevo sempre cercato di nasconderti.
Non ero stato abbastanza lucido per limitarmi, ma quell’unica parola sembrò calmarti, niente affatto impercettibilmente, e ti sentii rilassarti nella mia stretta, notando con la coda dell’occhio il tuo lieve cenno d’assenso.
Sarebbe andato tutto bene, doveva andare tutto bene.
Dopo qualche passo, avevo notato per terra aprirsi un rettangolo di luce notturna e, alzando lo sguardo, vidi un lucernario con il vetro rotto, che palesemente dava sull’esterno, probabilmente dritto sull’asfalto, dal momento che eravamo in un piano sotterraneo.
Mi guardai intorno, avvicinandomi a quella luce e stringendoti ancora a me, prendendo il cellulare dalla tasca per riuscire ad illuminare la strada - e non vedevo nessun’altra uscita e, per quanto fossi certo che dovesse esserci da qualche parte, se degli uomini arrivavano nella stanza in cui ti tenevano anche attraverso il corridoio buio e stretto in cui ci trovavamo, mi accorsi di avere fretta, di non riuscire più ad aspettare a liberarti veramente.
Mi fermai esattamente sotto quel lucernario, controllando che fosse abbastanza largo per far passare una persona, e presi un profondo respiro, prima di ammorbidire lievemente la stretta del nostro mezzo abbraccio, e riuscire a guardarti negli occhi.
“Dobbiamo uscire di qua. Va bene?”
Avevi semplicemente annuito, mi faceva ancora più male al cuore, vedendo con quanta difficoltà dicessi qualche parola ogni tanto, e sembrassi restio persino ad alzare lo sguardo.
Non sapevo cosa ti avessero fatto, non avevo avuto il tempo di chiedertelo, ma non credevo di volerlo nemmeno sapere, o, con ogni probabilità, non sarei riuscito a trattenermi dal tornare indietro ed uccidere tutti quei bastardi a mani nude.
“Ti tiro su, e ti faccio uscire. Cerca di non fare rumore, se vedi delle persone, rimani nel buio. Poi esco io, se non ce la dovessi fare, basterà che tu mi tiri per le mani. Va bene?”
Nonostante sapessi che non avevamo molta altra scelta, continuavo a chiederti se ti andasse bene qualunque cosa facevo, con il timore stretto nel petto che qualcosa potesse andare storto.
Avevo paura che potessero esserci degli altri uomini, avevo perso il senso dell’orientamento e non ero sicuro di sapere in quale lato dell’edificio ci trovassimo, quanto distante sarebbe stata la mia auto.
Avevo persino dimenticato che avevo chiesto alla polizia di circondare la fabbrica, o che, ormai troppi minuti prima, quando entrai, non c’era nessuno lì fuori.
Non riuscivo a pensare a niente, ed aspettai solamente il tuo cenno d’assenso prima di abbassarmi, per prenderti sulle spalle.
Faceva male - e non un dolore morale di qualche tipo, era un dolore fisico, fortissimo, all’altezza dello sterno, che quasi mi tolse il respiro, mi fece venire le lacrime agli occhi, e barcollare lievemente.
“Jin..?”
Avevi la voce preoccupata, ma non ti eri perso d’animo, ed avevi immediatamente appoggiato le mani all’esterno del lucernario, sollevando il peso dalle mie spalle.
Io respiravo a fatica, ma non riuscivo a fermarmi, non adesso.
Spinsi le tue gambe sino a quando non ti vidi uscire, ed affacciarti nuovamente, per guardarmi.
Con un piccolo salto ti avevo lanciato la pistola, che avevi preso quasi subito, per non farle fare rumore sull’asfalto - e avevi gli occhi spaventati, indecisi e pieni di lacrime, ti tremavano le labbra.
“Se senti qualcuno che ti avvicina, spara, ok? Schiaccia forte il grilletto, non è molle come sembra nei film.”
“Jin...”
Stringevi la pistola nella tua mano sottile e tremante, vedevo del sangue.
Probabilmente ti eri ferito con uno dei vetri rotti del lucernario, ma ciò che mi feriva di più, era il tuo sguardo, era spaventato, sempre di più ogni istante che rimanevamo separati.
“Arrivo subito...”
Forse avevi l’irrazionale paura che ti lasciassi lì, o ti dicessi di correre via da solo, mentre io cercavo un’altra via d’uscita, perché mi è sembrato quasi che ti rilassassi, a quelle parole.
Provai a saltare, per arrivare al lucernario, ma riuscii solamente a sfiorare uno degli spuntoni di vetro rotto, graffiandomi il palmo della mano.
Tastai quindi il muro, trovando qualcosa a cui appendermi, per arrampicarmi - una vecchia tubatura, un incavo nel muro rotto in cui appoggiare il piede, un chiodo che quasi non mi bucò la mano, ma riuscii a raggiungere il lucernario, ferendomi le mani, perdendo ancora un po’ di sangue, aggiungendo altro dolore a quello che già provavo, lancinante.
E non sono mai stato uno dalla grande sopportazione del dolore - però, in quel momento, mentre le tue mani fragili cercavano di aiutarmi a salire, sino a farmi ritrovare accanto a te, non riuscivo a soffrirne veramente.
Non riuscii ad evitarmi di appoggiarmi pochi istanti al muro, portandomi una mano alla bocca dello stomaco, non riuscivo a respirare.
Eppure, guardandoti accanto a me, sentendo le tue dita gentili che mi scostavano i capelli dal volto, mi sentii meglio, e tornai ad incrociare il tuo sguardo, sforzando persino un sorriso.
Presi di nuovo la pistola dalla tua mano ferita, stringendoti ancora a me, posando la fronte contro la tua per qualche istante, probabilmente per calmarti, ero totalmente incapace di vederti così spaventato, mi si stringeva il cuore, ancora più forte che nella morsa delle mie costole, sicuramente rotte.
“Ci siamo quasi. Ci siamo quasi, hai visto? Sta andando tutto bene.”
Avevi annuito, ed in quel momento eri stato tu ad aiutarmi ad alzarmi, stringendomi alla vita mentre io ricambiavo il mezzo abbraccio, stringendo di nuovo la pistola.
Non riuscivo a sentire alcun rumore, e non capivo se esserne sollevato oppure spaventato.
Avevo uno strano ronzio fisso nelle orecchie, ma ero riuscito ad essere persino più risoluto, conscio che non fosse quello il momento giusto per avere paura, non quando ti tenevo tra le braccia, e ti sentivo tremare.
Non avevo il senso dell’orientamento, ma riuscivo a vedere il cancello della fabbrica, e sapevo benissimo di non avere parcheggiato troppo distante da lì - e sarebbero stati solamente pochi passi, e poi ti avrei caricato della mia auto, e saremmo partiti.
Ti avrei portato in ospedale, perché non stavi bene, avevi preso troppo freddo e non avevi mangiato, e volevo che ti vedessero, però ti sarei rimasto vicino, e sarei finalmente riuscito a rendermi conto che ce l’avevo fatta, che eri libero.
Ti avevo protetto sino alla fine.
Non avevo mai notato prima quanto forte fosse il suono delle sirene della polizia.
È in grado di svegliare un intero quartiere, probabilmente, vero?
Forte, acuto e ripetitivo, non che abbiano scelta, deve essere per forza così, un suono abbastanza fastidioso da far sì che le persone siano spinte a sgombrare la strada, per far passare chi ha fretta di arrivare sul luogo di un delitto, o è nel bel mezzo di un inseguimento.
Non me ne ero mai reso conto appieno, sino a quel momento, forse ero sin troppo abituato a lavorare in quell’ambiente, forse rischiavo di diventare proprio come quelle persone che non hai mai sopportato, che riescono a dare tutto per scontato, anche quando c’è qualcosa di così lampante - quelle cose che solo i bambini notano, imitando il suono ripetitivo della sirena della polizia, esaltandosi, ridendo.
Non riuscivo a ridere.
Non riuscivo a non maledire lo scarso tempismo di quelle auto, tutte insieme in quel coro stonato, che arrivavano finalmente lì dove già dovevano essere da troppo tempo, circondando l’edificio, fermandosi, spegnendo il concerto di sirene quando ormai era troppo tardi.
Troppo.
Ero sicuro che gli uomini all’interno dell’edificio si fossero svegliati, a quel suono, forse anche quelli che ero stato io a stendere con qualche colpo, e non riuscivo a sentirmi tranquillizzato, sollevato, vedendo gli uomini in divisa scendere dalle loro auto tutte uguali, pronti a puntare le loro armi in direzione dell’edificio da cui stavamo uscendo, non illesi, ma vivi.
Quel suono aveva certamente messo in allerta chiunque, anche se ci fossero state altre persone che non avevo visto, e non riuscivo a fare a meno di maledirmi, sì, io, per quel messaggio che mi ero sentito in dovere di mandare al capo della mia squadra, per far sì che ci fosse qualcuno pronto a salvarti anche in caso io fossi stato ucciso prima di riuscire ad arrivare fino a te.
Non riuscii nemmeno a guardarmi indietro, quando sentii i rumori e le grida alle mie spalle.
Riuscii solo ad ammorbidire il nostro mezzo abbraccio, guardarti, e spingerti appena, nonostante separarmi da te fosse l’ultima cosa che volevo fare in tutta la mia vita.
“Corri, Pi, corri!”
E anche nel tuo sguardo c’era quella nota di incredibile disperazione, non volevi crederci, non volevi allontanarti da me.
Stringevi una mano intorno alla mia felpa per tirarmi via con te, ma io non riuscivo a correre, riuscivo ormai a stento a respirare - e l’unica speranza che avevo, era che tutti quegli uomini fossero abbastanza codardi da non volerti inseguire davanti a così tanta polizia, dal volere solamente tornare all’interno dell’edificio, nascondersi, scappare.
Ma il loro odio era più forte della loro codardia, forse più forte addirittura del loro desiderio di sopravvivenza, ed in un ultimo disperato gesto di vendetta - o forse nel desiderio di cercare di tapparti definitivamente la bocca per sempre,
uno sparo, forte, a squarciare il silenzio fatto di grida e brusio dei curiosi che erano stati attratti da quella scena.
Uno sparo, e non riuscii nemmeno a pensare alle possibili conseguenze, prima di buttarmi su di te, proteggendoti con il mio corpo, schermandomi dietro la scusa di quanto quello fosse l’atto estremo della bravura nel mio lavoro.
Fingendo di non ricordarmi che avevo dato a te il mio giubbotto antiproiettile, per coprirti dal freddo.
Bruciava, ma tutti gli altri dolori stavano sparendo.
Il sangue che mi copriva una mano, il dolore al ginocchio che probabilmente avevo battuto da qualche parte, le labbra rotte, le costole incrinate, la sensazione di non riuscire a respirare.
Stava sparendo tutto, se non quel bruciore fastidioso, ad un fianco, che non riuscivo a guardare, per paura di ciò che avrei visto.
Ero caduto su di te, ma non riuscivo a vederti bene, avevi il volto annebbiato, non capivo le tue parole, il tuo stringermi, le tue lacrime.
“Jin!”
Urlavi il mio nome, ma non riuscivo a capire altro.
Mi stava passando la voglia di sforzarmi a respirare, sentivo le tue mani sul mio volto, il tuo respiro contro di me, il sale delle tue lacrime, e troppe gambe che ci circondavano.
Ma eri al sicuro, ero certo di essere riuscito a salvarti, di essere riuscito a proteggerti sino all’ultimo, sino al mio ultimo respiro.
“Jin...”
Eri al sicuro, e potevo anche smettere di sforzarmi così tanto per respirare.
Non ci sarei riuscito ancora, in ogni caso, nemmeno per un altro respiro.
“Jin!”
つづく ♥
Lo soooo che mi direte che è crudele interrompere così. Scusatemi. ♥