Waiting for that feeling to come - RANTS

Feb 12, 2010 20:08

Alloooora ♥ a parte il fatto che sto postando tipo duecentomila volte a settimana e non è da me (forse qualcuno vorrà ammazzarmi per questo, perdonatemi), mi sono resa conto che avevo ancora una cosa da postare, scritta durante l'anonimeme. In verità ne avrei due, ma l'altra, da oneshot si è trasformata in una long-fiction (parecchio long) che ancora non è del tutto finita, ma ci sto lavorando, prometto. Ah, e rifaccio l'appello alla persona che aveva promptato l'AU del politico che viene rapito, RIVELATI A MEEEH! ç_ç
Comunque, bando alle ciance (che tanto ne farò dopo perché ci sono un paio di cosette che vorrei mettere in chiaro), eccola qui.

Titolo: Waiting for that feeling to come. (Tender, Blur)
Pairing: Ryo Nishikido (Kanjanj8, News) x Yuya Takaki (Hey!Say!JUMP)
Genere: introspettiva, fluff
Rating: PG-13
Warnings: Niente di che, immagino. Ryo's POV, riferimenti agli amori passati di Ryo (se li cogliete tutti il mio unico neurone funzionante vi darà un bacio).
Ah, e solo una cosa, la maggiore età in Giappone si raggiunge a vent'anni, per questo Ryo dice che Yuya non è ancora maggiorenne. Non è una specie di pedofilo che guarda i ragazzini... cioè SI', ma non in questo caso ecco. XD
Commenti: So che questa coppia non esiste, ma quando la OP ha scritto quel prompt, è stato più forte di me, mi ha chiamato. Non dite che non sarebbero assolutamente bellissimi insieme... soprattutto perché Yuya è esattamente il tipo di Ryo. Il prompt in questione era: "due uomini che fanno i fighi ma che in verità sono sensibili, quanta dolcezza scaturirà dai loro sorrisi e dalle loro lacrime?", e mi ha proprio chiamato fortissimo.
Disclaimer: Don’t own. E se mi appartenessero, Yuya mangerebbe di più, avrebbe i boccoli tutti i giorni e la french rosa antico sulle unghie. Aw.



Waiting for that feeling to come.

Ogni volta che ho preso la piuttosto ferma decisione di non lasciare più all’amore alcuno spazio di manovra nella mia vita, quello è tornato a presentarsi davanti ai miei occhi nelle vesti più innocue ed inaspettate.
Una volta aveva gli occhi languidi e la pelle color caramello del mio migliore amico, ed era stato sin troppo facile lasciare che la già palese ambiguità del nostro rapporto scivolasse in qualcosa di ben più serio.
Ma poi era finita, una stupida incomprensione, un litigio, i suoi occhi pieni di lacrime quando diceva che non gli importava più niente di niente.
A seguire la sua espulsione dal gruppo, le mie lacrime ingoiate dentro il mio orgoglio, le mie scuse nascoste dietro l’ennesimo rimprovero - e lui le aveva capite, ma era finita comunque.
Ed ero riuscito solamente a fargli del male, ed avevo giurato a me stesso che non mi sarei mai più innamorato.
Ma la volta dopo l’amore era tornato, nel sorriso lieve di un altro amico, troppo amico, da troppo tempo, e nei suoi occhi tristi di tutti quegli anni difficili, tutti sulle sue spalle.
E c’era la passione, a volte sin troppo travolgente, c’erano risate vuote che però non coinvolgevano mai i suoi occhi sin troppo tristi.
Ed era finita, o forse non era mai iniziata veramente, quando mi resi conto che non era me che amava, che al mondo esisteva davvero qualcuno in grado di curare i suoi occhi tristi - e non ero io, né mai lo sarei stato.
Ed ero riuscito solamente a farmi del male, ed avevo giurato a me stesso che non mi sarei innamorato mai più, in tutta la mia vita.
Ma poi l’amore era passato davanti a me per la terza volta, negli occhi fintamente innocenti di qualcuno che non era un amico, questa volta, non esattamente - ma lì era stato sin troppo facile lasciarmi ammaliare dalla sua voce da sirena e dal suo viso perfetto.
Per la terza volta avevo lasciato l’orgoglio da parte, stupidamente convinto che nessuno mi avrebbe mai detto di no, stupidamente convinto che avrei fatto innamorare anche lui.
E non era mai cominciata, c’eravamo solo io e le mie fantasie irrealizzabili, in quella storia, e le parole dure che non ero riuscito ad evitarmi una volta resomi conto che al mondo c’era qualcuno di totalmente immune al mio fascino, ed era il mio terzo amore.
Ed ero riuscito solamente a fare del male ad entrambi, a me stesso, cullandomi in false certezze create solo dalla mia mente, destinate a spezzarsi, e a lui, quando gli urlai contro di abbandonare quello che era stato da sempre il suo carattere, obbligandolo a rendersi conto di quanto dolore potesse provocare.
Ed avevo giurato che questa volta davvero, avrei fatto di tutto, pur di non innamorarmi mai più.

Ma poi avevo visto lui.
L’impressione che avevo di quel ragazzo - ragazzino, non era nemmeno maggiorenne, e lo sapevo benissimo - era totalmente diversa dall’immagine che mi si era presentata davanti agli occhi.
Ma poi avevo visto lui.
Era appoggiato al muro, gli auricolari nelle orecchie nascoste dai capelli biondi, talmente chiari in contrasto con la sua pelle così scura.
Negli occhi aveva lo stesso languore del mio primo amore, la stessa vena affascinante di malinconia che scorgevo nello sguardo del secondo, ed una sensualità ingenua molto, troppo simile a quella del mio terzo amore.
Eppure la sua dolcezza aveva un sapore del tutto particolare, tanto che riuscivo a sentirne il profumo anche ad una certa distanza.
E per la prima volta non vidi solo la perfezione di chi mi interessava in quel momento, ma anche i suoi difetti, sin troppo attraenti ai miei occhi - la mandibola lievemente pronunciata, il modo in cui si mordeva il labbro inferiore sino a rompere appena la pelle, quello in cui strizzava gli occhi per riuscire a vedere qualcosa di distante, per far fronte ad una lieve miopia che non voleva essere curata con gli occhiali, per puro capriccio.
Ed era bello da morire, al punto tale che guardarlo mi faceva quasi male, mi faceva sin troppa paura.
La pelle del suo collo era scura del ricordo di un’estate troppo vicina, seguiva il tempo della musica con un dito, che tamburellava nervoso sulla coscia fasciata dai jeans stretti, l’altra mano nella tasca di un giubbotto scuro, lo sguardo fisso sull’altro lato del corridoio, annoiato, come se stesse aspettando qualcuno da troppo tempo.
Ero restio al passargli davanti, forse stupidamente - ma io e lui non ci conoscevamo, non di persona, e tra noi non c’era che quel rapporto senza sapore che c’è tra operai di una stessa azienda, condito dal lieve nonnismo, da parte mia, ovviamente.
Ma mi conoscevo, forse sin troppo bene, e non mi andava di assistere alla disfatta del personaggio che tenevo in pubblico solamente perché quel piccolo angelo abbronzato mi avrebbe rivolto la parola, salutandomi, magari con un piccolo inchino del suo capino biondo, e chiamandomi senpai.
E queste ovviamente erano tutte mie fantasie, perché, non appena gli passai davanti - quello era un corridoio, comunque, abbastanza stretto e certamente non dotato di divisori tra le corsie, e per raggiungere l’ascensore ero bene o male obbligato a passare davanti a lui - l’unico movimento che permise al suo bel viso fu un battito di ciglia, né più né meno di quello.
Il suo saluto, o meglio, la mancanza di esso, non fece altro che indispettire il mio orgoglio e, senza pensare un istante di più a ciò che stavo facendo, mi fermai davanti a lui, guardandolo dritto in volto.
Lui ricambiò lo sguardo, con fierezza, e poi si portò una mano all’orecchio, sganciando un auricolare, uno solo.
“Mh?”
Evidentemente pensava che avessi qualcosa da chiedergli, perché la sua espressione era mutata in una di più lieve cordialità, nonostante fosse ancora visibile, disegnata nel suo bel viso, una noia alquanto evidente.
In quel momento mi sentii piuttosto stupido a pretendere da lui un saluto che non mi doveva, non a tutti i costi, ma ormai gran parte del danno l’avevo fatto, fermandomi davanti a lui.
Piuttosto stupido da parte mia, sì, lo so benissimo, ma non sono mai stato famoso per il fatto che pensassi prima di agire, decisamente.
“Be’? Non si saluta?”
Le sue sopracciglia sottili si inarcarono lievemente, più che altro di stupore, decisamente, al tono non esattamente gentile con cui mi ero rivolto a lui.
Aveva fatto un lieve sorriso, con un solo angolo delle labbra, che donava pericolosamente troppo a quel suo bel viso da bambola. Da barbie California, visto il colore della sua pelle.
“Chiedo scusa, ma noi, in effetti, non ci siamo mai veramente rivolti la parola prima di adesso. Ma comunque è colpa mia, avrei dovuto pensare che ti dovessi un saluto. Buonasera, senpai.”
La sua era strafottenza elegantemente travestita da educazione, un lieve inchino del capo ed un sorriso che scompariva in fretta, mentre tornava a posizionarsi l’auricolare nell’orecchio, lo sguardo lievemente infastidito dal non riuscire a spostare tutti i capelli mentre se lo metteva.
Forse non mi aspettavo una risposta del genere, forse avevo sperato di riuscire a leggere quella nota di timore nei suoi occhi che normalmente riesco a leggere nello sguardo di tutti i miei kouhai, quando venivano rimproverati da me per qualche motivo, anche se altrettanto futile.
Eppure non si era spaventato, quel ragazzino, mi aveva rivolto un sorriso ed una parola un po’ troppo strafottenti, tornando poi a guardare il vuoto con la stessa aria annoiata di prima.
Ed io ero rimasto lì, come un completo idiota, sino a quando, quelli che spero fossero pochi istanti dopo, dalla porta immediatamente accanto a lui non uscì uno dei Juniors più grandi.
“Nishikido.”
“Kitayama.”
Un cenno di saluto con il capo sin troppo veloce e decisamente poco formale verso di lui, non si poteva dire che fossimo amici, ma neanche solamente conoscenti.
Il nostro rapporto stava in quel limbo che si trova tra i due, forse il fatto che fosse stato compagno di classe di alcuni miei cari amici aiutava il mio non prendermela troppo ogni volta che si rivolgeva a me in modo decisamente poco educato.
O che faceva qualunque cosa di poco educato, come il portare un braccio attorno alla vita del mio interlocutore - che poi, stavamo davvero parlando? - e togliergli gli auricolari dalle orecchie con poca grazia, porgendo la guancia per farsela baciare, in segno di saluto, mentre lo trascinava via.
Ma quello era solamente il mio primo incontro, e forse ancora non avevo capito di come l’amore fosse tornato a presentarsi ai miei occhi nell’ennesima veste inaspettata.
Eppure, ero quasi certo che non sarei più riuscito a togliermi dalla testa quel ragazzino.

La colpa fu solamente del nostro primo incontro, ne ero certo allora e ne sono più che certo in questo momento.
Colpa di quell’incontro fugace e fuori dagli schemi - per me, fuori dai miei schemi, dove chiunque abbia la fortuna di potermi rivolgere la parola non fa altro che riverirmi e ringraziare il cielo che gli sia stata fornita questa possibilità - che non mi permise di costruirmi nella mente la giusta immagine di quel ragazzino.
L’immagine che avevo di lui era solo di un ragazzino strafottente e sin troppo freddo, che non veniva toccato dalla realtà tanto quanto non lo fosse dal successo, che gli era piovuto addosso quasi all’improvviso, non si sa se per la sua bellezza o la sua voce particolare o la fortuna di aver avuto uno dei ruoli principali in un drama di successo.
L’immagine di lui era caduta, inesorabilmente, quando mi ero trovato a percorrere lo stesso corridoio in cui l’avevo visto per la prima volta, assistendo, seppur senza averne la minima intenzione, a quello che sembrava in tutto e per tutto un litigio, tra lui e Kitayama.
Dapprima pensai ad una specie di litigio d’amore, dati quelli che mi erano sembrati i rapporti tra loro, ma, come al mio solito, avevo ovviamente frainteso tutto.
“Non mi va di parlarne, Micchan, davvero. Non...”
“Non capirei?”
La sua voce sembrava più sommessa di quando si era rivolto a me, non era più piena di scortesia elegantemente travestita da buona educazione, era dolcezza reale, e particolarissima.
Era timore di sentirsi scoperto in qualcosa che pensava, che sapeva di pensare, ma che aveva creduto di riuscire a nascondere, nonostante tutto.
L’avevo guardato abbassare gli occhi, stringere le mani, stringere le labbra, contenere qualcosa che temevo non fosse rabbia, quanto più una dolorosa voglia di piangere.
“Perché devi travisare le mie parole? Non ho detto questo...”
“Dovresti ascoltare la gente che ha un po’ di esperienza in più di te in questo lavoro, Yuya.”
Non era riuscito a replicare nulla alle parole dell’amico - o qualunque cosa fosse per lui, dopo aver travisato il loro rapporto una volta, ero restio a dare definizioni di cui non ero affatto certo - ma aveva mantenuto lo sguardo basso, avevo visto i suoi occhi tristi.
E Kitayama aveva voltato il viso, aveva evitato di guardare quegli occhi tristi, probabilmente consapevole più di me dell’effetto che avessero su chiunque, forse conscio che sarebbe stato più difficile, mantenere la propria posizione, la propria rabbia, se avesse visto quegli occhi.
Poi si era girato, se n’era andato, lasciando il ragazzino solo con la sua tristezza, in quell’atto di menefreghismo davvero imperdonabile.
Non che io sia mai stato una persona particolarmente sensibile, ma, probabilmente, nemmeno io ce l’avrei fatta a portare sull’orlo delle lacrime un ragazzo di una dolcezza tale.
E inerme avevo continuato a guardarlo, le sue spalle ancora piccole che si scuotevano in un sospiro profondo, mentre si appoggiava al muro, guardando la schiena sempre più distante di quell’amico che l’aveva ferito con poche parole - o che credeva di essere stato lui a ferire, dato lo sguardo pieno di sensi di colpa e lacrime inespresse.
Ero, se possibile, ancor più restio di quella prima volta ad avvicinarmi a lui, mi sembrava di interrompere una scena in cui non ero compreso, di irrompere in una coreografia di cui non dovevo far parte, svelando la sua falsa arroganza e scoprendo una dolcezza che sicuramente non voleva mostrare a nessuno all’infuori di se stesso - e lo sapevo benissimo, avrei riconosciuto quello sguardo ovunque.
Lo sguardo di chi non ha voglia di mostrarsi debole agli occhi del mondo, lo sguardo di chi si stringe nel cuore la propria personalità, al sicuro dalle opinioni delle persone che lo circondano, l’avrei riconosciuto ovunque, quello sguardo, perché era lo stesso che ricambiavo nello specchio ogni mattina.
Quando però la prima lacrima sottile ha solcato il suo visino abbronzato di un’estate troppo vicina e di falsa arroganza, non sono riuscito a resistere nemmeno io dall’avvicinarmi, dal desiderio di fare qualcosa per lui, di vedere tornare il sorriso strafottente a splendere su quelle belle labbra.
“Va tutto bene?”
L’avevo colto involontariamente di sorpresa, nonostante avessi fatto attenzione a non rendere troppo silenziosi i miei passi per far sì che lui mi sentisse arrivare, e si voltasse verso di me, era però evidentemente assorto nei propri pensieri quanto nei propri improbabili sensi di colpa, per accorgersi di qualunque altra cosa.
Si era asciugato una guancia con un gesto brusco del dorso di una mano, voltando appena il viso perché io non riuscissi a vederlo.
“Certo che va tutto bene.”
E l’avevo scorta di nuovo, quella strafottenza elegantemente travestita da buone maniere, nonostante la sua voce si fosse incrinata di un singhiozzo leggero, e di una tristezza che non era riuscito a nascondere, non del tutto.
“No, non va tutto bene, ragazzino. Stavi piangendo.”
Si era voltato di nuovo verso di me, le belle labbra strette in un broncio pieno e ben delineato, gli occhi castani ancora rossi di pianto, ma il suo sguardo era fiero. Bellissimo.
“Non stavo affatto piangendo. Non sono affari tuoi, senpai.”
Non erano affari miei, in effetti, e lo sapevo benissimo.
Ma sono sempre stato cronicamente incapace di farmi da parte, anche in una situazione che con me non dovrebbe avere niente a che fare, l’ho sempre presa come una sfida, impormi sul prossimo anche negli affari suoi.
Solamente suoi, questa volta, ma non ha importanza.
“Sei un piccolo ingrato. Mi stavo preoccupando per te, sai?”
“Mi riesce difficile crederlo, con quel carattere, senpai.”
C’era qualcosa di incredibilmente attraente nello sguardo fiero che aveva ogni volta che mi rispondeva a tono, ponendo alla fine della frase quel piccolo onorifico che dava un sapore di rispetto alle sue parole, anche quando non ne recavano alcuno - ma forse quel ragazzino ne sapeva più di quanto ne capissi io, e sapeva quindi alla perfezione quanto quella parolina avesse un effetto calmante sulla maggioranza delle persone che la sentivano.
L’avevo guardato con quello che ero convinto essere uno sguardo pieno di fastidio, mentre mi ergevo in tutta la mia - poca, sicuramente minore della sua - altezza, cercando invano di farmi valere.
Non credevo di esserci riuscito poi molto, perché il suo sguardo fiero non si abbassava nemmeno di pochi millimetri, ma rimaneva fermo nel mio, nonostante i suoi occhi rossi.
Ed ero stato io a cedere, non per la prima volta nella mia vita, certo, ma sono sempre stato sin troppo consapevole di cosa volesse dire, per me, cedere per primo in uno scontro di orgoglio.
Il problema era, in effetti, che in quel momento non me ne ricordavo assolutamente.
“Dai, ragazzino, deponi le armi e ricominciamo da capo. Ti porto a mangiare qualcosa, da bravo senpai. Del resto, io e te praticamente non ci conosciamo, vero?”
I suoi begli occhi castani si erano lievemente spalancati, forse non aveva capito del tutto le mie parole, o, più probabilmente, aveva creduto che fosse solo l’ennesimo scherzo frutto del nonnismo di chi lavorava nel nostro ambiente da più tempo di lui.
Non mi aveva risposto subito, era diffidente come un gatto, e non si era rilassato nemmeno quando gli avevo messo una mano sulla schiena, per esortarlo a camminare in direzione dell’ascensore.
E non aveva parlato, sino a quando non ero stato di nuovo io, a prendere la parola.
“Allora, ragazzino, ti devo chiamare così per sempre?”
“Mi chiamo Yuya Takaki, senpai.”
Avevo sorriso appena, schiacciando con un dito il bottone del piano terra, guardando le porte dell’ascensore chiudersi davanti a noi.
“Lo so benissimo, come ti chiami, non sono così pieno di me stesso da non conoscere i miei colleghi. Ti stavo solo chiedendo come devo chiamarti.”
E sembrava sorpreso, ma avevo visto la tensione nelle sue spalle sciogliersi di pochissimo, mentre si appoggiava alla parete di fondo del piccolo abitacolo dell’ascensore, guardando il riflesso del proprio viso, dei propri occhi rossi, nello specchio.
“Va bene solamente Yuya.”

Parlare con lui, era stato molto più semplice di quanto mi sarei mai immaginato.
Forse le luci al neon appena più soffuse, eppure forti, di una stanza da karaoke facevano la loro parte, ma non sentivo niente dei nostri sei anni di differenza, né la pesantezza dell’imposizione di un rapporto senpai-kouhai che ci aveva mantenuto vicini, eppure distanti, sino a quel momento.
Tutte quelle imposizioni si erano sciolte, la consapevolezza di dovermi occupare di lui pur non conoscendolo, quasi fosse un obbligo morale, non era più il mio chiodo fisso, era sparita, così come gli onorifici esagerati dopo i nostri nomi.
Parlare con lui, era semplice come parlare con qualcuno che si conosce da anni.
Yuya era bello, beveva analcolici per non mettere a rischio la sua carriera, però assaggiava il sapore forte di alcool del liquido del mio bicchiere senza arricciare il suo naso piccolo, e non socchiudeva gli occhi se per caso gli andava il fumo della mia sigaretta in volto.
Sembrava più grande di quanto non mi fosse sembrato prima di quella sera, più maturo, parlava di musica e di vita come se fossero la stessa identica cosa, e forse era convinto che lo fossero davvero.
Aveva cantato poche volte, con una voce limpida e decisa, che si incrinava appena di incertezza nelle note più lunghe, però sorrideva con una luce particolare, orgoglioso di ciò che era, nonostante tutto.
Aveva preferito passare il tempo a parlare, tutto il nostro tempo, le ore di una sera lontana dall’estate che ancora si scorgeva sulla sua pelle che pian piano si trasformava in una notte fredda, mentre i bicchieri vuoti sul nostro tavolo aumentavano, più di metà degli alcolici che avevo ordinato bevuti da lui, in qualche risata.
Era già tardi, quando avevamo cominciato a parlare più seriamente.
Era già tardi per me, che mi ero accorto che parlare con lui, era semplice come parlare con un’anima gemella.
Il castano caldo dei suoi occhi si era incrinato di orgoglio ferito, mentre gli chiedevo il motivo del suo litigio con Kitayama, e si era stretto nelle spalle, in se stesso, facendomi temere di aver fatto un passo di troppo, di averlo spinto a chiudersi di nuovo nel suo silenzio, timidezza travestita da elegante strafottenza.
Però mi aveva risposto, gli occhi persi nel liquido ambrato del mio bicchiere, stretto tra le sue lunghe dita, ed un sospiro.
“Mi sembra quasi strano, dirlo a te. Però sono le solite cose, no? Quello che passano tutti quando stanno per diventare appena più famosi, quando sono all’inizio della carriera.”
Era vago nelle sue parole, ma non lo faceva con la precisa intenzione di non volermi fare sapere ciò che c’era davvero nella sua mente - forse, credeva davvero che tutti passassimo le stesse crisi, ad inizio carriera.
In un’innocenza che aveva un che di dolce, forse non sapeva che c’è chi passa cose ben peggiori di un litigio con un caro amico che non ha ancora debuttato, di qualche critica aspra per il proprio modo di essere, ma, in un certo senso, ero sicuro che non fosse questo il caso, che lui non stesse passando niente di davvero terribile, sulla sua pelle.
Certo, vedevo tristezza nei suoi occhi, ma era più una macchia nell’orgoglio del suo carattere, che un vero e proprio dolore forte, che sarebbe potuto essere causato solo da qualcosa di peggiore di un banale litigio.
Ma non avevo detto nulla, aspettando che fosse lui a decidere di parlare ancora, esortato dal mio silenzio e dal mio sguardo fisso su di lui, prima di togliergli il bicchiere dalle dita, finendolo con un sorso.
“Tutti quanti ci siamo ispirati a qualcuno che è arrivato prima di noi, no? Abbiamo tutti preso qualcuno a modello. Forse sto puntando un po’ in alto, me ne rendo conto, ma... c’è chi ha puntato anche più in alto di me, dopotutto.”
Aveva messo su un piccolo broncio, la tristezza si era fatta da parte, e dalle sue parole era tornata a trasparire quella rabbia leggera, quel fastidio, ad accuse che forse gli erano state rivolte da Kitayama stesso.
Cercai di recuperare nella mia memoria qualcosa su di lui, qualche vaga nozione sul chi potesse essere il suo idolo, la persona a cui ambiva somigliare di più, ma no, non riuscii a ricordare nulla.
“Chi..?”
“Lo so benissimo che non sarò mai come Akanishi-kun. Non ho la sua voce, non ho il suo talento. Però mi voglio solo ispirare un po’, e... e non mi va, che tutti mi ricordino in continuazione che non sarò mai come lui, che devo trovarmi il mio stile, che mi sto trasformando in una ridicola imitazione. Io lo so benissimo, che non sarò mai come lui.”
Ma certo, era Jin.
Mi aveva parlato più volte di quel ragazzino, di quando ancora non aveva debuttato ed era andato con la sua unit in tour con il suo gruppo, mi aveva parlato dei suoi occhi, del modo in cui brillavano, della sua lieve idolatria nei propri confronti.
Mi aveva detto tante cose di lui, eppure le avevo dimenticate tutte, e non ero riuscito a collegare il modo in cui Jin aveva parlato di quel ragazzino con la persona che mi trovavo davanti - ma questo era probabilmente in gran parte colpa del mio amico, che ha sempre avuto la tendenza a vedere i suoi kouhai come eterni bambini, gli stessi con cui rideva e giocava quando erano piccoli.
Quello che mi trovavo davanti non era un bambino, era cresciuto, era un bellissimo ragazzo dagli occhi decisi e dall’orgoglio ferito, in cui intravedevo una dolcezza tale da farmi davvero temere per lui, per quanto mi sembrasse esattamente il tipo di persona che poteva venire ferito con facilità anche da una sola parola.
Mi ero ritrovato a sorridere, scuotendo appena la testa, prima di parlare.
“Be’, hanno ragione. Non sarai mai come Jin.”
Il broncio sulle sue belle labbra si era delineato in modo ancora più deciso, mentre mi guardava con quei grandi occhi castani, offesi, arrabbiati, pronto a scagliarsi con quella sua elegante strafottenza contro di me, per dirmi che ero uno stupido, che non avevo ascoltato una sola parola di ciò che mi aveva appena detto.
Non riuscii a trattenermi dal ridere, mentre posavo una mano tra i suoi capelli morbidissimi, accostandomi a lui.
E non riuscii a trattenermi dal rubargli un bacio, leggerissimo, posando le mie labbra sulle sue ancora imbronciate.
Erano morbide, calde di alcool e respiro, e si erano sciolte in un’espressione sorpresa, quando mi ero scostato lievemente da lui, per guardarlo dritto negli occhi.
Non sembrava intenzionato ad allontanarmi, sembrava piuttosto che quel mio gesto l’avesse colto completamente di sorpresa, ma non gli fosse affatto sgradito.
E gli avevo sorriso.
“Sei più carino. Molto più carino. E, be’... anche più magro, decisamente.”
E nemmeno lui era riuscito a trattenere una risata allegra, ed era bello, dio se era bello.
Non me ne ero ancora reso conto, mentre facevo morire quella risata contro le mie labbra, stringendo le braccia attorno alla sua vita sottile, sentendo il modo delizioso in cui si arrendeva a me.
Non me ne ero reso conto, ma era davvero l’amore, che era arrivato da me per l’ennesima volta, nei panni di chi non mi sarei mai aspettato di sentire sorridere contro le mie labbra.

...Fine.♥

Uhm, mi sto rendendo conto ora che alcune cose di questa fanfiction sono comprensibili solo se si segue veramente tantissimo Yuya. Tipo il fatto che abbia un rapporto di amicizia piuttosto stretto con Hiromitsu Kitayama dei Kisumai o che idolatri Jin... no, be', la cosa del fatto che idolatri Jin è proprio lampante. XD

Lasciando perdere la ff per un istante. Volevo dire a qualche persona che, oooops, sapete che su livejournal si può vedere benissimo chi viene a leggere? No, perché secondo me non lo sapete, visto che continuate a venire a cercare di farvi i fatti altrui, e quindi forse non siete così fighe, se passate la vita a cercare pettegolezzi. Oh be', se vi ho tolte dagli amici, vuol dire che comunque non vedrete che qualche inutile post non protetto, anche se venite qui dieci volte al giorno, mi spiace. :D

Ma comunque, a parte questo paio di persone... vi amo tutti. ♥

genre: fluff, sclero, yuya, rating: pg-13, ryo, fanfiction: italian

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