Titolo: You left me with no love in order to my name
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: John Watson, Sebastian Moran
Rating: R
Avvertimenti: Violenza, suicido
Conteggio parole: 11153
Riassunto: John ha deciso di mettere fine alla sua vita. E ha deciso che sarà Sebastian Moran ad aiutarlo nel suo intento.
Note: E finalmente si posta!
Ringrazio chiunque abbia letto questa fic prima che venisse postata - poche persone in realtà, ma tanto care e buone - e chi leggerà. :* Ringrazio INFINITAMENTE le due fanciulle che mi hanno giftata perché, Dio, sono dei gift assolutamente meravigliosi, sanny_pirate,
che ha disegnato sette pagine assolutamente meravigliose, e albioncheshire, che mi ha letteralmente
uccisa. Divisa in due, perché LJ è un culo.
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Piove.
È ottobre inoltrato e le giornate di sole si fanno sempre più rare, segno che l’autunno, da quelle parti, non esiste già più. Il rumore, invece, è onnipresente in ogni sua forma: il suono dei clacson persistente e fastidioso in una coda che si estende per due chilometri, dall’incrocio con Marylebone Road e fino a ben oltre quello con Crawford Street, i passi frettolosi di qualcuno che non si accorge delle pozzanghere che vanno formandosi nella strada, il chiacchiericcio di chi entra da Starbucks per trovare ristoro in una bevanda calda.
John Watson controlla l’orologio, tamburellando sul tavolo affianco al vetro che dà sulla strada. Le dieci e cinquantatre. Sul tavolo, il cappuccino che ha comprato mezz’ora fa è quasi freddo, ed è probabile che rimarrà così, vuoto a metà.
È arrivato troppo in anticipo.
Avrebbe potuto dormire dieci minuti in più. Avrebbe dovuto, per evitarsi la trafila di pensieri che ogni mattino, appena apre gli occhi, affolla la sua testa da quattro mesi a questa parte e finché non trova qualcosa che tenga occupato il cervello.
Prima c’era Sherlock che osservava, parlava, fissava. E poi c’era Sherlock sciolto in sangue contro il marciapiede. Di nuovo. Per l’ennesima volta.
Si passa una mano sulla fronte, scuotendo la testa. Avrebbe dovuto dormire di più e al diavolo gli incubi, ma la persona con cui ha un appuntamento questa mattina è una persona di cui non conosce le abitudini, e Dio solo sa se sia puntuale o meno.
Col lavoro che fa, opta comunque più per la prima opzione.
Si chiede solo come farà a riconoscerlo.
Butta un occhio alla strada e osserva ogni singolo passante, ridendo di se stesso per i suoi subdoli tentativi di capire qualcosa delle loro vite. Il massimo che arriva a dedurre è se si tratta di studenti o uomini in carriera, e non è niente di cui andare fieri perché dannatamente palese.
Riguarda l’orologio, leccandosi le labbra. Sono passati tre minuti.
Altri quattro e farà un salto nel vuoto. A occhi chiusi. Senza paracadute.
Non ne ha parlato con nessuno, perché nessuno condividerebbe la sua scelta. E per fortuna sono tutti troppo presi da altre cose per pensare a un uomo che a denti stretti sorride e tira avanti per il bene della padrona di casa che rivede in lui la speranza, di un poliziotto degradato che cerca di recuperare il lavoro di una vita, di un uomo che ha venduto suo fratello a uno psicopatico per il bene della nazione.
Assaggia il cappuccino, ma è talmente freddo e disgustoso che ritira subito le labbra.
Come farà a riconoscerlo?
Ha sentito parlare di lui solo per vie traverse, un regalo di Mycroft post-suicidio, forse un misero tentativo di redimersi - sicuramente fallito, ma di certo utile alla sua causa. Sa solo che è ben piazzato, alto come Sherlock ma più robusto.
La porta del Starbucks cigola, e lui smette di pensare.
È evidente che non ha bisogno di sforzarsi di cercare il suo uomo tra le decine di persone che stanno stipate nel locale, perché l’uomo in questione sa benissimo che faccia abbia lui, ed è per questo che il suo respiro si blocca come la corda inceppata di un paracadute che non si vuole aprire.
Non si deve aprire.
“Dottor Watson?”
Lui annuisce in modo quasi impercettibile, mentre una mano leggermente abbronzata si allunga per stringere la sua. Non è andato molto lontano con l’immaginazione, pensa, guardando i suoi occhi.
Verdi e miseramente vuoti.
“Sebastian Moran.” conclude, e nel momento in cui prende posto di fronte a lui, John sa che adesso non può più tornare indietro.
You left me with no love in order to my name
“Sa, pensavo avrebbe scelto un posto più discreto.”
John stringe le labbra, prima di bagnarle con la lingua. C’è una sottile tensione che scorre sottopelle che gli fa rizzare i peli delle braccia sotto la camicia. “È un ottimo posto per parlare, invece. Tanti turisti e tutti che si fanno gli affari propri.”
All’uomo sembra piacere la risposta, perché prima di sorseggiare il suo caffè sorride, un ghigno storto, poco rassicurante. “Non ha tutti i torti. Beh, non sono una persona a cui piace perdere tempo, dottore. Per cui, se volesse mettermi al corrente del perché sono qui…”
John si passa una mano sulla faccia e riempie i polmoni quanto più può. Si umetta ancora le labbra, chiudendo gli occhi, cercando le parole. È una cosa così semplice.
“Ho bisogno che faccia una cosa per me.” mormora, le mani strette sulla tazza di un secondo cappuccino. Schiantati. Schiantati schiantati schiantati. “Voglio che… che lei mi uccida.”
C’è un momento di silenzio che viene riempito dal vociare costante dei clienti del locale. John non riesce a sollevare lo sguardo, gli occhi fissi sul collo dell’altro, sulla scollatura stretta della maglia nera.
Probabilmente lo manderà al diavolo.
“Interessante.” dice invece, una mano che scivola su un ghigno appena pronunciato. “Ho avuto innumerevoli occasioni di farle saltare in aria il cervello, dottor Watson. Ma non avrei mai pensato di sentirmelo chiedere direttamente da lei.” Stringe le dita sul mento, continuando a sorridere. John sente uno strano prurito sulla punta delle dita, il fastidio dato dalla reazione dell’uomo alla sua richiesta.
Come fa un uomo a godere del dolore altrui?
“E mi dica,” continua, l’indice destro che si incastra sul manico della tazza di caffè. “quali sarebbero le sue condizioni? Non accetto tutti i tipi di lavoro, sono diventato un po’… schizzinoso, da quando lavoro da solo.”
Gli riesce difficile non alzare un sopracciglio, sorpresa mista a un pizzico di disappunto. Si mordicchia l’interno della bocca nel tentativo di placare quel filo di ansia che si sta attorcigliando attorno al cuore, prima di parlare di nuovo.
“Non voglio sapere quando morirò. Voglio solo che sia il più rapido possibile. Conosco il tipo di addestramento che ha ricevuto, so che ne è capace. Può agire quando le pare, non deve essere un mio problema sapere quando succederà.” Sorseggia il cappuccino e lo sente gelarsi tra le sue labbra. “Le consegnerò una busta con le mie coordinate bancarie. Potrà farne quello che vuole una volta che avrà concluso il suo lavoro. È inutile che cerchi di prelevare qualunque cifra prima, il conto è sotto controllo.”
“Holmes, immagino.”
“Esattamente.” Gli si stringe appena il cuore, ma cerca di soffocare la sensazione sotto l’idea di una libertà che non potrebbe ricevere altrimenti. “Può prendere la cifra che desidera. L’ATM dove prelevo di solito è qui vicino. Sa, se non vuole destare particolari sospetti e darsi un po’ di tempo.”
Ride, fissando il liquido agitarsi nella ceramica.
Sebastian ricambia.
“Sa benissimo che non avrò una briciola di quel tempo.”
“So anche che è bravo a far perdere le sue tracce. Non avrà problemi.”
Il fondo del cappuccino è amaro. Se ne lamenterà, ma con la dovuta gentilezza, perché è la prima volta che gli succede e non vuole essere scortese. Magari ne comprerà un altro e se lo porterà a casa, perché non gli dispiace davvero, il suo sapore.
“C’è altro che devo sapere?”
“Solo una.” Si passa la lingua tra le labbra nel tentativo vano di scacciare via l’amaro. “Mi lasci un po’ di tempo.”
Non lo guarda più, la vista nascosta dal palmo della mano. Sente la sua voce emettere un suono d’assenso, e poi la sedia stride contro il pavimento, ed è fastidiosa, e fischia nelle sue orecchie portando alla mente immagini troppo dolorose.
“Lo consideri lavoro fatto, dottor Watson.”
E non c’è più modo di evitare lo schianto al suolo.
Harry ha già chiamato tre volte, quando finalmente John varca la soglia di casa. Si rigira il telefono tra le mani ed elimina la lista delle chiamate perse, decidendo che non ha assolutamente voglia di parlare con nessuno, almeno per il momento.
Ha bisogno di pensare, anche se non ha più idea di a che cosa. Cade sul divano con un tonfo morbido, le mani premute contro le tempie che adesso pulsano, un po’ per la pioggia, un po’ per la troppa caffeina, un po’ per tutto. Si sente perennemente osservato.
Sa che sarà così per tutto il resto della sua vita.
Un tuono troppo forte fa vibrare le i vetri delle finestre, e John salta sulla poltrona, voltandosi per cercare il foro di un proiettile che gli faccia cadere addosso una pioggia di schegge. Ma poi il rimbombo cessa, e tutto torna come prima.
Si dice che si abituerà prima di accorgersene.
Sherlock lo odierebbe. Lo prenderebbe per il bavero della camicia e comincerebbe a scuoterlo, o forse si limiterebbe a fissarlo con gli occhi vuoti di chi non ha più un briciolo di vita in vena. E in fondo, a lui andrebbe bene, perché l’odio è reciproco.
Non dovrebbero esserci segreti, tra le mura domestiche.
Chiude gli occhi e poggia la testa sul bracciolo morbido del divano, le mani su uno stomaco che non gorgoglia nonostante l’ora. Forse è colpa dei frappuccini, forse di una conversazione che, a conti fatti, non dovrebbe esistere.
Per il resto del mondo, in effetti, non è mai successo.
Si chiede come sia stare dall’altra parte, se anche Sebastian Moran sia stato male quanto lui, dopo aver perso Moriarty. Odia pensare che per lui sia soltanto lavoro. Non si è mai totalmente distaccati verso chi ti dà da vivere.
Scuote la testa e si impone di non pensare, stringendo più forte gli occhi. Non manca molto, prima che cominci a ripiovere. Per oggi, può anche stare appallottolato sul divano, a sentire il tempo che scorre a ritmo con le gocce di pioggia contro la finestra.
Non ha più motivo di avere fretta.
C’è odore di tabacco sui suoi vestiti, sulle sue mani, nell’aria che sa di chiuso del suo piccolo appartamento a Soho. Le ali di pollo che ha comprato sulla via del ritorno vengono abbandonate con poca grazia su un piccolo tavolo d’ebano laccato, regalo di James del loro secondo anno di collaborazione, se così si può chiamare. Non appena ha le mani libere, rovista nelle tasche per trovare una cartina, perché ha l’impressione che se non comincia a fumare adesso, il suo cervello probabilmente esploderà.
È eccitato. In modo insano, come se James fosse ancora vivo e gli avesse appena dato uno dei suoi ordini assurdi - “Uccidi Douglas, Seb. Sventralo, portami un pezzo di intestino. Ma poi pulisci bene, perché nessuno deve accorgersi che è morto lì. Non sai come fare? Non è un mio problema.” - solo che adesso non è stato lui, ma il topo che ha dovuto rincorrere per un anno e mezzo, e per cui ha perso interesse nel momento in cui il suo boss ha deciso che era tempo di levare le cuoia.
Cade sul divano con un tonfo secco e piega la testa all’indietro, sbuffando divertito. Dio, non c’è assolutamente nulla di divertente, in tutta questa merda.
Rolla la sigaretta, fruga nel taschino della giacca a vento che non ha ancora tolto per cercare l’accendino, e quando da la prima tirata la sua testa si riempie di nebbia. Odia essere una persona ligia al dovere. Avrebbe potuto ucciderlo subito e prendersi i soldi - è certo che quel conto scoppi di sterline, conosce Mycroft Holmes, conosce il suo potere, e sa che è sconfinato quasi quanto la sua inumanità, come se i soldi potessero ripagare una perdita. Potrebbe piantare una pallottola nella testa del dottore e prendere quel ben di Dio come un risarcimento per danni, non saprebbe definirne la natura, ma sarebbe comunque un bel gruzzolo per ricominciare a vivere in un qualunque posto che non sia Londra.
Ma lui non sa cosa voglia dire, non eseguire gli ordini. Per cui darà al dottore il suo tempo e poi pum, un colpo dritto alla testa - non è così crudele da volerlo far morire per dissanguamento. Lascia cadere la cenere sul pavimento, scrollando le spalle. Sotto casa sua è appena passata una volante della polizia.
Inspira fumo, se lo tiene nei polmoni.
Una volta ucciso Watson, cosa gli rimarrà degli ultimi anni? Non che sia un sentimentale, ma il dottore è l’ultimo collegamento che lo lega a James - se non conta le associazioni criminali che ogni tanto fanno appello alla sua persona, come se potesse ancora fregargliene qualcosa, ormai.
Stringe la sigaretta tra i denti, chinandosi in avanti, i gomiti puntellati sulle cosce che premono così tanto da far male.
Che situazione del cazzo.
Decide che questa sarà la serata ideale per andare in un night club e trovare qualche troia disposta a prenderglielo in bocca per una manciata di minuti, perché ha bisogno di riflettere, e non c’è niente di meglio di una bocca morbida attorno al suo cazzo, per pensare.
Quando rientra a casa, i piedi che sfregano sul tappeto per non sporcare l’ingresso, la signora Hudson sta canticchiando, uno spagnolo stentato mentre probabilmente ha la tv sintonizzata su un qualche canale di musica. Appoggia una busta in terra, e bussa alla sua porta sperando che la donna riesca a sentirne il rumore - con un volume così alto, probabilmente nemmeno se ne accorgerà.
Fortunatamente non ha ancora raggiunto un livello di sordità preoccupante. La donna apre la porta dopo pochi secondi, donando a John uno dei suoi sorrisi migliori. Odora appena di lavanda e sudore, lo spolverino stretto nella mano destra. “Oh, caro, sei già tornato?”
John ricambia il sorriso come meglio può, sollevando la spesa da terra. “È stato un incontro piuttosto veloce, il mio collega aveva un impegno importante e non ci siamo trattenuti più di tanto,” si giustifica, abbassando appena lo sguardo, “così ne ho approfittato per farle un po’ di spesa.”
“Oh John, non dovevi.”
Si sposta e apre la porta, facendogli spazio. La casa sembra brillare come un gioiello, e per un momento John si chiede se non sia entrata anche nel suo appartamento. Probabilmente gli avrebbe fatto notare che un uomo decoroso come lui non dovrebbe vivere in un disordine simile - perché lui non è uomo da disordine, quello era Sherlock.
Ma altrettanto probabilmente, questo non glielo avrebbe detto.
Non si trattiene granché, il tempo di prendere un caffè che non farà altro che alimentare la sua apprensione, e quando finisce raccoglie la sua roba dal pavimento e, con un cenno del capo, saluta la padrona di casa prima di andare nel suo appartamento.
Abbandona la spesa sull’ingresso, avanzando di qualche passo verso il salotto. Sospirando, affonda il viso tra le mani, chiedendosi perché ogni volta si illuda che, varcando la porta, Sherlock sarà lì a dedurre la sua giornata soltanto grazie alla polvere sulle scarpe.
Deve rassegnarsi all’idea che non tornerà mai più. Si chiede soltanto quanto tempo ci vorrà prima che la sua testa smetterà di pensare a cose che non possono succedere.
Si lascia cadere sul divano, e il tonfo riempie tutta l’aria. Deve cominciare a organizzare le ultime cose, se non vuole rischiare di lasciare qualcosa in sospeso.
Ma in fondo, cosa gli è rimasto? A pensarci adesso, l’unica cosa che può davvero fare, a parte lasciare parte dei suoi soldi a Harry, è uscire con Greg, forse con Sarah, e salutarli con una birra, perché in altro modo non può. Lo prenderebbero per folle, se sapessero a cosa sta andando incontro. Non avrebbero comunque torto.
Accende la tv e si perde nel rumore bianco di un canale vuoto, fissa le nuvole di pixel bianchi e grigi che si mescolano come se dentro lo schermo tirasse vento.
Cosa deve fare?
Se Sherlock fosse qui, non dovrebbe preoccuparsi. Se Sherlock fosse qui, l’unica cosa che avrebbe da fare sarebbe badare a lui e ai suoi eccessi di onnipotenza, e andrebbe bene, perché gli basterebbe.
Cosa deve fare?
Ci sono tre giorni segnati col rosso sul suo calendario. Mentre fissa le caselle ancora pulite, gli sembra che il tempo abbia ingiustamente deciso di dare una battuta d’arresto e non passare più. È appena tornato da lavoro, l’appartamento avvolto dall’oscurità della sera. Solo sull’orizzonte, tra un palazzo e l’altro, si intravede ancora un tocco di arancio, macchiato dal vola che rapidamente si sta mangiando il cielo.
È la notte, che non passa mai.
Oggi spera che il sonno se lo prenda presto, e gli faccia dimenticare la giornata appena trascorsa. Ha dovuto prescrivere delle analisi del sangue a una bambina che probabilmente non arriverà alla fine dell’anno con entrambe le gambe, un sospetto osteosarcoma che si sta rapidamente mangiando il suo femore sinistro - il caso peggiore della settimana, forse dell’intero mese. Dio dovrà pur aver pietà di lui, per una volta.
Sente il cellulare vibrare nella sua tasca, e spera vivamente che non sia Harry. Non ha voglia di sentire la sua voce, oggi - non ne ha voglia quasi mai, ma questo è un dettaglio trascurabile. Sfila il telefono guardando al soffitto, ma quando sul display lampeggiano la bustina di un messaggio e il nome di Lestrade, John tira un sospiro di sollievo.
Birra? Non accetto un no. - G
Stringe le labbra tra i denti, leggendo l’sms un paio di volte. In fondo è tanto che non mette naso fuori casa per svagarsi un po’, e magari parlare con qualcuno lo aiuterà a sopportare meglio il tempo che passa.
D’accordo. - JW
Poggia il cellulare sul tavolo e si dirige verso il bagno, storcendo il naso. Ha bisogno di una doccia calda per lavar via il peso della giornata appena trascorsa, e poi potrà svuotare la mente per qualche ora e trovare un po’ di pace dietro un boccale di birra e le parole di un amico.
Ha deciso di prendere la metropolitana per muoversi e non è nemmeno sicuro del perché, dato che adesso non fa che alzare gli occhi al cielo mentre un fiume umano lo investe alla fermata di Waterloo. Stringe i pugni dentro le tasche, facendo le scale anziché prendere le scale mobili - preferisce di gran lunga fare in fretta e chiedere scusa alla gente per le spallate involontarie, piuttosto che essere circondato da persone incapaci di prestare attenzione a ciò che gli sta attorno. È venerdì sera, se non avesse guardato il calendario prima di uscire, John lo avrebbe capito dall’intenso odore di profumi e cibi diversi, che riempiono l’aria assieme al chiacchiericcio dei ragazzi, al tintinnio dei gioielli, alla musica che proviene dai chioschi, o dai locali con le porte aperte. Costeggia la stazione, risalendo York Road, prima di attraversare la strada e accelerare il passo. Guarda l’orologio appena arriva dall’altra parte della strada, le lancette che segnano le nove meno tre minuti mentre imbocca Exton Street. Se le strade non fossero così affollate, arriverebbe in orario di fronte al pub - Kings Arm alle nove va bene? Dicono che si mangi bene, oltre il resto. Non sembra male. gli ha scritto Greg poche ore prima, e in realtà qualunque posto a lui va bene, finché può passare del tempo lontano dai pensieri. Vede l’inizio di Roupell Road e tira un sospiro di sollievo.
Spera solo che Greg sia già arrivato, non ama aspettare davanti ai locali, diventa nervoso sotto lo sguardo costante della gente. Per fortuna, quando finalmente si avvicina all’ingresso del Kings Arm, vede una mano amichevole sventolare nella sua direzione, e il viso di Greg rivolgergli un sorriso. “Ehi.” dice soltando mentre John lo raggiunge.
Ha gli occhi cerchiati di grigio. Non deve essere un bel periodo nemmeno per lui. Gli da una pacca sulla spalla, sorridendogli affabile. “Entriamo?”
Greg annuisce, e John spinge la porta per entrare. Il chiacchiericcio allegro delle persone sedute ai tavoli scivola rapidamente nelle orecchie, e nonostante di solito non apprezzi, stavolta John è particolarmente contento di quella confusione. Trova un tavolo in fondo alla sala, uno dei pochi rimasti liberi, e fa cenno a Greg con la testa di seguirlo. Pochi minuti dopo, carte alla mano, discutono se sia meglio una chiara o una doppia malto. In ogni caso, quando il cameriere arriva, entrambi chiedono la migliore birra che hanno, e poi tornano a chiacchierare.
“Sei dimagrito, John.”
“È solo una tua impressione.” Il sorriso contrasta col sopracciglio alzato di Lestrade, ma non gli importa. Finché possibile, vuole evitare che si parli di lui - non ha proprio voglia di pensare a se stesso, adesso. “Tu piuttosto.”
L’uomo di fronte a lui sospira, incrociando le mani sotto il mento. “Rispetto al mese scorso, le cose non sono cambiate tanto. L’unica cosa buona è che ho cominciato a fare gli straordinari. Non so se prenderla come una punizione o come una grazia del capo.”
La sospensione dall’incarico di ispettore e l’impossibilità di esercitare erano state per tutti un colpo al collo troppo forte, e per qualche settimana era stato l’unico motivo per cui John era riuscito a mettere piede fuori di casa per non andare a lavoro o dalla psicologa. Ha sempre pensato che la condivisione delle disgrazie sia un bene per l’anima - un frullato di altruismo che aiuta il proprio egoismo a scendere giù in modo meno amaro. In ogni caso, a Settembre Greg era stato riammesso in commissariato, per il momento come semplice agente. “Meglio di niente,” aveva commentato al tempo l’uomo, con una scrollata di spalle e un sorriso tirato.
“Si vede. Hai delle occhiaie tremende.”
“Almeno lavoro, John. Stavo impazzendo, davvero.”
Ne sa qualcosa anche lui. Si lecca le labbra e guarda verso il bancone, il cameriere che si avvicina per poggiare le birre sul tavolo. Entrambi piegano la testa e ringraziano, Greg che manda subito giù un sorso lungo.
“Sono contento Greg.”
“Ne sono contento anche io. Sai, in realtà stare a casa mi ha dato un po’ di tempo per riflettere. Ho sistemato cose in sospeso troppo a lungo, e adesso va molto meglio. Ho divorziato. Era inutile continuare a stare insieme, ne eravamo entrambi consapevoli. Ma vedo mia figlia nei week-end, e in verità posso vederla quando voglio. Fare gli straordinari aiuta a far passare il tempo, adesso che...” si ferma, incantandosi sulla birra che ondeggia nel bicchiere. “Adesso che è tutto così tranquillo.”
Stringe le labbra tra i denti, John, annuendo. Tranquillità è un eufemismo. È noia, probabilmente la stessa che scorreva nelle vene di Sherlock quando strimpellava col violino o perdeva il suo tempo steso sul divano in attesa di una chiamata.
Sono passati pochi mesi, e sembra un’eternità.
“Dovrei provare a chiedere di fare il turno di notte in ambulatorio.” dice, il boccale tra le dita.
“Potresti uscire un po’ più spesso di casa, John.”
Ride, scuotendo la testa e guardando al soffitto. Uscire di casa non servirebbe a niente. Quante possibilità ci sono che incontri qualcuno di straordinario come quell’imbecille che ha preferito morire, piuttosto che cercare di riportarsi a galla? “Non servirebbe. Credimi. Non… ho provato, ad andare in posti diversi dall’ospedale. Ma a chi vuoi che interessi una persona che passa la maggior parte del suo tempo davanti a una lapide che non parla?” Beve, sorsi di birra che scendono giù nella sua gola come se fosse acqua. “Mi serve solo un altro po’ di tempo.”
Greg lo fissa, e lui si sente aperto. È una sensazione fastidiosa, che gli prude nel petto, nella testa. Per fortuna si interrompe quando l’altro sospira, e smette di guardarlo. “Sabato porto mia figlia al Museo delle cere. Se vuoi unirti…”
“Sabato sono di turno, ma grazie.”
È una persona gentile, Greg. Ha il cuore infinito, è riflesso nella preoccupazione che vela i suoi occhi.
Ma non è abbastanza.
Quand’è diventato così disperato?
“Se cambi idea, chiamami.”
John annuisce e poi alza una mano per chiamare il cameriere, i bicchieri di birra che giacciono vuoti tra le loro mani.
Finché è fuori, meglio approfittarne.
Stanno ancora ridendo, quando escono dal locale. Un povero cameriere ha messo un piede in fallo mentre portava via un vassoio di piatti e bicchieri vuoti in cucina, riempiendo il pavimento di cocci di vetro e di ceramica, proprio quando loro si sono alzati dal tavolo per andare a pagare il conto. La birra li ha aiutati a riempire il silenzio imbarazzante, e adesso ridono con la mano sullo stomaco, la camminata appena sbilenca mentre tentano di riprendere fiato.
È assurdo, ma sta bene, John. Sta bene perché se anche prova a pensare, la testa gli gira e tutte le parole ammassate in testa si trasformano in un accumulo sconnesso di risate quasi isteriche, complice la compagnia di Greg che sembra aver imboccato i suoi stessi binari.
“È stato bellissimo.” dice a fatica il poliziotto, cercando di recuperare fiato. John vorrebbe davvero rispondergli, ma non dice nulla di comprensibile, solo un ammasso di versi che si risolvono sempre in una risata chiassosa. Si passa una mano sul viso per asciugare qualche lacrima, sventolandosi poi con la stessa per cercare di portare quanta più aria possibile nei polmoni. Vanno avanti così per diversi metri, finché Greg decide che non vuole far fare a John tutta la strada fino a casa sua, prima di andare via. Così, un abbraccio troppo affettuoso e un’ultima risata, John lo saluta e si appoggia al muro, passandosi una mano sul viso e aspettando che Greg sparisca dietro l’incrocio, prima di imboccare la strada di casa.
Effettivamente ha alzato un po’ troppo il gomito; non c’è altra spiegazione alla strada che ondeggia pericolosamente sotto i suoi occhi. Dovrebbe chiamare un taxi, pensa, ma l’idea lo fa scoppiare a ridere. Decide che in fondo può arrivare a casa tenendosi ai muri, che tanto non corre nessun pericolo concreto, senza una sterlina nel portafoglio né roba di valore. Si lecca le labbra, il sapore della birra ancora vivo, mentre cerca di fare mente locale per capire se ha mandato giù altro, fallendo miseramente. Alza il viso per guardare la via, e per un momento vede doppio, e si chiede quando mai a Londra sia esistita una Leiceleicestein street. La testa gira per istanti che gli mettono paura, e si appoggia al muro per cercare di riprendere confidenza con se stesso, almeno per il tempo di raggiungere la stazione di Piccadilly e riuscire a tornare a casa.
Chiude gli occhi. Solo due secondi.
La sensazione di braccia che lo stringono in vita è l’ultima cosa che sente, confusa e distorta, prima di addormentarsi.