Fandom: Classici -
I Delitti della Rue Morgue;
Pairing: Auguste Dupin/Narratore;
Rating: NC17;
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico;
Warning: Slash, Sesso descrittivo;
Beta: Nekitades83;
Summary: Nei pochi mesi trascorsi da quando ci eravamo conosciuti, avevo avuto modo di notare che Dupin era versato nelle più svariate discipline, quindi non mi stupii più di tanto quando, afferrando la mia mano, posata non lontana dalla sua, cominciò a recitare per me…
Note: Scritta per il prompt 012 - Brand New Book del
mio set, preso dalla tabella
25 Senses - Smell di
kinks_pervs e per la
FiveFandomChallenge del
BradleyJamesFan Forum. Partecipa alla challenge “
A tutto campo!” del
Marauders Archive.
Dedica: A
zia_chu , per il suo compleanno. TesoraH, io ci ho provato a scriverti una WolfStar, ma non ci so proprio fare ç__ç spero che questo pensierino possa piacerti comunque. Buon Compleanno e 100 di questi giorni! Ti.Vi.Bi. *-* <3
Devo tutto a
fiorediloto , che mi ha dato dei preziosissimi consigli per rendere meno banale questa cosuccia. Grazie, cara *inchino* ma sappi che se comincerò a slashare Bruto e Cassio, sarà solo colpa tua! XD
Il Profumo di un Ricordo
Se la gente avesse saputo come si dipanava la nostra vita in quella casa, ci avrebbe considerati folli, anche se, forse, non pericolosi. Il nostro isolamento era totale […] vivevamo in quella nostra piccola nicchia e basta.
Cedetti senza sforzo a quella sua stravaganza, come del resto a tutte le altre, assecondando i suoi capricci con totale abbandon. La buia divinità - la notte - non era sempre con noi, però potevamo simularne la presenza. Appena cominciava ad albeggiare chiudevamo le massicce imposte dell’antica casa, poi accendevamo due candele intensamente aromatiche che spandevano intorno una luminosità fioca e spettrale. Indotti da quel chiarore, consegnavamo le nostre anime ai sogni: leggendo, scrivendo oppure conversando, sinché il grande orologio annunciava l’avvento dell’Oscurità vera. Allora uscivamo sottobraccio e passeggiavamo lungo le strade.*
Lo scroscio di una dispettosa pioggerella estiva tamburellava alle finestre delle nostra casa in Fauburg St.-Germain, prontamente ovattato dalle pesanti tende di velluto, tenute accuratamente serrate benché fosse pomeriggio inoltrato.
Quello era il periodo della giornata in cui il mio amico Dupin ed io ci svegliavamo e, tenendo ben chiuse le persiane e accese un paio di candele profumate, cominciavamo a leggere e conversare, in attesa che giungessero le ore notturne - le nostre predilette - e potessimo uscire fuori a passeggiare, impadronendoci di Parigi quando nessun altro poteva farla sua.
Ma ho già lungamente parlato, in altra sede, di quanto fossero bizzarre e distorte le nostre abitudini. Tuttavia, quello che non avrei mai potuto rendere chiaro al pubblico - persino volendo - è la totale sintonia che ci legava, nonché quanto fossi affascinato dal cavaliere C. Auguste Dupin sin da quando il mio Destino era inciampato nel suo e le nostre mani si erano incontrate sul frontespizio di un libro raro di cui entrambi eravamo alla ricerca.
Quella sera eravamo stesi sul tappeto del soggiorno; il mio amico e coinquilino stava leggendo il suo ultimo acquisto - una pregevolissima edizione delle tragedie shakespeariane -, mentre io sonnecchiavo pigramente alla sua destra. L’odore inebriante delle pagine fresche di stampa si spandeva nell’aria, mescolandosi a quello intenso delle candele profumate - è la fragranza che tuttora associo ai miei ricordi con Dupin.
Nei pochi mesi trascorsi da quando ci eravamo conosciuti, avevo avuto modo di notare che Dupin era versato nelle più svariate discipline, per cui non mi stupii più di tanto quando, afferrando la mia mano, posata non lontana dalla sua, cominciò a recitare per me: «E’ da un po’ che ti vado osservando: mi par di non trovare più nel tuo sguardo quella mostra d’umana gentilezza e d’affetto che t’era abituale. Tieni una mano troppo distaccata e fredda dall’amico tuo, che ti ama».
Sorrisi assonnato e, poiché amavo profondamente Shakespeare, cercai di rispondere a tono, nonostante per me non fosse semplice tradurre le battute - che sapevo a memoria - dalla mia lingua al francese: «Da qualche tempo sono tormentato da passioni in conflitto, da pensieri che son rivolti soltanto a me stesso, e che offuscano, forse, in qualche modo, il mio comportamento verso gli altri. Ma di questo non devono preoccuparsi i miei amici, nel novero dei quali sei tu».
Divertito, e forse persino stupito dalla mia interpretazione, Dupin mi si accostò ulteriormente, lasciando a frapporsi tra noi solo le nostre dita intrecciate, e passò ad un dialogo ben più acceso.
«Tu non m’ami», dichiarò con un sibilo secco ed accusatorio, che scivolò sulla mia bocca.
Strinsi la sua mano candida ed affusolata, custodita nel mio palmo, e lo strattonai ancor più verso di me: «Non amo i tuoi difetti».
Dupin si lasciò sfuggire un respiro spezzato e prese a torturarsi tra i denti il labbro inferiore, forse perché troppo immedesimato nel suo ruolo o - sperai - perché nervoso quanto me per quel gioco, che sembrava divenuto all’improvviso qualcosa di molto più reale.
«Un occhio amico non li noterebbe».
«T’ho detto quel che ho detto in un momento d’ira», replicai, annullando la distanza tra noi e posando con rammarico la fronte sulla sua.
«Quella è la mia battuta», mormorò Dupin, socchiudendo gli occhi per incontrare il mio sguardo.
«Ma è anche la mia», asserii, stringendogli un po’ più intensamente la mano, a causa della tensione.
«Ah, tu lo ammetti? Allora, qua la mano!», recitò, posando un bacio sulle nostre dita intrecciate.
«Ed il cuore», conclusi, quasi incespicando ad ogni parola, mentre - irresistibilmente attratto da quella bocca - compivo il più grande azzardo della mia vita. Catturai quel labbro martoriato dai denti e lo succhiai con malizia, lenendo il rossore con la lingua, e sospirai quando quella di Dupin mi venne incontro, invitandomi a saggiare il calore della sua bocca.
Non fui mai grato come in quel momento di aver studiato Shakespeare con tanta dedizione, al college.
Distrattamente, sentii il tonfo del volume che cadeva a terra. Le dita del mio amico scivolarono sul mio viso, poi sul collo e infine tra i miei capelli, e lui mi attirò su di sé, mentre quel bacio si trasformava da un incontro gentile e circospetto ad uno scontro rude e passionale.
Nonostante la compagnia di molte signore, in alcune segrete notti avevo approfittato delle attenzioni di qualche gentiluomo; ma nulla di ciò che avevo sperimentato in precedenza - con qualsivoglia donna o uomo - era anche solo vagamente paragonabile alle emozioni che riusciva a suscitare in me la semplice presenza di Dupin. Il suo corpo, il suo animo, la sua intelligenza… tutto, in lui, sembrava fatto per ammaliarmi. Sovente, quando eravamo nella stessa stanza, non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso, e poterlo avere finalmente tra le braccia era la più nascosta delle mie fantasie che si avverava.
Intrufolai una mano sotto la sua camicia, sfilandola impazientemente dai pantaloni, cercando più pelle calda da toccare, più muscoli da scoprire, più articolazioni da toccare. Quelle di Dupin, invece, più pazienti e determinate, s’impegnarono a slacciare ogni bottone che si frapponeva tra loro ed il mio petto.
Il modo in cui sussurrò il mio nome, tra un bacio e l’altro, mi diede le vertigini, e scesi sul suo collo, succhiando e mordendo la pelle delicata, avido di avere di più - sempre di più.
Con gesti impacciati - continuando a baciare, morsicare e leccare ogni lembo di pelle che incontravamo l’uno sul cammino dell’altro -, un po’ sciogliendo ed un po’ strattonando, ci liberammo a vicenda del resto degli abiti.
Mi fermai solo per qualche attimo, sufficiente ad ammirare il corpo pallido di Auguste in un tutta la sua nudità, prima di far aderire ancora i nostri corpi. In quel frangente, Dupin mi cinse il collo, attirandomi di più a sé, ed io fui lieto di non scorgere nel suo sguardo alcuna traccia d’esitazione.
Si muoveva languido contro di me, strusciando i fianchi contro i miei, ed il profumo della sua pelle era intossicante come oppio.
«Sbrigati», mormorò. Una sola parola, appena velata d’imbarazzo, ma carica d’urgenza, che mi fece dimenticare ogni buon senso. Così scivolai più in basso, raggiungendo con la bocca parti sensibili non adatte ad essere nominate in una conversazione civile.
Dupin fu costretto a mordersi a sangue un labbro e ad arpionare il tappeto con le dita per soffocare i gemiti che gli solleticavano la gola, e tuttavia essi saturarono l’aria sotto forma di soffici mugolii.
Ero perduto - completamente. Niente avrebbe mai potuto cancellare quel ricordo dalla mia mente, e quando finalmente lo presi, seppi che - per il resto della mia vita - per me non ci sarebbe stato altro amore che lui. Benché fossi io a possederlo, era lui ad avermi fatto suo ad un livello ben più profondo di quello fisico.
Più tardi asserii: «Ho mentito spudoratamente, prima», mentre, ancora nudi, fumavamo una sigaretta distesi l’uno accanto all’altro.
«A che proposito?», mi domandò, puntellandosi s’un gomito.
«Amo anche i tuoi difetti», ammisi, fuggendo il suo sguardo.
«Lo so», replicò lui, come se non si aspettasse niente di meno, poggiandosi contro il mio fianco, e potei sentire il suo sorriso soddisfatto contro la mia spalla anche senza vederlo, mentre riapriva il suo libro.
FINE.
*I paragrafi d’introduzione sono tratti dal racconto originale “I Delitti della Rue Morgue” di Edgar Alla Poe.
Le battute in corsivo all’intero della storia, invece, sono tratte dalla tragedia
“Giulio Cesare” di William Shakespeare; rispettivamente le prime due dalla Scena I - Atto I, e le restanti dalla Scena III - Atto IV.
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