Fandom: Sherlock Holmes/Supernatural;
Personaggi/Pairing: Castiel, Sherlock Holmes (accenni: Castiel/Dean, Holmes/Watson).
Rating: Pg;
Beta: Narcissa63 (la mitica ♥)
Genere: Introspettivo, Romantico.
Warning: Crossover, Slash implicito;
Words: 1966 (
fiumidiparole ).
Summary: Castiel torna indietro nel tempo per salvare un antenato di Dean e Sam, in un locale incontrerà un uomo che si fa chiamare Altamont.
Note: Ambientata in un momento imprecisato della 5°season di Supernatural, accenna ai fatti narrati in “
L’ultimo saluto - Un epilogo”. Scritta per la
sesta settimana della
COW-T di
fiumidiparole e
maridichallenge , Team Maghi - Missione 1: Nostalgia.
DISCLAIMER: Non mi appartengono, non ci guadagno nulla ù_ù
L’Enigma dello Straniero Arruffato
Ho incontrato per la via un giovane poverissimo che era innamorato.
Aveva un vecchio cappello, la giacca logora, l'acqua gli passava attraverso le suole delle scarpe
e le stelle attraverso l'anima. ¹
Sono mesi che il mio caro amico, Dottor Watson, insiste perché io metta nero su bianco i due anni che trascorsi sotto copertura per ordine di Sua Maestà. Si tratta, però, di un racconto davvero lungo, il quale mi porterebbe via gran parte del tempo che finalmente posso dedicare ad interessi non riguardanti la criminologia, perciò ho più volte declinato le sue proposte.
Tuttavia, gli eventi di una certa sera valgono la pena di essere registrati e fin’ora non li ho raccontati nemmeno al mio fidato Boswell, tanto sono bizzarri.
Altamont, il personaggio che interpretavo, era un uomo piuttosto interessante: un americano di origini irlandesi, furbo e particolarmente furtivo, pieno di rabbia nei confronti del governo di Sua Maestà che opprimeva il suo popolo. Non era ricco, né ben istruito, ma grazie alle conoscenze giuste - incontrate nell’ambiente della Massoneria, di cui faceva parte - sapeva rendersi molto utile. Fu così che riuscii ad entrare nelle grazie di Von Bork, la spia tedesca che rischiò di far crollare il nostro Paese, ma i fatti in questione sono già stati raccontati da Watson in “L’ultimo saluto”, in cui il mio amico ha fatto violenza a sé stesso con un’improbabile narrazione esterna.
La sera di cui intendo parlare risale ad un anno e mezzo prima di quei fatti. Mi trovavo ancora nel nuovo mondo, proprio in un club massonico, e stavo chiacchierando con il barista, Mr. Cooper, uno dei miei contatti migliori. Fu allora che, voltandomi distrattamente verso l’ingresso, notai un giovane dall’aria singolare; in tutta onestà, manco di un termine più adatto a descriverlo.
Aveva capelli corti e neri, spettinati come se il peggior vento di tramontana si fosse accanito su di essi, e vestiva abiti davvero eccentrici: non portava panciotto sotto la giacca aperta, la camicia usciva fuori dai pantaloni ed uno strano fazzoletto da collo gli pendeva storto sul petto, infine il soprabito beige che gli copriva le spalle era fatto di una stoffa che non avevo mai visto prima. Ma più di tutto questo, a colpirmi furono i suoi occhi, grandi e di un blu così intenso da sembrare irreali.
Tutto di lui dava l’impressione d’essere così evidentemente fuori posto, che se avesse continuato a restare impalato come uno stoccafisso sulla cornice della porta, presto non sarei stato l’unico a notarlo.
Richiamai la sua attenzione con un cenno e gli indicai di avvicinarsi, come se fosse un amico venuto lì proprio per me. Lui inclinò il capo, quasi stesse cercando d’interpretare il mio semplice gesto vedendolo da una diversa prospettiva, poi si avvicinò e, con esitazione, si accomodò sullo sgabello accanto al mio.
«Questo è un club massonico, ragazzo» lo informai, chinandomi su di lui e fingendo una confidenza che avevo con pochissime persone.
Era difficile dedurre qualcosa dal suo aspetto, se non che non fosse affatto di quelle parti. Non c’erano segni sui polsini o sulle ginocchia che potessero indicarmi qualcosa di concreto, le sue mani erano perfino più delicate di quelle di un musicista, ma non avevano i tipici calli lasciati dalle corde o dai tasti di uno strumento, il volto avvenente necessitava di una buona rasatura, ed il suo abbigliamento era così disordinato da sembrare lo avessero appena aggredito. Eppure il suo sguardo nascondeva una tenacia che avevo visto solo negli occhi dei soldati e le sue labbra erano piene e generose come quelle innocenti di un bambino.
«Lo so» mi rispose conciso, osservandomi stranito. Era pallido ed affannato, quasi si fosse appena sottoposto ad un grande sforzo.
«Ma tu non sei un fratello massone» continuai, cercando di fargli comprendere che avevo intuito non gli fosse permesso essere lì.
«So anche questo, Sherlock Holmes» replicò allora, quasi in maniera distratta, mentre scrutava ogni volto nella sala alla ricerca di qualcuno.
Non è facile prendermi di sorpresa, ma in fede mia, per poco non caddi dallo sgabello per lo stupore. Modestia a parte, ho ottime doti d’attore - d’altronde l’abilità nel travestimento è essenziale nel mio lavoro - ed ero certo di non aver commesso il minimo errore che potesse destare sospetti. Cercai di dissimulare come meglio potevo la mia reazione, soffocando un respiro secco, poi afferrai il mio bicchiere di brandy e ne ingollai un lungo sorso.
«Temo ti sbagli» obiettai, prendendo la scatola di fiammiferi dalla tasca per accendermi una sigaretta. «Il mio nome è Altamont» conclusi, offrendone una al mio nuovo conoscente.
Lui osservò il portasigarette come se non avesse idea di cosa farne, poi ribatté: «No, non è quello» con lo stesso tono disinteressato usato in precedenza, ed ignorò la mia mano ancora tesa.
Mi ritrovai a dover ritirare la mia gentile offerta, lievemente seccato da tale esempio di maleducazione. «Tu conosci il mio nome, giovanotto, ma io non conosco il tuo» osservai tagliente, abbandonando il marcato accento di cui facevo sfoggio ed iniziando a chiedermi chi fosse costui.
«Castiel» rispose dunque.
«Castiel…?» ripetei, in attesa che completasse.
«Castiel» confermò, imprimendo più enfasi alla parola.
«Non possiedi un cognome?» ironizzai.
«Sono un angelo del Signore» rivelò allora, come se fosse la cosa più naturale del mondo, con una tale convinzione che io cominciai a credere di avere a che fare con un pazzo fuggito da qualche casa di cura o dalle attenzioni dei parenti. Questo, però, non spiegava come potesse essere a conoscenza della mia vera identità.
«Naturalmente» replicai sarcastico, perché è cosa risaputa che i folli vanno sempre assecondati. «E cosa avrebbe portato un angelo a scendere dalle nuvole?»
«Noi non viviamo sulle nuvole, ma in Paradiso» mi informò, non percependo affatto l’ironia spicciola insita nelle mie parole. «Sono qui per proteggere William Campbell» aggiunse poi, riportando lo sguardo sull’uomo in questione.
Conoscevo Mr. Campbell. Era un bravo diavolo, un ragazzo benestante che si guadagnava da vivere come conciatore e che si era recentemente fidanzato.
«È in pericolo?» domandai allora.
«I miei fratelli vogliono ucciderlo» asserì, e questo - follia o meno che fosse - mi mise in allerta.
«È un’accusa molto seria, la tua, figliolo» gli feci notare.
«Non è un’accusa, è la verità. William Campbell è un uomo molto speciale, è un discendente diretto di Caino e, come tale, il suo corpo è l’ideale per accogliere la vera essenza di Lucifer. Se lui morisse, quando avverrà l’Apocalisse, il Diavolo non avrà il suo legittimo tramite e sarà molto più semplice sconfiggerlo» spiegò con serietà, senza nemmeno percepire quanto fosse surreale quello che diceva.
«L’Apocalisse?» ripetei scettico.
«Non ti preoccupare, Sherlock Holmes. Avverrà tra più di un secolo, né tu né i tuoi discendenti verrete coinvolti» mi rassicurò, concedendomi un fuggevole sguardo.
«Preferirei che mi chiamassi Altamont, fintanto che siamo qui, se non ti è di troppo disturbo» sibilai, controllando che il buon vecchio Mr. Cooper non ci avesse sentiti, ma fortunatamente era occupato con un altro cliente. «Se la morte di quest’uomo può impedire l’Apocalisse, allora perché intendi fermare gli altri angeli?» chiesi a quel punto, non comprendendo il motivo per cui fosse lì.
«In futuro, una discendente di Campbell sposerà un Winchester - la famiglia che ha in sé la linea di sangue di Abele, adatta ad accogliere Michael - e daranno alla luce due figli maschi. Se William Campbell morisse, loro scomparirebbero. Al Cielo non importa, perché la famiglia Winchester sopravivrebbe comunque, ma in futuro Dean e Sam non nascerebbero» chiarì allora.
«E questi discendenti sono tuoi amici» conclusi, perché dal suo tono era chiaro che avesse un attaccamento affettivo verso quei due ragazzi.
Castiel annuì. «Inoltre, Dean e Sam hanno salvato molte vite. Se dovessero scomparire, tutto il bene che hanno fatto sparirebbe con loro».
«Ma la tua non è, di fatto, una ribellione?» obiettai e, a quel punto, forse stavo già perdendo di vista la realtà dalla fantasia. C’era qualcosa, in quel ragazzo, che lo faceva apparire indiscutibilmente sincero. Se ciò di cui parlava fosse proprio la verità, o se lui ne fosse semplicemente convinto, non mi è dato saperlo.
«Io mi sono già ribellato… Altamont» rivelò allora, esitando sul mio falso nome. «L’ho fatto perché i miei fratelli non sanno più discernere lo sbagliato dal giusto, ed io ho imparato a distinguerlo solo quando Dean Winchester mi ha aperto gli occhi».
C’era qualcosa nel suo sguardo, o forse nella sua voce, che colpiva dritta al cuore. Una nostalgia così cruda e vera da non poter essere fraintesa. Un dolore che conoscevo molto bene: quello di chi ha abbandonato la propria casa, il proprio legittimo posto, ma non si pente di averlo fatto.
«Così sei un angelo caduto» asserii, e per un solo attimo il mio nuovo amico chinò il capo con vergogna, come se quella definizione pesasse alla stregua di un macigno.
«È così» confermò rialzando il volto con risoluzione.
«Questo Dean Winchester dev’essere una persona davvero speciale» arguii ed i suoi grandi occhi blu divennero enormi, ricordandomi - mi si perdoni la metafora abusata - quelli di un bambino sorpreso con le mani nel barattolo della marmellata, ma poi annuì solenne. Era davvero trasparente, per essere un angelo; di poche parole, ma le sue iridi profonde parlavano per lui.
«E l’altro ragazzo?» indagai curioso.
«È un amico» rispose Castiel in tono scontato, privo di passione.
«Ma non come suo fratello» conclusi, e stavolta il mio nuovo conoscente mi rivolse uno sguardo perplesso, inclinando di nuovo la testa di lato.
«Correggimi se sbaglio, però mi sembra di capire che se fosse solo Sam ad essere in pericolo, non faresti tanta fatica» argomentai e lui scosse il capo, quasi oltraggiato.
«Lo farei comunque» asserì deciso.
«Ma perché c’è in gioco anche la vita delle persone che ha salvato, e perché è il fratello di Dean. Giusto?» sorrisi vedendo il suo crescente imbarazzo.
«No. Lui è un amico» ripeté confuso.
«Ma il suo sacrificio potrebbe salvare il mondo. Quantomeno ci penseresti due volte, prima di agire» osservai e allora si fermò un attimo a soppesare le mie parole. Questo mi fece sorridere sinceramente, la sua innocenza e la sua tenacia mi ricordavano qualcuno. «Rilassati, so bene cosa significhi avere un amico così speciale» aggiunsi.
«Parli del Dottor John Watson» replicò, e per poco io non rischiai un altro salto giù dallo sgabello.
Ebbi l’impressione che mi leggesse nella mente e non nel senso astratto del termine - come potevo fare io deducendo i pensieri altrui dai piccoli gesti - ma in quello letterale. Quando annuì, confermando implicitamente i miei sospetti, io cominciai davvero a credere che fosse chi asseriva di essere.
Non sono mai stato un uomo di grande fede, non vado a messa la domenica da quand’ero ragazzo, ma credo in Dio come ogni buon cristiano battezzato, quindi perché non credere nei suoi messaggeri?
Mi accesi un’altra sigaretta, cercando di riprendere il controllo. Non capitava tutti i giorni d’intrattenere una conversazione con un angelo del Signore.
«Sì, mi riferisco a lui, benché “amico” non sia la definizione calzante» conclusi poi, riprendendo il discorso precedentemente interrotto.
«Allora quale?» ribatté confuso.
«Non so come sarà in futuro, ma al giorno d’oggi è piuttosto sconveniente definire una persona del proprio stesso sesso più di un “amico”, per quanto speciale egli sia» cercai di fargli comprendere.
Mancavo dal mio Paese ormai da un anno e, ovviamente, non avevo la possibilità di contattare nessuna delle mie conoscenze o avrei rischiato di mettere a repentaglio la mia copertura. Anni prima avevo sperimentato la lontananza, con la mia falsa morte a Reichenbach, ma è un qualcosa a cui non ci si abitua mai. Come tutti gli esuli, ogni giorno mi svegliavo augurandomi che Watson e mio fratello stessero bene.
Una mano gentile e delicata si posò sulla mia spalla e, quando mi voltai, incontrai di nuovo quegli occhi incredibili, che ora mi rivolgevano un sguardo pregno d’empatia; quello di chi sa cosa vuol dire stare per tanto tempo lontano da casa e dai propri cari. Il contatto fisico non mi è mai stato troppo gradito, ma quel semplice gesto - benché venisse da uno sconosciuto - mi fece sentire un po’ più saldo ed un po’ meno perso. Che quell’uomo fosse o meno un angelo, di certo ne possedeva tutta la forza e la compassione.
FINE.
¹. Citazione di Victor Hugo.
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