Titolo: It ends tonight
Fandom: Originale
Rating: PG16
Parole: 1.108 (W)
Prompt:
Murder @
10_per_genreNote: Titolo da It Ends Tonight degli AAR.
- Mi rendo conto che il tema è delicato... in realtà pensavo fosse uno di quelli che non avrei mai toccato, nemmeno col pensiero o_o ma è uscita così, quindi pace e amen.
Disclaimer: Mio.
Lo so che sto per morire.
E mi spiazza come spiazzerebbe qualsiasi quindicenne nella mia stessa condizione. Lo so che sto per morire e che non sarà per nulla… dolce. Non ho mai pensato a come sarei morta, ma è anche vero che non mi sono mai immaginata da vecchia o da adulta. Al mio viso con qualche ruga, al non riuscire ad alzarmi dalla poltrona. Forse me lo sono meritata. Qualche cosa orrenda che ho fatto o detto.
Loro sono entrati con i passamontagna e i fucili nel bel mezzo della notte, ci hanno buttato fuori dai nostri letti e dai nostri sogni per portarci in sala, dove ci tengono in ostaggio. In pigiama, mi stringo forte a mia madre, singhiozzando, cercando di dare un senso a tutto questo.
E un senso ce l’ha, eccome.
Mamma e papà non sono, come dire, brave persone. Quando io cammino la gente si scosta, quelli che cercano di avvicinarsi a me sono quelli che vogliono dei favori speciali, o altri figli di individui non esattamente bravi, con cui io devo imparare a fare amicizia - uno di loro, probabilmente, sarebbe stato il mio futuro marito.
Mamma e papà portano addosso dei cognomi che fanno paura a tutti e che a volte vengono detti nei telegiornali con voce imponente, come a voler sottolineare quanto siano sporchi e sbagliati. L’intera nazione conosce il mio cognome, e non posso nemmeno nascondermi dietro ad una omonimia, non vivendo nella loro stessa città con un paio di guardie perennemente attaccate al culo.
Certi libri, a scuola, li leggono e li consigliano solo in mia assenza, certe cose le dicono chiare e tondo quando io non posso sentire. È strano quando tutti credono che la tua famiglia faccia parte di un circolo privato, mentre a te sembra che sia il mondo il circolo privato di cui tu non farai mai parte. Resti lì a guardarli, con la loro incapacità di porsi in qualche modo con te, rendendoti conto che neppure tu ce la fai, non senza discostarti da come ti hanno insegnato i tuoi genitori. D’altronde, dice sempre papà, tutto quello che noi desideriamo è il meglio per noi stessi. E se loro fossero al nostro posto si comporterebbero in maniera identica, magari peggio. Cane mangia cane: siamo bestie, comportiamoci come tali.
Le bestie che sono entrate in casa in piena notte urlano, fanno le voci grosse e ci puntano contro i fucili. La mamma non si lascia spaventare, ha la schiena dritta e i suoi occhi pieni di odio fissano quella gente - vi ucciderò, dicono, quegli occhi, la pagherete.
Mi aggrappo di più a lei cercando la forza che mi manca, sperando di poter assorbire quella sicurezza. E improvvisamente mi rendo conto che lei lo sapeva, che si aspettava una morte del genere, che ha avuto quarant’anni e passa per abituarsi all’idea di una morte così. Probabilmente si sente in qualche modo sollevata, poteva essere peggio.
Si può crepare di disperazione? Di paura? Perché non sono certa che riusciranno ad ammazzarmi, se il dolore non si affievolisce. Penso che tra poco il mio cuore smetterà di battere per la troppa tensione. Una sorta di “Basta, mi licenzio”. Dio, spero proprio che lo faccia. Lo desidero con tutta me stessa.
Il ragazzo che mi piaceva ricambiava l’affetto che provavo. Ci trovavamo in posti fuori dalla portata di occhi indiscreti, e vivevamo una storia fatta di baci e tenerezze. Lui non voleva assolutamente che si sapesse che stavamo insieme. Quando gli chiesi se si vergognava di me, si era stretto nelle spalle.
«No, è che ho paura.»
Mi ha lasciato qualche mese dopo, dicendo che così non poteva funzionare. Una settimana spesa a piangere continuamente sul letto, a casa, con mia madre preoccupata che cercava di farmi dire cosa avessi. Ho fatto l’errore di confidarmi, sapete.
Il ragazzo è finito in ospedale, per poco non lo mandavano in coma. In quel momento ho realizzato che era colpa mia, che era come se fossi stata io ad averlo pestato a sangue. E' da lì che ho cominciato a chiedermi cosa ne volevo fare del resto della mia vita - vivere tra le morti e nel silenzio, o tra le accuse e nella paura, tutto il tempo speso a domandarmi se fossi abbastanza forte e se davvero volevo andare contro le persone che mi avevano messo al mondo. È una scelta che non potrò fare, comunque.
Sono passate tre ore, il ticchettio dell’orologio viene nascosto dai rumori che provocano le bestie, il modo pesante che hanno di camminare, i fucili che sbattono sulle cinture, le nostre merendine che scartano e che si mangiano senza complimenti. La telefonata che il capo branco fa a mio padre dura da troppo tempo, ogni tanto ci obbliga a parlargli, a dirgli che vogliamo essere liberate. Mamma è calma anche in quel frangente, ma io riesco solo a dire “papà” singhiozzando quando sento il suono della sua voce. Mi manca. Vorrei averlo qui, vorrei sentirmi protetta e difesa.
Quando la telefonata finisce l’uomo bestia ci lancia una lunga occhiata che non riesco a decifrare.
«Andiamo.» dice, ed è chiaro che è finita.
Singhiozzo camminando vicino a mia madre per la pineta. Le bestie ci dicono di camminare, di andare avanti. Fa freddo, ho paura.
Ad un certo punto fermano mia madre: «Va avanti.» mi dicono, ma io mi volto, voglio averla accanto a me. Uno la tiene da dietro mentre un altro la colpisce in volto, e mi rendo conto che questo non è il peggio che le capiterà.
«MAMMA!» strillo e corro verso di lei, ma qualcuno mi prende in braccio. Provo a scalciare, a muovermi, mordo e piango, però riescono a portarmi via, ad allontanarmi. Le sue urla sembrano provenire da un altro pianeta.
Mi gettano a terra, l’odore della terriccio penetra nei polmoni. È l’ultima volta che vedrò le stelle, mi rendo conto. È l’ultima volta.
Sento gli uomini parlare tra di loro: «No, lei no.»
«Con tua figlia non si è fatto tanti problemi.»
«Ho detto che non la devi toccare.»
Mi alzo all’improvviso. È una cosa che lascia stupiti tanto loro quanto me. Ci guardiamo per qualche istante, come imbarazzati dalla situazione, poi comincio a correre.
«Ragazzina!» mi strillano dietro.
È buio, c’è odore di terra, i rami degli alberi mi feriscono le guancie.
«RAGAZZINA!»
Lo so che non ho speranza. Lo so che sto per morire. Volevo solo sentire di nuovo il vento sulla pelle.
«RAGAZZINA!»
Il proiettile mi ha colpito, e fa più male di quanto possa descrivere. Il mio corpo non fa in tempo a toccare terra che è già finita, o forse lo era già da tanto.