[Sherlock Holmes] All that is left, all that I hide (3/3)

Jun 17, 2010 22:44

Titolo: All that is left, all that I hide
Fandom: Sherlock Holmes
Pairing: Holmes/Watson, Watson/Mary
Rating: NC-17
Conteggio parole: 17.700 (W)
Parte: 3/3
Note: Cominciata un anno fa per un progetto con laurazel che purtroppo non è andato in porto, l'ho finita da qualche mese ma la posto solo ora che sono riuscita a trovare un po' di tempo. È lunghetta, angsty e parla dei due temi che mi riescono più ostici in questo fandom: il matrimonio di Watson e la cocaina. Ma siccome almeno una fic su queste due cose l'hanno scritta tutti, eccoci qua.
Riassunto: Autunno 1890. Watson ha un matrimonio da gestire e un caso per Holmes. Holmes ha una dipendenza da gestire e un problema con Watson. Nessuno dei due è molto bravo a fare quello che deve fare. Seguono angst, complicazioni, e un giallo.

Parte 1
Parte 2

Holmes non suggerì che tornassi a casa, e neppure lo feci io. In verità, non mi sentivo nello stato d’animo adatto per tornare così presto; se l’avessi fatto, probabilmente avrei finito col chiudermi nel mio studio, non desiderando parlare con nessuno, e Mary si sarebbe interrogata e preoccupata inutilmente. Invece le scrissi una nota nella quale la informavo che il caso era risolto e che mi sarei trattenuto con Holmes ancora per qualche ora, e pregai Mrs. Hudson di provvedere a che fosse recapitata.

Holmes scomparve brevemente nella sua camera e ne riemerse con la vestaglia color topo drappeggiata sulla camicia al posto della giacca e le pantofole ai piedi. Dalla soglia, mi guardò come se la mia presenza costituisse una qualche sorpresa per lui, quasi come mi fossi intrufolato nel salotto mentre egli era distratto da altre faccende.

Andò a recuperare la bottiglia di brandy e i bicchieri. “Bevi” disse porgendomi il primo che aveva riempito. Poi sedette in poltrona, studiandomi attentamente mentre mandavo giù il liquore. “Hai un aspetto pessimo, amico mio.”

“Ne sono sicuro” replicai, un po’ più bruscamente di quanto avessi voluto.

Rimase in silenzio per qualche tempo, poi osservò: “Neanche tu credevi che avremmo trovato Isa Whitney vivo”.

“No,” mi costrinsi ad ammettere, “non lo credevo.”

“Né le cicatrici di Mrs. Whitney costituiscono una gran sorpresa, a posteriori. Coloro che dipendono da sostanze alteranti hanno una tendenza a fare del male alle persone che li circondano.”

“Che strano” ribattei, con acrimonia. “Non ricordo che tu mi abbia mai spento una sigaretta sul braccio.”

Holmes tacque per un istante - uno solo. “La violenza fisica è un modo, certamente, ed uno che non sono del tutto ansioso di sperimentare, date le scarse possibilità di successo.” Per un secondo giurai che intendesse fare dello spirito, ma la sua faccia rimase cupa. “Non arriverei ad affermare che è l’unico.”

“No.” Posai il bicchiere sul tavolino, scuotendo la testa. “Non è quello che intendevo dire.”

“Lo so. È quello che io intendevo dire.”

Alzai gli occhi. “Tu non mi hai mai ferito sotto l’effetto della cocaina. Né fisicamente, né in altra maniera.”

“Non è mai stato necessario. È sufficiente ferire me stesso, e l’effetto - bontà tua, nonché un mistero insondabile dell’universo - è il medesimo.”

Per quanto mi vanti di conoscere tutte le sfumature d’espressione del mio amico, di fronte a questo corrugai la fronte, all’oscuro. Era un tentativo di scusa? O la confessione di una cosa così mostruosa che neppure riuscivo a concepirla?

Holmes dovette leggermi la domanda in volto, perché si affrettò ad aggiungere: “Non deliberatamente. Mai deliberatamente”.

Fino a quel momento avevo ritenuto che il profondo abbattimento che provavo fosse dovuto per intero alla triste fine di Isa Whitney e alle disgrazie della sua povera moglie; del resto, non era forse quella una ragione sufficiente? Ma non erano i Whitney a procurarmi quello sconcertante senso di vuoto al centro dello stomaco, che non era semplice dolore, né compassione, né alcuna emozione cui sapessi dare un nome preciso. Adesso che aveva preso residenza in maniera così plateale dentro di me mi rendevo conto di averla percepita già per mesi prima di quel giorno; mi aveva tenuto compagnia, mi accorgevo, fin da prima del matrimonio. Solo da quando ero tornato a Baker Street, però, la sensazione aveva preso a crescere con tanta scioccante violenza, e adesso la sentivo torcermi lo stomaco e ottundermi i sensi come una malattia.

Era Holmes. Era il mio amico, e la sua vicinanza - no, non la sua vicinanza, piuttosto i profondi effetti che la sua vicinanza aveva su di me, con la loro unica capacità di incendiare la mia ragione e scatenare i sensi di colpa che normalmente restavano, relegati e docili, nell’angolo loro adibito.

“Watson” disse Holmes, piano. “Tu non stai bene, amico mio. Distenditi un momento.”

“Non ho bisogno di distendermi” replicai. “Non sono malato.”

“Non ho la presunzione di esprimere diagnosi in presenza di un professionista. D’altra parte, posso affermare con certezza che stanotte non hai dormito un minuto.”

Gli rivolsi uno sguardo interrogativo, ma Holmes si era inginocchiato sul tappeto di fronte a me e mi stava sfilando gli stivali con rapidità ed efficienza. Sollevandomi le gambe sui cuscini del divano, Holmes rispose alla mia domanda inespressa: “La deduzione è assurdamente semplice, amico mio. Negli anni ho accumulato sufficienti prove sul tuo conto da poter affermare che, a dispetto delle grandi differenze tra noi, alcune cose hanno il medesimo effetto su entrambi. Il resto puoi dedurlo facilmente tu stesso”. Mi fece poggiare la testa sul bracciolo con una spinta leggera ma ferma sulla mia spalla.

Non potevo negare che la posizione fosse estremamente comoda; ed io ero stanco, come Holmes aveva giustamente dedotto, più stanco di quanto volessi ammettere. In tutta franchezza ero esausto.

“Così va meglio” disse Holmes dietro le mie palpebre chiuse. Seguì un lieve scalpiccio, poi il rumore del suo peso che si depositava sulla poltrona. Riaprii gli occhi quando sentii lo scatto di un fiammifero acceso.

“Credevo che fossi tremendamente adirato con me” confessai, guardandolo.

“Lo sono” confermò Holmes.

“Mi dispiace. Come posso…”

“Non puoi. Non è in tuo potere.”

Cercai conforto nella tinta diseguale del soffitto, macchiata da infiltrazioni d’umidità. Conoscevo la disposizione delle macchie a memoria. Una volta Holmes aveva dedotto che avevo passato l’intera giornata a scrivere semplicemente dal brutto torcicollo che mi affliggeva: quando cercavo ispirazione per una frase, mi aveva detto, avevo l’abitudine di alzare lo sguardo al soffitto e restare in quella posa anche per minuti interi. Non me n’ero mai accorto.

“Preferiresti che non ti facessi più visita?”

“Imputerò alla tua condizione presente la bestialità di questa domanda.”

Tacqui, vagamente sollevato. Disteso sul divano, cullato dal respiro di Holmes e dall’odore di tabacco forte della sua pipa, mi assopii poco dopo.

Quando mi risvegliai, la pipa giaceva abbandonata sul bracciolo della poltrona, e Holmes non era più in vista. Con qualche fatica appoggiai il gomito sul bracciolo e mi voltai per cercarlo nell’altra metà della stanza. Lo trovai subito vicino al camino spento, le mani appoggiate sulla mensola e il capo chino, come impegnato in profonda meditazione. Sulla mensola stava la custodia di marocchino, aperta, con la siringa ipodermica poggiatavi sopra di traverso. Quando Holmes aprì le dita della mano destra, scorsi la boccetta con la cocaina nel suo pugno.

“Holmes” mormorai, con voce impastata. “Che stai facendo?”

Holmes strinse la boccetta nella mano così forte che le punte delle dita sbiancarono intorno al vetro. “Non è evidente?”

Deglutii. “Preferirei che tu non lo facessi.”

“Ed io preferirei che tu ti astenessi dall’immischiarti, Watson. Come vedi, a nessuno di noi due è dato di ottenere ciò che desidera.”

Mi tirai a sedere, poggiando la tempia contro lo schienale del divano. Un tempo avrei potuto ritardare con relativa facilità l’incontro di Holmes con la cocaina, facendo appello a un potere che pure non avevo perduto, ma che non avevo più il diritto di esercitare. Ma in verità era - era sempre stata - una battaglia persa, e la consapevolezza mi assalì con un’ondata di nausea.

“Mi stai punendo. Mi stai punendo e hai ragione a farlo, e non ti prego di smettere, ma ti prego, ti imploro di trovare un altro modo. Uno che non contempli la tua stessa distruzione. Holmes.”

Egli si voltò di scatto, gli occhi fiammeggianti a dispetto del tono pacato della voce. “Certamente, Watson, l’unico scopo della mia vita è suicidarmi cosicché tu possa versare una lacrima sulla mia tomba.” Mi ritrassi, anche se solo di un centimetro, dalla sua gelida furia.

“Holmes, non è quello che…”

“Non sforzarti. La tua dialettica, come la tua prosa, è carente e nient’affatto persuasiva.”

“Holmes, sono preoccupato per te, dannazione!”

Il mio amico corrugò appena la fronte. Non imprecavo spesso. “Temo che dovrai farci l’abitudine, dottore” replicò, piatto.

Lo raggiunsi di fronte al camino, afferrandogli il polso destro. Holmes si irrigidì e in risposta strinse ancora più forte la boccetta nella mano. “Non farò nulla del genere. Se pensi che possa restare qui a guardare mentre distruggi il tuo corpo…”

“Non guardare, allora!” ribatté Holmes. “Va’ a casa. Nessuno ti ha chiesto di restare.”

“Io ti amo.”

Holmes serrò la mascella, mentre la dichiarazione sembrava avere l’effetto contrario a quello sperato: anziché calmarlo, lo infiammò ancora di più.

È un fatto noto alle sue conoscenze più strette che maggiore è la rabbia di Sherlock Holmes, maggiore la sua compostezza. ‘Rabbia’ non è neppure la parola più adeguata, poiché evoca immagini di gesti inconsulti e voci alzate, mentre in Holmes non avviene nulla del genere. Tuttavia, è rabbia in ogni caso, seppure del suo speciale tipo.

“Esci da questa casa.”

“Mi stai cacciando?”

“Sì. Ora levami le mani di dosso.”

Sotto le dita sentivo il pulsare furioso delle sue vene. Le dita iniziavano a dolermi per la forza della stretta, e altrettanto doveva dolere il polso di Holmes, ma egli non fece un movimento.

“Ti amo” ripetei, senza abbassare lo sguardo.

“Non è nulla del genere. E ora vai a casa da tua moglie, ti sta aspettando.”

Mi si asciugò la bocca. Lo lasciai andare, sentendomi solo un poco in colpa per i segni rossastri delle dita che avevo impresso sul suo polso. Holmes mi voltò le spalle, posò la boccetta di cocaina e fissò la siringa alla custodia con la sua stringa di cuoio. Poi attraversò la stanza e depositò la custodia nel cassetto, richiudendolo con un giro di chiave. Si volse e percorse la stanza con lo sguardo finché non trovò ciò che gli interessava. Con due rapide falcate recuperò la pipa, la riaccese e si ributtò a sedere scompostamente sulla poltrona.

Calò uno dei silenzi più lunghi e imbarazzanti della mia vita.

“Holmes” lo chiamai alla fine.

Non mosse un muscolo, a parte le labbra che si stringevano e rilassavano intorno all’imboccatura della pipa, aspirando il fumo.

“Holmes, guardami.”

Obbedì, dopo un minuto intero. Quello che vidi non mi piacque, ma mi diede determinazione: era ancora irritato piuttosto che depresso. L’irritazione era un pessimo segno, ma uno che sapevo affrontare. Contro la depressione ero impotente.

“Qualche mese prima del caso del tesoro di Agra, mi portasti a conoscere tuo fratello Mycroft al Diogenes Club. A un certo punto scorgesti dalla finestra uno degli Irregolari, che attendeva all’ingresso con un messaggio per te, e lasciasti la stanza.” Continuai a fissare gli occhi di Holmes, che mi dissezionavano pezzo per pezzo con curiosità d’improvviso bruciante. “Mycroft aveva letto i miei racconti, e tratto delle deduzioni. Mi chiese da quanto tempo noi… da quanto tempo. Glielo dissi. Gli dissi che eravamo sempre stati estremamente cauti, e che non aveva ragione di preoccuparsi per te.”

Mi impedii di battere le palpebre.

“Mi disse che non era preoccupato. Per il momento c’erano solo voci, disse, niente più che meri pettegolezzi da osteria. Mi disse che avrebbe cominciato a preoccuparsi tra un anno o due, e tra tre o quattro non ne avrebbe avuto più motivo, perché si sarebbe rassegnato a vedere suo fratello solo attraverso le sbarre al carcere di Reading. Me lo disse in tono molto calmo: il tono di un fatto.”

La rapida successione di emozioni sul viso di Holmes, man mano più tetre e pericolose, minacciò di farmi perdere il filo del discorso, ma lo tenni saldamente.

“C’erano state delle avvisaglie, ma fino a quel momento avevo scelto di ignorarle. Mr. Doyle mi aveva informato con crescente preoccupazione dell’esistenza di un gruppo di ammiratrici - perlopiù giovani gentildonne dalle inclinazioni letterarie - che si erano date il nome assurdo di ‘Irregolari di Baker Street’ e avevano iniziato a mettere in circolo, segretamente, opere di natura scandalosa circa i nostri rapporti. Mycroft non mi disse nulla di nuovo. Si limitò a prospettarmi ciò che sarebbe avvenuto se avessi lasciato che le cose seguissero il loro corso.”

Presi un breve respiro, infinitamente stanco.

“Gli dissi che non avrei mai permesso una cosa del genere.”

Holmes si sfilò la pipa dalle labbra, l’espressione congelata in una smorfia di stupore. “Pazzo” disse alla fine. “Che cosa hai fatto?”

“Mi dispiace” mormorai.

Scattò dalla poltrona come se dovesse correre per la sua vita. Mi afferrò gli avambracci lungo la strada e mi mandò a sbattere contro il muro. Ignorai la vibrazione che si ripercuoteva dolorosamente sulla mia spalla lesa.

“Pazzo idiota senza cervello!” sbraitò, il suo volto a pochi centimetri dal mio. “Che cosa hai… Come hai potuto credere… Perché non sei venuto a…”

“Mi dispiace” ripetei, liberando una mano per appoggiarla sulla sua guancia. “Mi dispiace, Holmes. Tu non sai quanto mi dispiace.”

Mi serrò contro il muro col peso del suo corpo e mi baciò. Lo accolsi con gioia disperata, senza domande, il desiderio acuito anziché smorzato dal breve incontro della sera prima. Era ciò che avevo temuto, ma adesso che accadeva mi scoprivo incapace - che Mary mi perdoni, ovunque si trovi adesso - incapace di spendere un pensiero per mia moglie. Più tardi mi sarei giustificato dicendomi che avevo amato Holmes molto prima di contrarre alcun obbligo matrimoniale, e la scusa mi sarebbe sembrata così bieca e patetica che mi sarei disgustato di me stesso. Ma questo più tardi, dopo averli persi entrambi. In quel momento non pensai nulla del genere. In quel momento non pensai affatto.

Strattonandoci a vicenda raggiungemmo la porta della camera di Holmes, e fu allora che egli recuperò il dominio di sé e si ritrasse, le mani sempre fermamente affondate nei miei capelli. Me li pettinò indietro con le dita; sono certo che svettassero comicamente in ogni direzione. “No” mormorò, in tono affannato ma deciso.

“Holmes, per l’amor di Dio…” iniziai, disperato al pensiero che avesse cambiato idea.

“Nella tua camera, tra un minuto.” E poi aggiunse, per dissipare la mia confusione: “Non è il caso che ci senta tutta la casa”.

Lo attirai a me per un altro bacio, che rischiò di durare una vita e strapparmi via quel poco controllo che mi era rimasto.

“Arrivo subito” bisbigliò Holmes, spingendomi nella giusta direzione.

Il letto era stato rifatto, ma quando mi chinai per respirare l’odore lieve depositato sulla superficie del cuscino, percepii distintamente il tabacco e la brillantina di Holmes, uniti all’aroma particolare della sua persona. Holmes entrò un attimo dopo, serrando la porta alle sue spalle.

Aveva abbandonato la vestaglia in salotto, restando in maniche di camicia. O forse l’aveva lasciata sulle scale (quest’immagine mi parve inesprimibilmente erotica). Infilò un dito nel nodo della cravatta, allentandolo, e calciò via le pantofole con grazia del tutto casuale. Bloccandolo contro la porta, reclamai possesso della sua bocca e scacciai la sua mano, lasciandomi scorrere la seta spessa della cravatta tra le dita, alla cieca, finché non fu sciolta. Una mano di Holmes si depositò sul mio fianco, scavalcò la giacca e strappò l’orlo della camicia dai pantaloni, cercando la pelle al di sotto. Il brivido che seguì mi portò a stringermi di più a lui, come in cerca di una fonte di calore, benché la fonte del calore e quella del brivido fossero la medesima.

Gli strinsi le spalle nelle mani, approfittando della cravatta sciolta per cercare un accesso al suo collo, alla sua gola. Gli baciai la linea dura della mascella e il rilievo palpitante di una vena, e direttamente nella conchiglia finemente cesellata dell’orecchio mi confessai per la terza volta, cercando un sollievo, una chiusura che nessun altro poteva darmi. “Ti amo” bisbigliai, distrutto al pensiero che egli mi credesse un bugiardo. “Holmes, io…”

“Watson, vuoi farmi l’immenso favore di tacere?”

Mi tirai indietro, come schiaffeggiato, ma Holmes mi prese il volto in una mano. “Soffro della stessa malattia, e non la voglio ricordata. Non ora.” Mentre parlava mi spingeva con delicata insistenza verso il letto, ed io mi mossi all’indietro seguendo la sua guida.

È fin troppo facile dimenticare che Sherlock Holmes è, nei fatti, un uomo molto forte. Qualcosa nella mente rifiuta di associare tanta energia a una figura così magra, a dita così sottili, a un tale concerto di movimenti più rapidi che possenti, più eleganti che vigorosi. Il mio cervello non dimentica che Holmes è un lottatore e un pugile di prima classe, versato ugualmente nella scherma e nel corpo a corpo, ma talvolta si permette di tralasciare il dettaglio, preferendo concentrarsi sulla coordinazione e la grazia e l’armonia e la sensualità dei gesti. È un errore.

Holmes mi spinse disteso sul letto con quella che mi sembrò la forza di tutto il suo peso; poi, in ginocchio sulle mie cosce, attaccò i miei vestiti come se volesse ignorare il passaggio obbligato dei bottoni e strapparmeli di dosso. Ma se pure l’avesse fatto, non posso dire che me ne sarei accorto, preso com’ero dalla stessa occupazione, dal desiderio frenetico di scoprire ogni centimetro di quella pelle che era stata mia, di quel corpo sul quale nessun altro, un tempo, aveva potuto reclamare alcun diritto. La follia della mia scelta, che pure al tempo era stata meditata fino all’agonia, mi apparve in tutta la sua forza, e una parte di me mi avvertì che era questo, era proprio questo ciò che avevo temuto e che mi aveva tenuto lontano da lui sin dal giorno del mio matrimonio, questa consapevolezza che di fronte a Sherlock Holmes il mio mondo si fermava e poi, con accelerazione spaventosa, prendeva a ruotare nella direzione opposta, e ciò che era sensato e razionale mi appariva folle, e ciò che era folle e sconsiderato l’unica soluzione per non soccombere.

L’autocontrollo di Holmes si rivelò superiore al mio, giacché riuscì a scoprirmi il torso lasciando i miei vestiti indenni, mentre non posso dire altrettanto di ciò che accadde ai suoi. Un bottone del suo panciotto grigio saltò con uno schiocco dall’asola e si depositò nel cavo della mia gola. Indifferente al danno, Holmes si chinò a raccoglierlo con la bocca, avendo cura di passare gli incisivi sulla mia pelle, e lo sputò con somma noncuranza. Mentre cercavo di disfare la sua camicia con altrettanta rapidità ma minore violenza, Holmes si sfilò il gilet dalle spalle e lo lasciò cadere sul pavimento, sbottonando poi i polsini. Avrei potuto aspettare che si liberasse dell’indumento, ma a quel punto il desiderio di baciarlo di nuovo mi stava consumando e dovetti tirargli il volto sul mio, i nostri toraci a contatto tra le ali delle rispettive camicie. Mi lasciai scorrere le ciocche disordinate tra le dita, assaporandone la consistenza molle e pesante insieme a quella della sua lingua nella mia bocca. Lasciai vagare una mano sulla sua nuca, sotto il colletto della camicia, e poi accartocciai nel palmo il mare di stoffa per toccargli la schiena, i fianchi magri, il rilievo delle vertebre alla base del collo.

In un altro mondo, ne ero certo, mi era consentito passare il resto della vita con la lingua di Sherlock Holmes nella mia bocca e le mie dita nei suoi capelli. In questo mondo ideale, del tutto dissimile dal nostro fuorché in un aspetto, non avrei mai avvertito il bisogno di respirare o bere o mangiare o soddisfare qualsiasi altra urgenza, neppure quelle pressanti della carne, perché le due azioni congiunte avrebbero appagato ogni mio desiderio mortale fino alla fine dei miei giorni, e in questa maniera avrei consumato la mia vita, senza mai stancarmi o volere altro, nel bacio di Sherlock Holmes e nel profumo della sua brillantina.

Le labbra di Holmes rifiutarono di allontanarsi più di una frazione di centimetro dalle mie mentre si liberava della camicia con qualche scomoda torsione, e le avevo ancora addosso mentre mi sollevavo su un gomito e poi, aggrappato a lui, mi tiravo a sedere per imitarlo. Sentii le sue dita scorrermi delicate sulla cicatrice nuda che, dalla spalla, si apriva verso la scapola in un grumo asimmetrico. Negli anni, Holmes si era impegnato con grande sforzo a sostituire i miei ricordi sensoriali legati a quella cicatrice - orrendi, febbricitanti, disperati - con altrettanti di natura più felice e privata. Una certa riluttanza sarebbe sempre rimasta, ma adesso l’effetto che un tocco sapiente aveva su di me era più vicino a un brivido di aspettativa che a uno di repulsione.

Benché il mondo non fosse cambiato intorno a noi, dedicammo più tempo solo a baciarci di quanto avessimo mai fatto, perfino negli incontri più rilassati. Non la chiamerei pazienza: annidata nel basso ventre l’urgenza mi divorava, stordendomi coi rintocchi sordi del sangue che mi scorreva nelle tempie, ma la disperazione di lasciare Holmes, sia pure per un istante, sia pure per cercare un piacere più grande, la teneva a bada. Come un naufrago che preferisce tenersi aggrappato a un misero relitto piuttosto che abbandonarlo e nuotare verso la riva, che pure non è lontana, io mi tenevo aggrappato a Holmes - e Holmes a me - senza osare altro che lasciar vagare le mie mani sulla sua schiena nuda.

Sapevo che l’urgenza di Holmes era pari alla mia, poiché lo sentivo premere con forza contro di me, il suo desiderio imperioso e inequivocabile. Quando credetti che sarebbe bastato questo a fare a brandelli la mia facoltà di pensare, le sue mani, più audaci delle mie, mi lasciarono le spalle e in pochi secondi ebbero ragione della mia cintura e dei miei calzoni. Poi sfilò le ginocchia dal materasso ai lati dei miei fianchi e si rimise in piedi. Me ne resi conto con l’improvviso, freddo vuoto davanti e intorno a me, che mi lasciò orfano di Holmes e in preda a una dolorosa fitta di privazione.

Holmes finì di spogliarsi in silenzio, fissandomi negli occhi mentre lo faceva. In un secondo rimase completamente nudo di fronte a me, senza mostrare la minima traccia di imbarazzo o vergogna mentre il mio sguardo scalava lentamente il suo corpo, e infine si ricongiungeva al suo. “Segna le mie parole, John Watson” disse lentamente. “Questa notte non te ne andrai sulle tue gambe.”

Avrebbe potuto essere uno scherzo, ma non fu nulla del genere. Holmes lo disse in un tono feroce, minaccioso, di una minaccia che non era quella giocosa degli amanti, ma quella mortale del predatore. Era aggressivo ma anche esausto, con una vaga nota di esasperazione. Era come se tutta la pazienza e la tenerezza e la compassione di cui lo sapevo capace si fossero prosciugate, lasciando un torsolo di amore rabbioso e acuminato come un rovo di spini. Fu uno dei momenti più strani della mia vita, vedere l’uomo che mi aveva amato così tanto guardarmi come se meditasse di colpirmi - e il tutto senza smettere neanche per un secondo di amarmi, totalmente e irrimediabilmente.

Fu l’amore che mi disfece, credo. L’odio avrei potuto sopportarlo.

Mi misi in piedi nel breve spazio tra Holmes e la sponda del letto, invero sentendo già le mie gambe farsi deboli alle ginocchia. Pensai di dire molte cose e non ne dissi nessuna. Holmes non mi avrebbe perdonato solo perché glielo chiedevo, per quanto disperatamente lo desiderassi.

“Non me ne andrò” mormorai alla fine, prendendogli il volto tra le mani. Premetti piano le labbra sulle sue, e mi spostai sull’angolo della bocca un attimo prima che le dischiudesse. Gli baciai la guancia e, in tre punti, la mascella volitiva; poi la fronte, il mento, il naso. Gli baciai la tempia, una palpebra e l’altra, coprendo per qualche istante il grigio bruciante dei suoi occhi. Gli baciai l’orecchio, la conchiglia, il lobo, con tutta la delicatezza di cui mi sentii capace. Sul collo i baci si fecero più intensi e più lunghi; mi presi del tempo sulla gola, assaporando il pulsare crescente del sangue sulle mie labbra non meno del sapore salato della sua pelle. Il pomo d’Adamo tremò appena sotto i miei baci, ma non si mosse.

Quando mi chinai verso la spalla sentii la mano di Holmes sollevarsi, come per porre fine a tutto quanto; la fermai e la strinsi nella mia, immobilizzandola a mezz’aria. Holmes fece resistenza ma lo tenni a bada per qualche secondo - il tempo di ricoprirlo di baci dal collo all’articolazione - in una sorta di bizzarro braccio di ferro. A quel punto Holmes cedette. Gli baciai il bicipite, l’incavo del gomito, e una cicatrice che ricordavo a memoria (un colpo di coltello, di striscio). Gli baciai le vene blu del polso e il palmo. Gli baciai ogni singolo dito dalla nocca al polpastrello, sentendolo prendere seccamente un respiro, e ripetei l’intera operazione dall’altra parte.

Gli baciai i pettorali, i capezzoli tesi per il freddo e l’eccitazione, lo sterno nel quale tremò l’eco di un battito. Piegai la gamba sana sul pavimento e ripresi da dove avevo lasciato: lo stomaco, l’addome contratto in un respiro, l’ombelico. Ogni centimetro mi era caro; ogni neo, ogni lembo, ogni piega della pelle portavano con sé ricordi. Li riscoprivo procedendo man mano, come se mi attendessero scolpiti nella carne. Mentre avanzavo sentivo Holmes seguire la trafila dei miei stessi pensieri, mancargli il respiro quando mancava a me, irrigidirsi e rilassarsi quando lo facevo io. Un’intera storia condivisa - non una vita, ma due - mi scorreva sotto le labbra, e non avrebbe potuto essere più chiara se ogni singolo momento si fosse ricreato di nuovo di fronte ai miei occhi.

Quando mi fermai poco sopra l’inguine, ebbi la curiosa impressione che fosse passata almeno un’ora da quando eravamo entrati nella stanza. Chiusi gli occhi, abbandonandomi con un sospiro alla familiarità del momento, al profumo amato di Holmes. Disegnai i contorni della sua erezione con le labbra, soffermandomi su ogni punto sensibile che conoscevo a memoria, lasciando scorrere le dita in una presa man mano più ferma intorno alla base. Il respiro di Holmes, accelerato, si propagava in vibrazioni continue fino al suo stomaco; quando lo accolsi nella bocca avvertii un soprassalto netto. In un momento imprecisato, Holmes mi scostò una ciocca di capelli dalla fronte.

Ho avuto rapporti intimi con altri uomini nella mia vita. Da alcuni ho imparato; ad altri ho insegnato. Ma c’è una differenza immensa - viscerale, oserei - tra un incontro con un gentiluomo in un club e uno con la persona della quale ogni capello e fibra e cartilagine sono incisi per sempre nella tua anima, nelle profondità più nascoste del tuo essere. Conosco il corpo di Holmes come il mio - meglio del mio - perché ho dedicato ore e giorni della mia vita a memorizzarne ogni dettaglio. So come dargli piacere nella maniera più lenta ed estenuante, che prosciughi le sue forze in un delizioso sfinimento, o nella più rapida e intensa, come una vampata di zolfo che è subito consumata; e ogni sfumatura nel mezzo. Ho imparato perché il suo piacere era il mio, e perché il privilegio di esserne l’unico detentore esigeva la perfezione assoluta.

Holmes aveva taciuto fino a quel momento; di proposito, sospetto, perché tremendamente adirato con me. Ma qualcosa doveva essersi allentato nella sua determinazione di restare adirato, e quando l’avevo preso nella bocca aveva ceduto del tutto. Lo sentii pronunciare il mio nome, una sola sillaba affannata, morbida come una carezza, e poi le sue dita furono tra i miei capelli e il mio mondo si restrinse a una bolla molto piccola della quale Sherlock Holmes occupava ogni angolo.

Il momento avrebbe avuto la stessa consistenza distorta e fumosa dei molti sogni dell’ultimo anno, non fosse stato per la solidità di Holmes sotto le mie mani. Ciò nonostante, nei mesi a venire il ricordo mi avrebbe visitato così spesso, in mille e mille varianti, che oggi non sono più convinto di cosa sia accaduto realmente e cosa no. Ad esempio, non potrei giurare che a questo punto Holmes non mi abbia spinto sul letto e posseduto fino a lasciarmi crudelmente privo di un’oncia di energia. Né mi sento in grado di assicurare che la storia fino a questo momento procedette esattamente come ho narrato. Forse la porta della mia camera ebbe un ruolo meno marginale; forse una cravatta (la mia, la sua) fu adoperata per legare i miei polsi alla testiera, o i suoi. Ma tra le mille varianti mi piace pensare di aver scelto quella che Holmes avrebbe approvato, anche se non ho più modo di chiederglielo.

Chiedo scusa. Gli uomini talora hanno modi bizzarri di onorare la memoria dei propri cari.

Holmes emise un suono gutturale, estremamente gratificante, e rafforzò la stretta sui miei capelli. Non direi che li strattonò, perché sembrerebbe un gesto sgarbato e in coscienza non lo fu; ma con tutto il suo autocontrollo e il desiderio palpabile di non mostrarmi alcuna debolezza, data la singolare atmosfera che si era creata tra noi, mi comunicò senza compromettersi l’urgenza feroce che lo divorava. L’avrei fatto comunque, ma non attendendo altro, fui pronto ad obbedire. Non esagero se dico che avrei fatto qualsiasi cosa; qualsiasi strato di pudore avessi mai avuto mi era stato strappato via come un vestito scomodo.

Il suo addome si contrasse sotto le mie dita e lo sentii prendere un respiro brusco mentre lasciavo scivolare una mano intorno al mio membro, concedendomi qualche breve istante di sollievo. Holmes si irrigidì e poi si abbandonò nella mia bocca, copiosamente. La familiarità improvvisa e totale della sensazione mi fece dubitare per un attimo che più di una settimana fosse passata da quando eravamo stati insieme l’ultima volta.

Il bacio che seguì fu una cosa affannosa, lurida, e squisita. Venni sollevato dal pavimento, sospinto sul materasso e immediatamente sovrastato dal peso di Sherlock Holmes sulle mie cosce. Lo aiutai a disfarsi dei calzoni senza resistere allo stesso tempo alla tentazione di prendergli le natiche nelle mani, saggiarne la consistenza scattante e muscolare. Holmes mi guardò, forse placato per il momento, ma certamente non soddisfatto.

Mi sforzo di essere quanto più obiettivo possibile quando dico che ciò che seguì fu uno stupro in piena regola; e la mia completa collaborazione non ne mitigò la ferocia, semmai contribuì ad aumentarla. Holmes mi spinse in una posizione distesa e si allungò oltre la mia testa per recuperare qualcosa dal cassetto. Gli presi un capezzolo tra le labbra, perché il movimento me l’aveva offerto alla bocca. Holmes mi guatò dall’alto in basso, gli occhi velati di desiderio, e si rattrappì su se stesso per baciarmi di nuovo, lasciando cadere la sua conquista sul cuscino.

Avrei fatto qualsiasi cosa, e per questo mi sentii tanto più impotente quando Holmes, aprendo il vasetto, raccolse parte della sostanza con le dita e procedette da solo a prepararsi sotto i miei occhi. Non mi aspettavo che me lo domandasse, né implicitamente né esplicitamente, ma il suo sguardo quando feci un gesto mi paralizzò sul posto, come quello di certi serpenti che hanno il potere di ipnotizzare le vittime. La mia assistenza non era richiesta. Intuii che Holmes riteneva di avermi lasciato sufficiente controllo fino a quel momento - la portata dell’irritazione che questo adesso gli causava non mi era ancora chiara - e che non intendeva lasciarmene oltre. Se avevo ancora qualche dubbio, il suo secco “No” quando di nuovo tentai di toccarlo mi convinse completamente.

Che cos’altro pensi di meritare?, mi parve che dicessero i suoi occhi socchiusi. Che consenta a utilizzarti come strumento di piacere è perfino troppo, dopo ciò che mi hai fatto.

Ma dovevo essere entrato in una sorta di delirio, perché dubito che anche senza parlare Holmes si sarebbe mai espresso in maniera così squallida.

“Holmes, ti prego. Lasciami…”

“No.”

Sbattei le palpebre, per la prima volta da minuti interi, di fronte allo spettacolo di Sherlock Holmes con tre dita affondate nel proprio corpo fino alle nocche. Era passato del tempo dall’ultima volta: lo vidi contrarre la fronte in una smorfia di fastidio, ma non ritirarsi. Mai ritirarsi. Sollevai una mano per accarezzargli la tempia e Holmes si rilassò brevemente, le palpebre tremanti per un secondo sopra gli occhi grigi. Sono abbastanza certo che in quel momento la mia risoluzione si ruppe e gli mormorai di perdonarmi, anche se lo sapevo inutile, tanto il minimo riconoscimento da parte di Holmes è capace di rovinare i miei migliori propositi.

Me ne pentii. Gli occhi di Holmes divennero acciaio e con una scossa della testa si liberò della mia mano. Poi, con determinazione, prese un’altra porzione di pomata e la applicò sul mio membro. Non compì un solo movimento di troppo, e questo rese tutto molto più straziante. Scivolò più avanti, si sollevò sulle ginocchia e lentamente, ma senza la minima esitazione, si calò su di me. Sono sincero quando dico che qualsiasi altra cosa sarebbe stata accolta con il medesimo piacere, ma non avrebbe prodotto lo stesso effetto. Nessuna tra le mille scene che la mia mente mi ha proposto in questi anni ha la stessa forza.

L’avrei ricordato fino all’ultimo giorno, pensai facendo uno sforzo immane per respirare. Il suo volto innaturalmente arrossato, gli occhi chiusi, le labbra aperte, il suo torace coi segni del mio passaggio, la carne magra sulle costole, la distesa compatta e tirata del suo addome; mio Dio, già lo sapevo, sarei morto prima che l’immagine mi abbandonasse. Nei miei momenti più bui, arrivo a desiderare di estirparla dalla mia mente, questa e tutte le altre, e ho l’impressione di diventare pazzo. Mi domando se fosse questo l’intento, se quella visione che mi regalò non sia stata che l’apoteosi della mia punizione, il mio incubo personale per i giorni a venire. O forse lo immagino troppo crudele?

Disfarmi gli riuscì cosa facile; sinceramente, ero già da qualche tempo alla deriva dei miei sensi. Fu straziante e perfetto e infinito e terribile, come i migliori incubi. Holmes mi baciò, mentre coi fianchi mi toglieva l’ultimo barlume di ragione, e tanto improvviso fu il piacere che rischiai di mozzargli la lingua coi denti. Si ritrasse con un suono di sorpresa, ma non protestò, e quando mi baciò di nuovo sentii il sapore del sangue. Ancora oggi, quando mi domando cosa di quel terribile pomeriggio è vero e cosa è sogno, mi sovviene il sapore ferroso del sangue di Holmes che per qualche istante mi assalì la bocca.

Tornai al mondo un minuto o un’ora dopo. Il sole era calato bruscamente. Sotto le mie dita c’erano ciocche lisce e pesanti, dal baluginio metallico.

Mi sentivo esausto, così completamente consumato che perfino girarmi sul fianco e passare un braccio intorno alla vita di Holmes si rivelò faticoso. Il movimento lo svegliò, ammesso che stesse dormendo, ma non si irrigidì come avevo temuto. Gli baciai con diligenza la prima vertebra.

“Mrs. Hudson sta per servire la cena” mormorò. “Anatra, a giudicare da…”

Non avevo voglia di ascoltare la lunga e senza dubbio corretta sequenza di deduzioni che l’avevano portato, dal mio letto, alla scoperta del menu serale. “Hai fame?”

“No, non al momento.”

“Mrs. Hudson non se ne avrebbe a male se posticipassimo la cena, ne sono sicuro.”

“A che scopo?”

“Nessuno scopo” risposi, sfiorandogli l’orecchio con le labbra. “Vedo che non hai fretta, e neanch’io.”

“No?” ribatté Holmes. “Dovresti.”

“Dovrei?”

“Tua moglie ti sta aspettando.”

La menzione mi aprì una voragine nello stomaco. Rimasi in silenzio, mortalmente a disagio, senza muovere un muscolo. Holmes si portò una mano alla bocca per coprire un enorme sbadiglio e poi si mise a sedere, stirando le braccia e la schiena come un felino.

Era una recita, naturalmente, e una piuttosto crudele, ma Holmes è il miglior attore che io conosca, e col tempo ho imparato che la crudeltà è l’ultima risorsa che gli resta quando nient’altro gli ha giovato.

“Credevo che desiderassi la mia compagnia stanotte” dissi alla fine.

“Ho detto così? Se l’ho detto deve essere vero. Ciò nonostante, tua moglie continua ad aspettare.”

“Mary sa…” No, non riuscii a finire la frase. In tutta coscienza, non ci riuscii. “Resterò, se mi vuoi.”

Holmes mi gettò uno sguardo e sorrise, incolore. “Mio caro, me la cavo ottimamente durante i ventinove giorni al mese in cui non ti vedo. Qualche ora in più o in meno farà pochissima differenza per me. Un mondo, ne sono sicuro, per la signora.”

“Non fare così” bisbigliai. “Ti prego.”

Holmes si alzò in piedi, camuffando un piccolo cedimento del suo corpo in un’improvvisa torsione. “Vai a casa, Watson” disse prendendo un gemello d’oro dal comodino e studiandolo per un attimo con l’aria di non sapere se fosse suo o mio. Poi raccolse un paio di calzoni sicuramente suoi dal pavimento e se li infilò sulle gambe nude.

“Holmes…”

“Intendo andare nella mia stanza e restarci fino a quando Mrs. Hudson non salirà con la cena. Per allora ti voglio fuori da questa casa. Sarai il benvenuto domani, dopodomani, tra una settimana e quando vorrai. Adesso, però, te ne andrai.”

Mi coprii gli occhi con una mano, trattenendo una ad una tutte le cose che avrei voluto dire e Holmes non avrebbe voluto sentire. Sentii passi nudi e un fruscio di stoffa mentre finiva di vestirsi.

“Se ci fosse stato un altro modo, l’avrei fatto.”

Holmes mi contemplò con freddezza. “Ne ho contati non meno di cinque mentre dormivi. Ma tu hai ritenuto che ce ne fosse uno solo, e hai agito di conseguenza. Sei e sei sempre stato padrone delle tue scelte, Watson. E altrettanto io sono padrone di elargire il mio perdono a chi preferisco.” Mi lanciò la mia camicia. “Vai da tua moglie. E da tuo figlio” aggiunse dopo un secondo, con una strana vibrazione nella voce.

“Mio…?”

“Felicitazioni” mormorò Holmes, con la mano sulla chiave. Era più pallido che mai, e d’improvviso immensamente distante, come se qualcos’altro attendesse la sua immediata attenzione. Pensai alla cocaina e scattai in piedi. Il mio corpo pesava mille tonnellate. “A entrambi” continuò. “So che glielo riferirai.”

Era già fuori dalla stanza quando mi mossi per raggiungerlo, e le forze mi disertarono. Mi rivestii con lentezza, come ubriaco. L’ironia della situazione era qualcosa che avrei realizzato solo col tempo; quella sera mi contentai di percepirne la tragicità. Il senso di colpa mi avrebbe ucciso, ne ero certo, non sospettando neppure che quello era solo l’inizio.

Scendendo le scale mi fermai di fronte alla porta di Holmes e la trovai socchiusa. La spinsi con la punta delle dita, trattenendo il fiato. Holmes era disteso al centro del letto, un braccio piegato sopra la fronte e l’altro allungato oltre la sponda, la manica della camicia arrotolata sul braccio e una minuscola, tremenda stilla di sangue scintillante nell’incavo del gomito.

Se quel giorno avessi agito diversamente, sarebbe qui con me adesso? Forse potremmo riavere la nostra vecchia vita; forse, col tempo, sarei riuscito a convincerlo a perdonarmi. Non lo so. Tutto adesso mi sembra preferibile a ciò che feci, eppure non riesco a contemplare uno scenario diverso, uno nel quale non richiusi silenziosamente la porta e me ne andai, come mi aveva chiesto, da mia moglie e mio figlio non ancora nato.

Doveva sapere, quando l’aveva lasciata aperta perché vedessi, che avrei avuto tutta la vita per pentirmene.

Nota: Nell'improbabile caso che a qualcuno fosse sfuggita l'implicazione, nell'aprile 1891 Holmes andrà a suicidarsi (sì, non è che si possa chiamarlo diversamente) a Reichenbach.

fic, pairing: holmes/watson, language: italian, fic: sherlock holmes

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