[Heroes] You can sleep while I drive (Nathan/Peter, AU, NC-17)

Nov 19, 2007 15:57

Titolo: You can sleep while I drive
Autore: fiorediloto
Fandom: Heroes
Coppia: Nathan/Peter
Rating: NC-17
Prompt (@syllablesoftime): 5. you can sleep while I drive
Conteggio Parole: 6697
Avvertenze: Sesso con minorenni, incesto... ideale?, infinita tristezza dell'esistenza
Spoiler: 1x20, "Five years gone"
Disclaimer: Sì, be', non possiedo niente, neppure la Pasbeard *sighs*
Tabella: Nathan/Peter

Note e ringraziamenti: È una AU, gentile cortesia di eryslash che voleva un Nathan camionista e un underage!Peter.
Ringrazio eryslash e eledh_3 per le letture preventive, per lo squeeing e per avermi impedito di glissare sulla lemon, senza la quale questa fic sarebbe stata molto più breve e molto meno deleteria per i miei nervi; enfasi per la critica sensata, le precisazioni pignole e per aver inventato il Pasbear, mio nuovo feticcio ciccio da qui all'eternità.

Questa fic fa parte di una trilogia AU intitolata "Reality is almost always wrong" (citazione da House, M.D. per palati raffinati).



(banner by eryslash)

You can sleep while I drive

What is the feeling when you're driving away from people,
and they recede on the plain till you see their specks dispersing?
-- Jack Kerouac, ‘On the road’

Ti rimorchia in un bar a Midland, in Texas, un posto accogliente e pulito chiamato Burnt Toast Cafè. Il tuo toast non è bruciato e la cameriera è una bella ragazza castana sulla ventina, dal sorriso dolce. Ti chiede se vuoi altro caffè e tu annuisci e ringrazi, seguendola distrattamente con lo sguardo mentre si allontana.

Il caffè è pessimo, ma ci sei abituato.

Lui è seduto alla tua destra, un ragazzo di diciotto o diciannove anni (o venti o quindici - non sei bravo a dare l’età) con un’enorme frangia di capelli scuri quasi più incolti della tua barba e un alone di peluria rada sulla mascella. Ti lancia occhiate oblique da quando hai messo piede nel locale.

Potrebbe essere un ladro, un assassino, uno scappato di casa. Potrebbe anche far parte di una squadra di rastrellamento. Dicono che adesso alcuni di voi lavorino per loro. Alcuni - e tu sai che non è una voce perché ne hai incontrati un paio - possono fiutarvi a distanza di chilometri come i cani fiutano le lepri. Forse il ragazzo ha già avvisato i suoi compari e quando uscirai da questo bar un bel colpo alla nuca metterà fine alla tua vita di merda.

Chissà come faresti, pensi, se avessi qualcosa da perdere.

Il ragazzo si lecca le labbra e continua a guardarti di sottecchi. Tu finisci il tuo toast e ti decidi a gettargli uno sguardo, troppo rapido per stabilire un vero contatto - nel caso il ragazzo conosca qualche trucchetto - ma lungo a sufficienza per vedere che faccia abbia.

Diciotto anni al massimo. Ha le labbra screpolate dal freddo e un paio di occhi grandi e nervosi da fuggitivo. In cinque anni hai visto decine di occhi così.

Ti spolveri una manciata di briciole dalle labbra e ti alzi per andare a pisciare.

Ti stai lavando le mani quando il ragazzo entra nel bagno. La porta alle tue spalle è l’unica uscita - hai controllato - e un campanello d’allarme comincia a squillarti furiosamente nella testa. Una trappola?
Stacchi pacato un foglio di carta assorbente, ti asciughi le mani, lo appallottoli e lo lanci nel cestino.

«Ehi» dice il ragazzo, avvicinandosi.

Gli fai un cenno, guardando il suo riflesso nello specchio.

«Il camion qua fuori è tuo, vero?»

«Aha.»

«Mi dai un passaggio?»

«Un passaggio dove?»

Il ragazzo sorride vagamente, a disagio. «Be’… non importa. Dove vai tu va bene.»

«Non carico autostoppisti, mi dispiace.» Ti volti e gli passi accanto senza guardarlo negli occhi, diretto alla porta.

«Ehi, ehi, aspetta un attimo» scatta il ragazzo, afferrandoti un braccio. È forte, anche se i vestiti sembrano cadergli addosso come appesi alle ossa nude. «Solo fino alla prossima città. Che ne dici? Non do fastidio, giuro.» Minima esitazione, tenta un sorriso un po’ più caldo. «Non si è mai lamentato nessuno.»

Ti liberi con uno strattone ed esci dal bagno senza rispondergli. Il ragazzo ha un bel coraggio a chiedere passaggi in questo modo. Ormai gli autostoppisti sono quasi tutti vagabondi scampati ai rastrellamenti. Se tu fossi stato uno di loro, avresti già fatto una chiamata al numero speciale.

In sala qualcuno ha acceso il televisore; c’è una replica della commemorazione dei morti nell’esplosione. L’hai sentita così tante volte alla radio che ormai conosci le parole a memoria.

La cameriera segue il servizio seduta su uno sgabello, mordicchiandosi l’unghia del medio. Lasci i soldi sul bancone, senza disturbarla, ed esci dal locale prima che il discorso del Presidente arrivi a “… che un giorno le ferite sarebbero state guarite”.

A differenza del Presidente, tu sai benissimo che certe ferite non guariscono mai.

Il parcheggio è sul retro del locale, e tu sei a metà strada quando ti accorgi che il ragazzo ti sta seguendo. Continui a camminare verso il camion senza accelerare né rallentare il passo. Hai un fucile là sopra, nascosto dietro il sedile. Giusto in caso. Non credi che il ragazzo sia davvero pericoloso, ma ragioni più lucidamente quando hai un fucile a portata di mano.

Sei vicino alla fiancata destra quando lui ti raggiunge e ti mette una mano sulla spalla. È una presa salda ma non minacciosa, e quando ti volti lui la ritira immediatamente. Anche se il parcheggio è buio e deserto, ti sembra di vederlo in imbarazzo.

«Che vuoi?»

C’è un tonfo leggero, il rumore dello zaino del ragazzo che cade vicino al tuo piede, poi un passo deciso che gratta un po’ di terra sotto la scarpa. Indietreggi per allontanarti, ma sbatti con la schiena contro la fiancata del camion. Una mano del ragazzo ti scava sotto la giacca, l’altra passa sulla tua guancia in una lunga carezza prima di agganciarsi alla nuca e attirarti verso la sua bocca.

È un bacio nervoso e teso da adolescente, con le labbra aperte e la lingua che si infila frettolosamente nella tua bocca. Stretto contro la parete di metallo, appoggi una mano sulla sua schiena e lo senti farsi più vicino. Le dita ti stringono il maglione prima di lasciarlo per cercare il bottone dei jeans.

«Te lo succhio e tu mi porti fino alla prossima città, okay?» mormora il ragazzo, abbassandoti la cerniera.

Dovresti dire qualcosa, probabilmente rifiutare, ma riesci solo a inghiottire saliva. Fai in tempo a cogliere un brillio di luna scintillare sulle labbra umide del ragazzo, poi lui abbassa la testa e si lascia cadere in ginocchio davanti a te.

È rapido e sbrigativo come se avesse fretta di finire, e tu senti il piacere e la nausea annodarti insieme lo stomaco. Tutto quello che resta della tua nobile persona è questo alcolizzato che se lo fa succhiare in un parcheggio da un ragazzo più disperato di lui. E neanche per soldi. Ci sarebbe più dignità se almeno lo pagassi.

Getti uno sguardo intorno, ma siete completamente soli. Ti lasci sfuggire un ansimo. La sua bocca calda intorno al tuo cazzo è la sensazione più bella che tu abbia provato negli ultimi… mesi? anni? Non sei sicuro. Nell’ultimo anno. D’improvviso non ti importa più chi è e ti sei dimenticato perché lo sta facendo, è solo una bocca volenterosa (sì, volenterosa) e dopo te ne vergognerai come un cane, ma il dopo sembra infinitamente lontano se in mezzo c’è un orgasmo da raggiungere.
I suoi capelli ti solleticano le dita e tu li stringi istintivamente, non troppo forte. Non vuoi fargli male. Vuoi solo che continui e finisca e per una volta tutti i tuoi pensieri se ne scorrano via insieme allo sperma.

Quando vieni hai gli occhi socchiusi e la sensazione è così disperatamente bella che ti dimentichi di avvisarlo. Lui non sembra prendersela. Mentre riprendi fiato contro la parete del camion lo senti sputare; si china a raccogliere lo zaino e infine si rialza asciugandosi la bocca sul dorso della manica.

«Andiamo?» domanda tranquillo, accostandosi alla portiera dal lato del passeggero.

Tu ti rimetti l’uccello nei pantaloni e pensi: Non si è mai lamentato nessuno. Aspetti che il senso di colpa ritorni in circolo ripulendoti il sangue dalle endorfine e quando sali dalla tua parte sei di nuovo lucido.

+ + +

Il motivo principale per cui non dai passaggi agli autostoppisti è che non sai mai se il tipo ti vomiterà acido solforico sul cambio o ti risucchierà la carica dalla batteria accendendosi come una lampadina. Il secondo motivo è che non ti piace che la gente sappia della tua famiglia, ed è difficile evitarlo quando salgono e vedono la foto incollata sul cruscotto.

È una foto molto piccola. Un tempo stava nel tuo portafogli, poi hai smesso di usarlo e in qualche modo non ti è sembrato, com’era la parola, dignitoso tenere l’unico, l’ultimo ricordo dei tuoi cari nella tasca sul culo insieme ai soldi. Con gli anni la foto si è scotta al sole e i colori se ne sono un po’ andati a puttane, ma non hai mai pensato di staccarla da lì. In qualche modo fa parte della tappezzeria, ormai. La sbiadita tappezzeria della tua vita.

In origine c’erano due foto. In quella che tenevi incorniciata in ufficio e che è bruciata insieme al resto, tu avevi un braccio intorno alla vita di Heidi e uno intorno a quella di tua madre, i bambini erano perfettamente in posa e sorridevate tutti e cinque con la stessa faccia da fotografia. Questa è la versione non riuscita, con Heidi chinata in avanti ad afferrare Monty che non vuole saperne di stare fermo, Simon con la bocca aperta che indica il fratello, tua madre che vorrebbe sembrare scocciata e invece trattiene a stento un sorriso, e tu sei in piedi dietro tuo figlio e ridi - ridevi.

Una sera ti sei ubriacato e hai bruciato la tua faccia con la sigaretta accesa.

«La tua famiglia?»

«Aha.»

«Sono morti nell’esplosione?»

Gli lanci un’occhiata. Il ragazzo ti guarda serio. «Hai l’accento di New York.»

Tu apri a metà il tuo finestrino e per qualche secondo lasci che l’aria fredda lavi via la puzza di fumo stantio e sudore.

«Ci sono delle bottiglie di birra lì in basso. Dammene una. Te ne puoi prendere una anche tu se hai sete.»

Accanto alla foto hai incollato una copia mezza bruciata di un volantino della tua campagna elettorale. Ancora oggi non sai bene perché l’hai fatto; credi che sia una specie di memento per i giorni a venire. Lì la tua faccia è perfettamente visibile, con tanto di sorriso sbarbato e lustro da cartellone pubblicitario, e sotto si leggono ancora la parola VOTE e le prime tre lettere del tuo nome. Il resto è stato divorato dalle fiamme.

«Nate? Nathan?»

«Nathan» rispondi, stappando le due birre con l’apribottiglie agganciato al tuo mazzo di chiavi. Porgi al ragazzo la sua.

«Io sono Peter.»

Annuisci distrattamente. Nome comune, forse falso. Domani te lo sarai dimenticato.

«Ti hanno eletto, poi?»

«Ho perso miseramente.» E chissà perché, ora il ricordo ti fa ridere.

Peter solleva la sua bottiglia e la fa tintinnare piano contro la tua. «Bene» sorride. «Non mi piacciono i politici.»

Sorridi vagamente anche tu, di riflesso. I primi tempi, quando le cose andavano peggio di adesso ma non c’erano ancora squadre di rastrellamento sguinzagliate per il Paese, ti chiedevi cosa avrebbe pensato la gente di un ex avvocato di Manhattan ex candidato al Congresso che faceva il camionista. Poi ti sei reso conto che nessuno si stupiva più di niente, che a nessuno importava, e, cosa fondamentale, che non importava a te.

Il ragazzo manda giù un lungo sorso di birra e poi si lecca le labbra, sporgendosi in avanti per studiare meglio il volantino.

«Sai una cosa?» dice infine, ributtandosi contro il sedile. «Stai meglio con la barba.»

«Ah sì?»

«Sì. Sembri… non lo so. Più naturale?»

«Naturale?» ripeti, considerando la parola. Ti sembra che con gli anni abbia lentamente cambiato significato. Ora ti fa pensare a Darwin, evoluzione e selezione, mutazioni e DNA, e non ti piace. Sono cose alle quali preferisci non pensare. «Non credo.»

Peter scrolla le spalle e si volta verso il finestrino, abbracciandosi i gomiti. Il suo riflesso sul vetro ha la faccia stanca. Ora che puoi guardarlo con più attenzione, noti anche che ha addosso solo una felpa e una maglietta, e fuori ci saranno tre gradi al massimo.

Ti allunghi nella sua direzione e lo vedi voltarsi con uno scatto, gli occhi sorpresi e guardinghi da preda stanata. Ti farebbe tenerezza, quasi. Prendi la coperta ripiegata dietro il suo sedile e gliela tiri sulle gambe senza parlare.

«Grazie.»

«Niente.»

Si avvolge nella coperta e si gira dalla sua parte, appoggiando la guancia sul bordo dello schienale. Dopo un paio di minuti chiude gli occhi, e siete quasi arrivati a Stanton quando il suo respiro, perfettamente regolare, troppo perfettamente regolare, pretenderebbe di rivelarti che sta dormendo. Non lo svegli. Avete passato anche Big Spring quando Peter si volta dalla tua parte e ti chiede dove state andando.

«Houston.»

Non aggiungi altro, e lui non ti fa domande. Si rigira dal suo lato e dopo qualche minuto dorme davvero.

+ + +

Lo svegli tirandogli in faccia la tessera plastificata del suo passaporto. Peter si riscuote con un sussulto e allunga una mano ad afferrare l’oggetto che l’ha colpito, se lo porta per un attimo agli occhi semichiusi, poi scatta a sedere.

«Quando ho detto che non carico autostoppisti, il discorso valeva anche per i minorenni.» La voce ti esce più rauca di quello che volevi, rabbiosa, in un ringhio. La verità è che il senso di colpa ti brucia di più, adesso che lo sai.

«Non per gli autostoppisti minorenni che te lo succhiano gratis» borbotta Peter.

«Ah, ma per favore.»

Peter si infila il passaporto in una tasca dei pantaloni e si china sullo zaino che tu hai lasciato aperto, richiudendolo nervosamente. «Chi cazzo ti ha dato il permesso di guardarci dentro, comunque? È roba mia.»

«Senti, Peter o come ti chiami, se ci fermano a un posto di blocco e c’è qualcosa che non va sono io quello che sbattono in galera, okay? A te al massimo ti rispediscono a casa dalla mamma.»

«Un po’ tardi per pensarci, eh, Mr. Non-vado-coi-minorenni? Ferma il camion, io scendo qui.»

«In mezzo alla statale? Ti vuoi fare ammazzare?»

«Che te ne frega? Ferma questo coso, voglio scendere.»

«Tu stai fermo dove sei. Peter. Peter!»

È un incubo rapidissimo il momento in cui il ragazzo spalanca la portiera e si lancia di sotto con una parabola strana, quasi lenta, quasi aggraziata; un attimo prima la luce del faro destro brilla sul guardrail e il secondo dopo senti uno schianto raccapricciante di metallo e ossa frantumate. Pianti una frenata così forte che quasi voli anche tu contro il parabrezza, poi ti precipiti fuori dal camion.

Peter è accasciato sull’asfalto cinquanta metri più indietro, il suo corpo una serie di angoli mostruosamente sbagliati. C’è un brillio di luna su uno spuntone di osso insanguinato che esce da una gamba.

«Cristo santo» mormori, inginocchiandoti sull’asfalto. «Peter. Peter!»

Gli tasti il collo, ma non c’è battito - solo un pauroso, immobile silenzio. Ora il sangue ti romba nelle tempie come lo scroscio di una cascata. Complimenti, Nathan, un altro morto sulla coscienza. Un’altra foto da incollare sul cruscotto, magari.

Ambulanza. Soccorsi. Polizia. Cellulare. Ficchi le mani in tasca ma sono vuote. Corri al camion, afferri il cellulare, componi il 911 e mentre aspetti che ti rispondano torni da Peter - da quello che ne resta.

Poi quello che resta di Peter si muove. All’inizio pensi che sia solo una tua impressione, un inganno della penombra - poi una mano striscia lentamente avanti, la punta di un piede gratta l’asfalto, senti un gemito gutturale, un colpo di tosse, e all’improvviso è tutto un coro agghiacciante di scricchiolii, ansimi e rumore di carne pestata come un quarto di bue rigirato nelle mani del macellaio. Sembra non finire mai (“Pronto? Pronto? Chi parla? Pronto?”) e quando infine Peter si rimette a sedere c’è sangue ovunque, sui suoi vestiti, sulla sua faccia, sull’asfalto, e tutto quello che riesci a dire è un flebile: «Dio Cristo».

Peter tossisce ancora un po’, si tasta la mascella oscenamente storta, la spinge al suo posto con un ansimo. «Questo è nuovo» borbotta, scuotendo la testa.

Poi sei al tuo posto alla guida del camion e l’ultima cosa che ricordi è che tu non carichi autostoppisti minorenni.

Peter si rigira sotto la coperta, a disagio. «Senti… mi dispiace, okay? Non ti voglio dare rogne. Scendo dove mi dici tu.»

Le parole ci mettono un po’ ad arrivarti al cervello, come se dovessero attraversare una nebbiolina di confusione che ti aleggia tutta intorno. Corrughi la fronte, mentre lo stordimento lentamente si dissolve.

«Sei scappato di casa?»

«Sì.» Sospira piano. Rannicchiato sotto la coperta sembra ancora più piccolo. «E non ci posso tornare, okay? Non mi fare la predica, per favore.»

Non vuoi fargli la predica; in realtà non vuoi dire nulla. Non hai mai saputo come trattare con gli adolescenti. I tuoi figli erano troppo piccoli e tu non hai mai avuto un fratello o un cugino o un nipote adolescente. A volte dubiti di esserlo stato tu stesso.

Gli lanci uno sguardo. Il cielo si è rannuvolato e il viso di Peter è in ombra. Lo vedi tirarsi su la coperta fino al collo come se avesse ancora freddo.

«Pulisciti la faccia. Hai qualcosa sulla guancia» borbotti, e torni a guardare la strada.

+ + +

Sono le tre di notte quando Peter ti chiede di fermarti a un autogrill, afferra lo zaino e scende ancora infagottato nella coperta. Mentre lo aspetti, ti apri un’altra bottiglia di birra e ti fumi una sigaretta.

Non bevi mai molto quando guidi. Di giorno, quando non lavori e non stai dormendo, il tuo corpo ti richiede alcool quasi continuamente, senza regola, senza orari. (Il tuo appartamento è un cimitero di bottiglie vuote.) Ma di notte l’hai disciplinato ad accontentarsi di tre birre e non più di tre, perché l’ultima cosa che vuoi è ritrovarti a guidare ubriaco e ammazzare qualche automobilista di passaggio.

Guidi sempre di notte. Meno gente, meno domande. Meno facce. Bennet approva.

Alle tre e un quarto scendi dal camion e fai due passi per sgranchire le gambe; alle tre e venti cominci a preoccuparti. Dopo la storia del passaporto ti ha sfiorato il sospetto che Peter potesse inventare una scusa per tagliare la corda, e anche se non sei entusiasta di averlo con te non ti piace l’idea di perderti un diciassettenne in piena notte in un autogrill sulla statale.

Il posto è di grandezza media e non particolarmente pulito. Borbotti una parola di saluto all’uomo dietro il bancone ed entri nel bagno degli uomini ignorando il suo sguardo che ti segue fino alla porta. Al momento non ti importa granché di passare per pervertito.

Nel bagno la luce è spenta e l’interruttore non funziona; entri lentamente, muovendoti guardingo nella poca luce che filtra da una finestrella in alto.

«Peter?»

Nessuna risposta. Poi in un angolo sotto un lavandino noti lo zaino di Peter con i suoi vestiti ficcati dentro alla rinfusa e la coperta che gli hai dato. Dentro il lavandino c’è un coltello con la lama bagnata, come se qualcuno l’avesse lavato sotto il rubinetto.

«Peter?» Sì, è preoccupazione quella, genuina e viscerale come un pugno allo stomaco.

Se avesse lasciato l’autogrill uscendo dal bagno l’uomo al bancone l’avrebbe sicuramente visto. Non può essere scomparso nel nulla.

Quando la prima goccia ti bagna le labbra, ti asciughi la bocca sul dorso della mano pensando che sia acqua colata da una crepa nel soffitto. Poi ne cade un’altra, e subito dopo un’altra - e tu guardi la tua mano e ti rendi conto che non è acqua, ma un liquido scuro e denso che ti appiccica le dita e non fa odore. Alzi gli occhi, senza capire, e Peter è lì, in piedi a mezz’aria con la testa schiacciata contro il soffitto come se il suo corpo volesse attraversarlo fisicamente. Ha addosso altri vestiti, la manica sinistra ripiegata fino al gomito, ed è dalla sua mano che sgocciola quel liquido che ti ha colpito la faccia e che adesso riconosci come sangue.

«Mi dispiace, io non… Aiutami, per favore» balbetta, cercando di tendersi verso di te, ed è disperato e ridicolo al tempo stesso a fluttuare lì contro il soffitto come una marionetta tenuta a mezz’aria dai fili.

Fantastico, Nathan. Un altro gigantesco problema incapace di controllare i suoi poteri è inciampato in mezzo alla tua vita. Dio pensa proprio a tutto.

Allunghi un braccio, ma è troppo in alto e non arrivi neppure ad afferrargli un piede, e allora getti un singolo sguardo alla porta e ti rassegni a fare una cosa che non fai da più di cinque anni.

Un tempo potevi superare senza fatica la barriera del suono, ma adesso tutto quello che ti serve è salire verso di lui, afferrarlo alla vita e trascinarlo giù dolcemente. Peter si aggrappa alle tue spalle con il cuore che gli scoppia nel petto, mormorando “Mi dispiace” e “Eri tu” e altro che non riesci a capire perché ha la faccia premuta contro la tua giacca.

«Che ti sei fatto al braccio?» gli domandi nell’istante in cui rimettete piede sul pavimento. Gli tiri di lato il polso, ma anche nella penombra riesci a vedere che non ci sono tagli. La pelle è perfettamente liscia, per quanto lavata di sangue: una chiazza lunga fino alle punte delle dita e larga quasi quanto il polso, come se il sangue fosse colato da un’incisione orizzontale a metà dell’avambraccio.

Peter deglutisce, abbassando gli occhi. «Mi… mi dispiace. Stavo solo… stavo facendo una prova, e poi mi sono ritrovato là sopra. A volte, quando prendo un potere nuovo, io… non riesco a controllarlo subito. Mi dispiace,» alza lo sguardo, «Nathan.»

Dovresti arrabbiarti, perché è un mocciosetto idiota che pensa che i suoi poteri siano un gioco, e che ti piaccia o meno ora è tua la responsabilità di evitare che si faccia ammazzare; non l’hai chiesta, non l’hai voluta, ma ora è tua, e l’unica cosa certa è che te ne verranno solo guai.

Invece gli appoggi una mano sulla spalla e ti limiti a un sospiro.

«È tutto a posto. Ci sono io. Ora raccogli la tua roba e ce ne andiamo.»

Ficcate tutto dentro lo zaino, i vestiti, la coperta, il coltello. Asciugate anche una macchia di sangue schizzata sul pavimento. Se c’è una cosa che è meglio evitare, è lasciare tracce di DNA in giro per il Texas.

Quando passate di fronte all’uomo al bancone, metti un braccio intorno alle spalle di Peter e te lo stringi al fianco, un gesto che lì per lì ti sembra paterno, come se fossi andato a riprenderti tuo figlio scappato di casa. Poi, ripensandoci, ti chiedi se non sembri piuttosto un’affermazione di possesso sessuale, e finisci col sentirti nauseato da te stesso.

Peter prende il tuo braccio e se lo sfila dalle spalle. «Va bene, papà, non sono più un bambino» borbotta a voce alta, precedendoti fuori dall’autogrill. Sulla porta ti lancia uno sguardo con un sorrisetto tutto storto e potresti giurare che gli luccicano gli occhi.

«Okay» gli dici quando siete ripartiti. «Che cos’è questa storia del potere nuovo che non riesci a controllare?»

Peter si allunga sul sedile, infilandosi di nuovo la felpa anche se è macchiata di sangue. «Be’, io sono una specie di spugna, credo. Assorbo i poteri degli altri. All’inizio funzionava solo quando la persona era vicina a me, ma poi la cosa si è… evoluta.»

«E il sangue…?»

«È mio.» Scopre il braccio ancora un po’ sporco, anche se l’ha lavato sotto l’acqua nel bagno dell’autogrill. Gratta via una macchiolina di sangue asciutto con le unghie. «A quanto pare sono diventato indistruttibile.»

«Me lo ricorderò quando mi farai venire voglia di prenderti a calci nel sedere» borbotti.

«Non è a calci che vorresti prendermi il sedere» replica Peter, sogghignando.

«Un’altra di queste battute e ti faccio volare dal finestrino, okay? Senza poteri.»

«Già fatto. Non è stata una bella esperienza» mormora Peter con una smorfia.

Tu lo guardi senza capire.

«Lascia stare» dice lui, scuotendo la testa.

+ + +

Arrivate a Houston in mattinata. Dopo l’incidente all’autogrill Peter sonnecchia per la maggior parte del tempo, anche se alla fine tu credi che si sia fatto un’ora di sonno al massimo. Quando il sole comincia a entrare dal finestrino brillandogli sulla faccia, Peter si rigira dalla tua parte grugnendo una protesta e continua ad agitarsi per mezz’ora, cercando di rintanare la faccia in un angolino lontano dalla luce. Alla fine si arrende e si rimette a sedere con un sospiro.

«Buongiorno» ti saluta, sbadigliando.

«Buongiorno.»

Alla luce del giorno, le macchie di sangue sulla coperta e tra i suoi capelli sono ancora più brutte a vedersi.

«Siamo quasi arrivati.»

«Fantastico» ti risponde, la voce piatta.

Tu guardi la strada e cerchi di ignorare i tuoi stessi pensieri.

«Conosci qualcuno a Houston?»

«No» ti risponde. «Ma non fa niente. Sono bravo a conoscere le persone.»

Tu taci per un momento, considerando la risposta, poi borbotti: «Immagino».

Peter ti lancia uno sguardo seccato. «Non è quello che pensi tu.»

«Leggi anche nel pensiero?»

«Forse.»

Fai una smorfia. «E non hai cercato di liberare le persone che tengo nel camion? Li sto consegnando al Comitato di Sicurezza.»

Peter ti guarda con gli occhi sgranati.

«Davvero?»

«No.»

È decisamente troppo facile con uno come Peter, ma la sua faccia riesce comunque a farti ridere. È così ingenuo, alla fine. Così piccolo. Il mondo se lo inghiottirà nel giro di due mesi e sputerà via le ossa.

«E comunque,» riprende dopo un po’, «non lo faccio quasi mai. Solo se devo spostarmi in fretta. Se… non so, se qualcosa è andato storto.»

«Che cos’è andato storto ieri notte?»

«Il tipo che mi ha portato fino a Odessa. Me lo sentivo che non si fidava. A un certo punto ha detto che scendeva per pisciare e invece è andato a chiamare il numero speciale. Ho beccato un autobus per Midland e sono salito al volo.»

Stringi il volante un po’ più forte. «Mi stai dicendo che hanno la tua descrizione e ti stanno cercando?» Dalle parti di Odessa?

«Non proprio.» Lo guardi. Non ti piace il suo tono. Peter sospira e si passa una mano tra i capelli, evitando il tuo sguardo. «L’ho seguito. Li aveva appena chiamati. Gli ho… cancellato la memoria.»

La tua espressione deve essere eloquente, perché Peter si affretta ad aggiungere: «Solo un pezzetto. Solo la parte in cui c’ero io. Un paio d’ore, niente di più».

Scuoti la testa. Non sai cosa dire. Intanto Peter continua: «Io… faccio così, di solito. Prima di andare via, cancello l’ultimo pezzo di memoria. Ma faccio attenzione, non tocco nient’altro. È che… non posso rischiare che si ricordino la mia faccia.»

«Perché me lo stai dicendo?»

Il sorriso di Peter è breve e triste. «Tanto non te lo ricorderai, dopo.»

Dovresti incazzarti, e all’inizio lo fai. Ti chiudi in un silenzio nervoso, con la rabbia che ti ribollisce dentro, mentre ti chiedi che diritto abbia questo ragazzino di giocare col tuo cervello e decidere cosa toglierti e cosa lasciarti tenere. Ma è una sensazione breve come la fiamma di un cerino, e quando svanisce ti resta solo la consapevolezza che alla fine, quanto tutto sarà andato, non ti importerà più nulla di lui, se sarà vivo o morto, perché l’avrai dimenticato. È quello che cerchi da cinque anni, in fondo. La possibilità di dimenticare, dissolvere le spine conficcate così a fondo che non hai più speranza di estirparle.

«Mi dispiace» mormora Peter, mentre entrate a Houston. «Davvero. Davvero, Nathan.»

«Che cosa vuoi che ti dica?»

«Che… non sei arrabbiato.»

«Non sono arrabbiato.»

«Ma lo sei.»

«No, non lo sono.»

«Sì che lo sei. Sei arrabbiato con me.»

Sospiri, stanco. Hai bisogno di una dormita. «Non sono arrabbiato, okay? Non ne vale la pena. Tanto non mi ricorderò neanche questo. E vuoi sapere la verità? Non me ne importa nulla.»

Quando arrivi allo stabilimento per la consegna, ti volti e Peter e le sue cose sono scomparse, ma i tuoi ricordi sono ancora intatti. O almeno credi. Non hai modo di verificare.

+ + +

Verso le dieci sei in una camera di motel a Houston, un posto economico ma pulito - se per pulito intendi che non ci sono scarafaggi dietro le tende e che, oh, in effetti ci sono le tende. Ormai lì ti conoscono. Sei un tipo abitudinario, e quando hai consegne da fare a Houston vai sempre nello stesso posto.

Sospetti che la signorina alla reception abbia fatto un pensierino su di te, ma anche se la vedi ogni mese ricordi a stento che faccia abbia.

Butti la sacca col cambio di vestiti sul pavimento e ti infili nella doccia. L’acqua bollente ti aiuta a toglierti di dosso la rigidità provocata dal gelo notturno, trasforma parte della stanchezza in torpore e lava via i cattivi pensieri. Sei solo come sempre. Non è cambiato nulla. Ti tiri una sega ripensando al pompino di ieri, ma l’eccitazione va e viene e quando esci dalla doccia sei più stordito che soddisfatto.

Il momento migliore è quando appoggi la faccia sul cuscino e ti tiri le coperte addosso. Mentre scivoli dalla veglia al sonno, galleggiando a metà strada, per qualche minuto puoi dimenticare tutto quello che è stato. Non hai neppure bisogno dell’alcool. A volte gli incubi ti aspettano dall’altra parte, ma finché resti nel limbo è tutto incredibilmente privo di dolore. È tutto perfetto.

Stai dormendo da forse dieci minuti quando qualche stronzo bussa alla tua porta, svegliandoti. Lo ignori la prima volta, la seconda, sperando che se ne vada, ma il bussare tace e riprende dopo un minuto, più insistente. Ti alzi a piedi nudi sulla moquette, in maglietta e boxer, borbottando contro l’inverno, i rompicoglioni e il mondo che intravedi a fessura tra gli occhi mezzi chiusi.

«Ciao.»

Appoggi un braccio contro il muro, passandoti una mano sulla faccia. Col sonno le sensazioni tendono a mischiarsi e confondersi, ma hai un’idea che ci sia del sollievo, lì in mezzo, da qualche parte. Un vago sollievo che ti riscalda, nonostante tu stia congelando mezzo nudo sulla soglia della porta.

«Che ci fai qui?»

«Ho pensato che visto che non voglio che ti dimentichi di me, tanto vale lasciarti un bel ricordo» risponde Peter, col suo solito sorrisetto storto.

Stai ancora pensando a cosa rispondergli quando Peter oltrepassa la soglia, ti appoggia una mano tiepida sulla spalla e si tende verso di te per baciarti. Con la mano libera spinge alla cieca la porta. Tutto il suo corpo è caldo e morbido e i vestiti frusciano mentre si stringe a te, tastandoti e infilandoti la lingua nella bocca.

«Aspetta. Peter… aspetta.»

Gli prendi il viso tra le mani, confuso ma decisamente sveglio, adesso. Peter ha i capelli ancora incrostati di sangue e una macchia vicino all’orecchio.

«È tutto a posto. Io ti voglio, Nathan. Davvero. È solo questo» mormora Peter, le guance accaldate.

Lo baci tu una volta, un contatto breve sulle labbra, senza lingua. Lo vuoi e sai che non dovresti, ma è lì e ti si offre con tanto candore che non sai come fare a non allungare una mano e prendertelo. È lì. È tuo. Vuole essere tuo. E tu non dovresti farlo, ma lo vuoi.

«Dammi un minuto, okay?» Gli scosti i capelli dalla faccia. «Vai a farti una doccia.»

Peter fa per protestare, poi sembra capire, annuisce e ti bacia un’altra volta prima di scivolare verso il bagno. Si spoglia lungo la strada, sicuro che tu lo stia seguendo con lo sguardo, lascia la porta aperta e infine entra nudo nella doccia.

Con le tende tirate a notte che lasciano filtrare pochissima luce, il lampadario del bagno è un faro giallo che apre uno squarcio nella penombra della stanza. Tu sospiri, cercando di raccogliere i pensieri, ma la tua mente è un cumulo di sentimenti contrastanti e non riesci a prendere nessuna decisione. In fondo è passato molto tempo dall’ultima volta che ne hai presa una. Alla fine ti infili di nuovo sotto le coperte e ti rassegni ad aspettare che le cose vadano avanti da sole.

Quando Peter esce dal bagno sei voltato sul fianco e gli dai la schiena, perfettamente sveglio. Nel silenzio, senti il click dell’interruttore, i passi attutiti, un lieve e ritmico sgocciolio sulla moquette e il rumore della cerniera dello zaino che viene aperta - o chiusa.

Peter punta un ginocchio sul materasso, che cigola, e ti appoggia un bacio lento e caldo nell’incavo del collo. La tua barba fruscia contro la sua pelle e i suoi capelli umidi ti bagnano la guancia. Sospiri leggermente, solo per fargli capire che sei sveglio, e Peter ti punta una mano sulla spalla e ti rivolta gentilmente sulla schiena.

Si sfila l’asciugamano dai fianchi e lo getta via, entrando nel nido caldo delle coperte con la metà superiore del corpo ancora gocciolante. Si sdraia sopra di te a gambe larghe, il corpo che cerca di aderire al tuo il più possibile. È magro e nervoso ed eccitato contro di te, con addosso il tuo stesso profumo di shampoo e bagnoschiuma a poco prezzo.

«Dio, potrei essere tuo padre» mormori, pettinandogli i capelli indietro.

Lui ti bacia la gola e ti si struscia contro, respirandoti sul collo. «Ma non lo sei. Non c’è niente di male se mi vuoi scopare. Vuoi?»

«Sì» mormori. La sua mano afferra l’orlo dei tuoi boxer e li tira giù fino a mezza coscia, scoprendo la tua erezione.

È deciso e insicuro al tempo stesso, e tu lo trovi splendido, tenerissimo, perché è solo un ragazzo mentre tu sei un uomo e senti tutta la sua paura di sbagliare. Chiudi la tua mano intorno alla sua e lo guidi per un po’, mormorandogli che così va bene, così ti piace, e lui sorride e ti bacia sfregandosi contro il tuo fianco.

«L’ho fatto una volta» bisbiglia, il respiro incerto, guardandoti negli occhi e non guardandoti, come se si vergognasse. «Ma tu fai piano, okay?»

«Ti ha fatto male?»

Peter scuote la testa, ma tu gli appoggi una mano su una natica e questo basta a farlo irrigidire come se gli avessi schioccato un colpo di frusta. La stringi gentilmente nel palmo, attirandolo un po’ più vicino, e inizi a massaggiargli l’interno della coscia con le punte delle dita.

«Non ti faccio male» sussurri. «Stai tranquillo.»

Peter annuisce e respira vicino alla tua bocca, baciandoti l’angolo delle labbra. Si rilassa immediatamente, docile, e quando gli suggerisci che forse è meglio se tu passi sopra, scivola sulla schiena senza una parola.

Sei più a tuo agio, così. Peter ti accarezza un braccio, il torace, l’addome, non del tutto certo di quale sia il prossimo passo, poi riprende a masturbarti. Tu allontani gentilmente la sua mano e la appoggi sul materasso.

«Ho sbagliato?»

«No. Non ti preoccupare. Pensiamo prima a te, okay? Rilassati.» Lo prendi nella mano e Peter sospira piacevolmente, socchiudendo gli occhi. Si inarca piano verso di te, verso il tuo palmo, ed è una delle cose più dolci che credi di aver visto in tutta la tua vita.

«Non… non mi fare venire subito» mormora, la voce spezzata. «Voglio tenerlo per dopo. Mentre mi scopi.»

Tu sorridi anche se non c’è niente da sorridere, perché il tono di Peter è incredibilmente serio, e tu non vuoi che pensi che stai ridendo di lui. Ma Peter ha chiuso gli occhi e li riapre solo quando lo lasci e sposti le dita più in basso. Allora deglutisce e ti sussurra che sul comodino c’è qualcosa che dovrebbe aiutare. Tu alzi lo sguardo e scopri un tubetto di lubrificante e due preservativi.

Non si può dire che non sia un ragazzo previdente.

«Giri con questa roba nello zaino?» gli domandi, spremendo il liquido denso e freddo sulle dita. Lo massaggi per qualche secondo tra i polpastrelli per riscaldarlo.

«No, io…», si mangia un respiro quando inizi ad accarezzarlo, «li ho presi prima di venire qui. Per… per noi.» Quando spingi dentro un dito, si aggrappa alle tue braccia e piega il capo indietro sul cuscino, scoprendo la gola. Si morde il labbro inferiore con forza e tu vedi spuntare una goccia di sangue, ma quando la raccogli tra le labbra il taglio si è già rimarginato.

«Rilassati» ripeti, dolcemente, aggiungendo un altro dito. Peter trema sotto di te e ansima a voce alta, stretto e caldo di un calore febbricitante.

Quando ti prega di entrare, siete tutti e due al limite e Peter ha già afferrato un preservativo dal comodino e l’ha scartato coi denti, aiutandoti a metterlo. Tu gli sollevi una gamba e cerchi di fare piano, così piano che all’inizio quasi neppure ti muovi.

«Dimmi se ti faccio male» sussurri, leggermente a corto di fiato.

«No… no. Va bene, così. È… è bello. Ancora. Per favore, Nathan. Ancora.»

Non ricordi l’ultima volta che hai fatto una cosa del genere, non ricordi se è stato così. Sai solo che il corpo di Peter è tenero e stretto intorno a te e bollente, come se dentro bruciasse, e tu cerchi di controllarti fino alla fine ma un certo punto è troppo, e troppo forte la marea di sensazioni che ti monta dentro come un’onda e non riesci più ad arginarla.

Lui si stringe a te, ti pianta le unghie nelle spalle e nella schiena e ti chiede di più, ti chiede Ancora con quella voce di ragazzo dalle sfumature profonde, e tutto quello che puoi fare è accontentarlo e accontentare te stesso allo stesso tempo, perché volete la stessa cosa, ed è nuovo e banale e meraviglioso che ti stia capitando tutto questo, tutto a te e tutto insieme.

È improvviso e struggente come la voce di Peter quando si abbandona esausto a te, e apre gli occhi e ti guarda venire a tua volta come se fossi la cosa più sorprendente che gli è mai capitata nella vita.

Deve essere il tuo stesso sguardo, pensi. Poi l’orgasmo ti porta via e non pensi più niente.

+ + +

«Pensavo che mi avresti cancellato la memoria.»

«Volevo farlo. Ma poi… non lo so.» Sospira. «Nessuno si ricorda di me. Neanche mia madre sa chi sono.»

«Neanche tua madre…?»

«L’ho fatto per proteggerla.»

Gli accarezzi lentamente i capelli, gli occhi socchiusi. Hai sonno e vorresti dormire, ma dentro di te hai paura che se ti lasci andare Peter scomparirà di nuovo.

«Voglio solo che qualcuno pianga, se muoio.»

«È quello che vogliamo tutti.»

Lui alza la testa, gettandoti uno sguardo. «Tu piangeresti se io morissi?»

«Sì» rispondi calmo.

Peter torna ad appoggiare la guancia sulla tua spalla. «È una cosa brutta da dire, vero? Io non voglio che la gente stia male per me. Voglio solo… non lo so. Scusami. È una cosa deprimente.»

«Non è una cosa brutta. E non è deprimente.»

Peter si muove leggermente contro di te, a disagio. «Loro ti mancano, vero? Io potrei… Se tu volessi, io potrei aiutarti. Farei attenzione. Non toglierei nient’altro.»

La risposta ti esce dalla bocca prima che tu abbia avuto tempo di pensarci, ed è una specie di rivelazione anche per te. «Poi nessuno piangerebbe per loro.»

Peter stringe la tua mano sul materasso e mormora, pianissimo: «Non voglio che tu stia male».

«Va bene così. Ci sono abituato.»

Gli appoggi la mano sulla schiena, tracciando il disegno delle sue vertebre con le punte delle dita, e Peter sospira contento come un gatto.

«Se dormo un paio d’ore riesci a restare fermo dove ti ho lasciato?»

«Penso di sì. In questo letto non c’è molto spazio per girarsi, comunque.»

«È un motel. La gente non ci viene per dormire.»

«E tu sì?»

«Se la smetti di parlare, forse.»

Peter sbuffa e borbotta qualcosa di cui cogli solo la parola “gratis”. Poi si tira su per posarti un bacetto sulle labbra e si rimette comodo.

Riesce a stare zitto per un minuto, forse due.

«Nathan?»

«Mmm.»

«Posso restare con te?» La sua voce suona pacata e al tempo stesso tesa. Senti le sue dita accarezzarti il polso, l’avambraccio, come se fosse incapace di restare completamente fermo. «Ti pago facendo sesso con te tutte le volte che vuoi» aggiunge, tentando di scherzare. «Che ne dici?»

«Non lo so» borbotti, aprendo un occhio. «Non sei questo granché a letto.»

Peter si zittisce, ritirando la mano dalla tua, e per un istante ti sembra rimpicciolirsi contro di te; il suo cuore comincia a battere contro le tue costole come un tamburo. Tu gli passi le dita tra i capelli e lo attiri un po’ più vicino, se è possibile.

«Ne possiamo parlare quando sono sveglio? Ho dormito tre ore l’ultima volta e non ricordo quand’è stata.»

«Sì. Scusami» ti risponde piano.

«Peter? Non fare la ragazzina. Stavo scherzando.»

«Non faccio la ragazzina.»

«I tuoi capelli non sono d’accordo.»

«Se mi faccio scopare di nuovo mi dai i soldi per il barbiere?»

«Se ti do i soldi per il barbiere mi lasci dormire?»

«Sì. E ci metto un pompino omaggio.»

«Grazie. Dormi.»

Prendi sonno coi capelli di Peter che ti solleticano il collo, e stavolta non ci sono incubi dall’altra parte.

fic, language: italian, fic: heroes, series: you can sleep, challenge: syllables of time, pairing: nathan/peter

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