Titolo: Shattered memories
Rating: Giallo
Genere: Generale, Introspettivo
Personaggi: Alice Liddell, Cheshire
Wordcount: 1208 (
fiumidiparole)
Prompt: 34. Incubo @
500themes_ita + 04. Cornice dal vetro rotto dalla
mia cartellina per la
Maritombola #4 @
maridichallengeNote: Gen
Il crepitare del fuoco diventava sempre più forte ed il fumo si stava sostituendo rapidamente all'aria respirabile, trasformando quella casa in uno strumento letale anche per chi fosse eventualmente riuscito a scappare alla carbonizzazione.
Alice iniziò a tossire, dapprima piano e poi sempre più forte, fino a sentire fitte dolorosissime ai polmoni. Gli occhi iniziarono a lacrimarle a causa del fumo che le arrivava sempre più vicino.
«Salvati, Alice. Scappa finché puoi...».
Il fuoco lambiva la porta della sua cameretta e l'acre fumo nero opprimeva l'aria e anneriva il soffitto e le pareti.
Le grida di paura e dolore della famiglia riecheggiavano ancora nella testa della piccola Alice Liddell nonostante nella realtà si fossero spente ormai parecchi minuti prima, lasciando un inesorabile silenzio interrotto solo dal crepitio delle fiamme. La bambina se ne stava raggomitolata in un angolo della propria camera da letto con il suo coniglietto bianco di pezza ben stretto al petto. Quel peluche era l'unico oggetto che ancora costituiva un filo che legava la fanciulla alla vita tranquilla che aveva condotto fino a quella sera e che adesso stava venendo annichilita totalmente dalle fiamme.
Il corpicino esile e fragile di Alice tremava per la paura ed i suoi grandi occhi verde smeraldo erano colmi di un terrore profondo e strisciante. Le sue pupille eccessivamente dilatate schizzavano da un lato all'altro della stanza come se temesse di veder apparire un mostro da un momento all'altro.
Le sue labbra tremavano e si muovevano, ma senza emettere alcun suono. Le si leggevano sul labiale solo poche e semplici parole: «Madre... padre... Lizzie...».
Il crepitare del fuoco diventava sempre più forte ed il fumo si stava sostituendo rapidamente all'aria respirabile, trasformando quella casa in uno strumento letale anche per chi fosse eventualmente riuscito a scappare alla carbonizzazione.
Alice iniziò a tossire, dapprima piano e poi sempre più forte, fino a sentire fitte dolorosissime ai polmoni. Gli occhi iniziarono a lacrimarle a causa del fumo che le arrivava sempre più vicino.
«Salvati, Alice. Scappa finché puoi...».
Il suo gatto nero - che l'aveva fissata dal davanzale della finestra aperta per diversi minuti da quando l'incendio era scoppiato - adesso era diventato un gatto più grosso, grigio a strisce nere, emaciato fino ad apparire come lo spettro del felino florido che doveva essere stato un tempo e con lo scheletro ben visibile al di sotto del sottile strato di pelle e pelo. Un anello d'argento scintillava appeso al lobo del suo orecchio sfrangiato. I suoi occhi gialli erano vispi e coscienti ed il suo sorriso a metà tra lo scherno ed il malvagio.
Alice lo fissava piena di spavento, sconvolta come se avesse appena visto l'uomo nero sgattaiolare fuori da sotto il letto per aggredirla.
«Oppurrre... vuoi combattere?» soggiunse il gatto alla sua precedente affermazione, allargando il suo già grande sogghigno.
Ed in un istante Alice era grande, la ragazza uscita dal manicomio che viveva a metà tra la realtà di Londra ed il Paese delle Meraviglie nella sua mente. Il suo vestitino da notte era diventato l'abito azzurro con il grembiule sporco di sangue e nella mano libera stringeva la sua Lama Vorpale. Il coniglietto pendeva inerte dal suo braccio sinistro.
La stretta sul manico della sua arma le faceva male. Il manico le tagliava la carne ed il sangue le rendeva scivoloso il palmo della mano, prima di colare sul pavimento. Non capiva perché le facesse male: stava impugnando l’elsa, non la lama; tuttavia, non indagò sul motivo di ciò.
I suoi occhi erano colmi di severità ed il cipiglio assai cupo, in contrasto stridente con la paura stravolta della sua se stessa bambina. Dal solo modo di porsi sarebbero parse due individui completamente diversi agli occhi di uno sconosciuto.
Le sue pupille si posarono sul gatto scheletrico innanzi a lei con rinnovata consapevolezza e sicurezza.
«Cheshire...» disse, come se stesse parlando con un amico di vecchia data «Dov'è il pericolo ora...?».
Il felino socchiuse le palpebre trasformando lo sguardo in uno di - almeno apparente - malvagio divertimento e compiacimento; girò la testa verso la porta mangiata dall'incendio e disse: «Lì fuori, Alice... oltre l'Inferrrrno...».
Alice si svegliò nel suo letto nell'orfanotrofio del Dottor Bumby. Il buio della stanza dove dormiva da sola - tutti gli altri bambini non volevano dividere con lei la camera, perché tutti la reputavano ancora matta da legare, non che a lei importasse quanto sana o meno la reputavano quei piccoli mascalzoncelli problematici - era rischiarato labilmente dalla luce naturale che entrava dalla finestra.
La coperta che aveva addosso le era scesa fino a metà del suo corpicino gracile e le sue gambe vi si erano avvolte più e più volte.
La mano che teneva sotto il cuscino le faceva terribilmente male, anche se non riusciva a capire perché - ed era lo stesso dolore che aveva provato anche nel sonno.
Alice si guardò attorno con attenzione: niente fuoco, niente gatti sogghignanti.
«Era solo un incubo...» sussurrò con un istantaneo moto di sollievo, sedendosi sul materasso.
Non era la prima volta che sognava la tragedia consumatasi anni addietro nella casa della sua famiglia ad Oxford, ma era la prima volta che terminava in modo così strano.
Cheshire e la se stessa adulta del Paese delle Meraviglie non erano mai stati coinvolti nei suoi incubi sul passato ed era intenzionata a non farne parola con nessuno - men che mai con Bumby, che come minimo le avrebbe prescritto nuovi farmaci o peggio e lei non aveva nessuna voglia di tornare a Rutledge.
Sollevò il cuscino per scoprire perché stava avvertendo dolore alla mano, accantonando in un angolo del suo cervello il ricordo dell'incubo.
Nella pochissima luce che riverberava nella stanza dalla finestra riuscì a distinguere i riflessi sottili ed irregolari delle crepe che si diramavano come i fili di una tela di ragno sul vetro della cornice che teneva sotto il cuscino. Alcuni frammenti di vetro erano usciti dal puzzle di pezzetti e giacevano abbandonati all'intorno della sua mano stretta a pugno.
Le crepe si diramavano a partire da esso. Alice lo sollevò ed aprì la mano, esaminandola da vicino: alcuni pezzetti di vetro le si erano conficcati nella carne ed avevano creato una moltitudine di piccole ferite puntiformi e sanguinanti.
Adesso si spiegava anche il perché del dolore e del sangue che aveva avvertito a quella stessa mano durante il suo incubo. Era stata una proiezione mentale di una sofferenza fisica.
Passò ad esaminare tristemente la cornice rotta: la foto all'interno era intatta, per fortuna, anche se la ragnatela di crepe la rendevano più macabra. Quella fotografia era l'unico ricordo che le era rimasto della sua vecchia vita distrutta irreparabilmente: rappresentava tutti e cinque i membri della sua famiglia riuniti assieme. Alice era felice di vedere che non si era strappata né rovinata.
«Dovrò solo comprare un'altra cornice...» sospirò tra sé mentre con le dita cercava di rimuovere le schegge di vetro: voleva assolutamente salvare il suo ricordo più prezioso.
I polpastrelli le si riempirono di taglietti sanguinanti e doloranti, ma lei non vi fece minimamente caso: il suo scopo era molto più importante di un paio di inutili graffietti. A quelli avrebbe benissimo potuto pensare l’indomani mattina.
Alice rimosse il vetro a discapito delle sue povere mani e riuscì a salvare la sua fotografia, che contemplò per pochi attimi, prima che gli occhi cominciassero a dolerle per lo sforzo di vedere con una luce scarsissima.
Ripose l’oggetto al suo posto sotto il cuscino senza la cornice e vi posò delicatamente sopra la mano sana, adagiando su quest'ultima il guanciale: voleva tornare a dormire prima che qualche piccola peste sveglia per caso la sorprendesse.
Si sdraiò di nuovo sul materasso e lasciò la mano ferita e sanguinante penzolare fuori del letto simile all'arto inerte di un cadavere, così da non sporcare le lenzuola, quindi chiuse gli occhi e rimase in attesa che il sonno sopraggiungesse di nuovo.