[RPF] Ci son specchi che a quest'ora sono sempre i più sinceri (Becksillas)

Jan 23, 2011 00:06

Titolo: Ci son specchi che a quest'ora sono sempre i più sinceri
Fandom: RPF Real Madrid/LA Galaxy
Personaggi/Pairing: David Beckham/Iker Casillas, (side) Xabi Alonso/Steven Gerrard, nominée Fabio Capello, Victoria Beckham, implicazioni Iker/Sara Carbonero, Sergio Ramos/Fernando Torres (qui dovete proprio guardar bene xD), più molta altra gente nominata di sfuggita
Rating: R
Conteggio Parole: 7200 (fidipu)
Avvertimenti: future!fic, angst come se piovesse, slash, divorzi - la solita solfa XD
Prompt: Anno zero per la Maritombola di maridichallenge.
Riassunto/Introduzione: Giugno-Luglio 2012. La Polonia e l'Ucraina ospitano i campionati europei di calcio. Sarà divertente.
Note: Weeee aaaaaall dreeeam of a team of Carragheeer's, teeeam of Carragheeeer's, team of Carragh-- uh? Scusate, momento di perdizione 8D
- Prima di tutto, sappiate che io di Fabio Capello so giusto lo stretto necessario (mentone, milanista, allena l'Inghilterra, è uno stakanovista, non sa l'italiano perciò figuriamoci come parla l'inglese); il ruolo che ha in questa fic è pessimo, lo so di mio, perciò mi scuso in anticipo con i suoi eventuali ammiratori; il fatto è che ce lo vedo, a fare quello che fa, principalmente perché il calcio è quello che è e Capello non lo conosco e quindi mi sembra carino presupporre cose sul suo conto xDDDDD Comunque è un ruolo di cazzo ma assolutamente marginale (LOL), perciò non è che mi sento in colpa, se è questo che stavate pensando \o\
- Perché in italiano non esiste un equivalente dello 'staring contest'? I am disappoint.
- Altrecosechedovetesapereprimadiiniziarealeggere: Madrid rispetto a Londra è a sud-ovest. Credo. LOL, le mie nozioni di geografia sono molto limitate, vado principalmente a naso. Però c'è da dire che ho un naso bello grosso *giggles*
- Per tutto il resto, c'è Mastercard vi rimando alla fine della fic PERCHE' OMG NE HO DI ROBA DA DIRE SU QUESTA COSA *ride*
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.



~ Ci son specchi
che a quest'ora sono sempre i più sinceri.

Ci son specchi che a quest'ora
sono sempre i più sinceri,
e vedi la frontiera da te.
Ma chi, ma chi, chi mi troverà?
Ma chi, ma chi mi proteggerà?
Ma chi, ma chi avrà cura di me,
in mezzo a tutto quello che c’è?
Ligabue e Mauro Pagani - Fine febbraio

È divertente, all’inizio, perché David si allena con la squadra ed è felice di rivedere vecchi amici, è felice di farsi prendere a gomitate da Gary perché "stai perdendo l’accento, Becks, ommioddio, stai perdendo l’accento, ora sembri un cazzo di americano!". È divertente perché in giro ci sono anche un po’ di facce nuove, e David non si stancherà mai del modo in cui i ragazzini lo guardano, come se non fosse vero, e poi avvampano, e inciampano nei loro stessi piedi e sembrano non avere il coraggio neppure di ricevere un suo assist.
È divertente, perché JT e Lamps sono sempre i soliti coglioni impagabili e sono ancora convinti che far impazzire Carra sia la loro missione di vita. È divertente perché il sorriso di Steven Gerrard è un po’ più triste dell’ultima volta ma è comunque lì, e David gioca a trovare ogni giorno le scuse più assurde per gettargli un braccio attorno alle spalle e dargli una testata leggera, per ricordargli che ci siamo passati tutti, Stevie, o almeno ci sono passato pure io, you’ll never walk alone. È divertente perché Capello continua a sventolare per il campo quel suo mento di granito, mentre abbaia ordini più o meno incomprensibili, e naturalmente Gary non ha smesso di avere ad ogni secondo una battuta nuova su di lui, ed è sempre estremamente felice di condividere la sua spiritosaggine col mondo.
È divertente, davvero, e anche se David non ha più vent’anni - anche se ci sono ossa, dentro di lui, che pesano come se fossero vecchie di millenni, - gli piace correre su e giù per l’Ucraina in maglia bianca, coi tre leoni sul cuore e il fantasma di una fascia di capitano sul braccio.

*

Diventa molto meno divertente, e molto in fretta, quando arriva lo schiaffo di Capello. David ricorda pochi dettagli spaventosi - una vertigine di colore, nella sua testa, e poi le guance che bruciano come carboni ardenti, e sa che prima stavano festeggiando in mezzo al campo per una vittoria particolarmente bella, e aveva Gary appeso al collo, o forse era Wayne; ricorda che l’intero stadio è piombato nel silenzio totale, tanto che quasi si sentiva il battito impazzito del suo cuore rimbombare sulle gradinate. E poi ricorda di essersi accorto che non era il suo cuore, quello, e che nessuno era rimasto davvero zitto; ricorda il mento di Capello, ancora, soltanto quello, non gli occhi del mister né le sue parole né niente, soltanto la pelle tesa sul suo mento, e una scheggia della linea dura della sue labbra.
Ricorda di aver pensato, in mezzo al Lemberg impazzito - in mezzo al mondo impazzito, alla sua vita piena di crepe e sul punto di saltare in mille pezzi, - che le mani di Steven, strette sulle sue spalle, gli avrebbero lasciato dei lividi.

*

Non è divertente, e Iker non lo sapeva. Potrebbe giurarlo su qualsiasi cosa, sulla propria testa, sulla salute dei suoi cari, sul suo posto da titolare nel Real, Iker non lo sapeva.
Sta giocando anche lui, quando tutto il karma negativo accumulato da David nelle sue vite precedenti decide di venire a riscuotere il suo debito - perché non c’è altra spiegazione, davvero, non c’è altra spiegazione, - e sta giocando una partita bella, bellissima, la sua centododicesima in maglia rossa, parando tiri imparabili e godendosi la goleada paurosa di Fernando, i cori entusiasti dello stadio.
Intuisce che c’è qualcosa di strano quando, poi, la partita finisce e Del Bosque passa tre quarti d’ora al telefono, invece di mettersi a urlare in mezzo allo spogliatoio perché sono dei ragazzini indisciplinati e non arriveranno in albergo in tempo per la cena, se non si spicciano a cambiarsi e salire su quel cazzo di pullman; si sbarazza in fretta del pensiero, comunque, perché coccolare il niño è sicuramente più divertente che impazzire dietro alle telefonate del mister.
Durante la cena, poi - «Ha visto che ce l’abbiamo fatta?», ha riso Sergio, quando Del Bosque gli è passato accanto per andare a prendere posto a capotavola, e il mister ha sbuffato e gli ha dato un amichevole scappellotto sulla nuca, ottenendo il solo risultato di far ridere Sergio con più convinzione, - Xabi si sfila il cellulare da una tasca - nessuno se ne stupisce davvero, e Iker pensa al proprio telefono, ancora sepolto da qualche parte nel borsone che ha stupidamente lasciato in camera un minuto fa, e si morde le labbra, perché ha voglia di sentire David, ha bisogno di sapere che sono passati anche loro e si sente scoppiare, - scrive un messaggio, legge la risposta, si acciglia, scrive qualcos’altro, tamburella le dita sul bordo del tavolo e si morde le labbra e trattiene bruscamente il fiato quando arriva il secondo messaggio di Stevie, e a questo punto tutti quelli che ha intorno lo stanno guardando, preoccupati e un po’ spaventati, perché Xabi non è mai nervoso e una reazione così significa guai.
«Che succede?» chiede Iker, subito, sporgendosi sul tavolo per stringergli una mano attorno al polso, e non riesce a non notare il modo in cui Xabi evita di incrociare il suo sguardo, liberandosi della sua presa e aggrappandosi al bicchiere con la scusa di bere un sorso d’acqua. Xabi evita di incrociare il suo sguardo, ed è evidente che vorrebbe strangolarsi per il modo in cui non è riuscito a non far trasparire il suo turbamento e Gesù Cristo, tanto basta perché Iker abbia la certezza che qualcosa è andato storto. Gesù Cristo. «Xabi. Xabi, che è successo? Che ha detto Steven?»
«Niente panico, Iker. Non è possibile che non siano passati,» ragiona Fernando, seduto accanto a Iker, ma la sua calma e tutta la matematica del mondo non basterebbero a tranquillizzare Iker neppure tra cent’anni, perché c’è un milione ancora di cose che potrebbero essere andate storte - un infortunio, una rissa, un tifoso impazzito con una pistola e no, Iker, non vuoi veramente farti questo, smettila di pensarci, - e Xabi si ostina a non guardarlo e cazzo, cazzo, cazzo, potrebbe semplicemente dire all’universo cosa c’è che non va invece di tenerlo sulle spine così, no? No?
«Si sono qualificati tranquillamente, infatti,» annuisce Xabi, un po’ più composto di prima, un po’ più controllato, ma Iker sta per avere una crisi di nervi. Quasi. Di sicuro si odia per non essersene andato nel mezzo della partita, per non aver sentito nel sangue che qualcosa stava andando male, da David, qualsiasi cosa sia successa; si odia per non essersi fatto paralizzare da un presentimento, si odia per tutte le parate incredibili che ha fatto mentre a Leopoli chissà chi è esploso. Si odia. «È solo... è una faccenda un po’ delicata,» e Xabi abbassa la voce di un’ottava e poi di un’ottava ancora, tanto che Fernando e Iker devono allungarsi sul tavolo per cogliere le sue parole. «Non è il caso di parlarne davanti a tutti, anche se forse il mister domani farà un annuncio.» E il cuore di Iker sta già traboccando tragedia. «Sbrigati a finire quell’insalata di pollo, Iker, vuoi?»
Fernando si rilassa sensibilmente contro la sedia, perché se Xabi ha detto solo ad Iker di spicciarsi allora sarà qualcosa che riguarda David e basta, non è morto Carra né Glen e con ogni probabilità neppure Steven, e per quanto sia un pensiero egoista - per quanto sia un pensiero infantile e stronzo e anche immensamente cattivo, - Fernando non riesce a non sentirsi meglio. Iker neanche ci bada al fatto che il niño ha ricominciato a respirare, e fa del proprio meglio per finire la cena alla velocità della luce - ha lo stomaco annodato dalla paura, perché lo sguardo che ha Xabi è veramente terrificante, e mangiare è l’ultima cosa che vorrebbe fare, ma il mister sarebbe capace di scuoiarlo vivo e fargli una ramanzina di tre ore e mezza sull’importanza di un’alimentazione adeguata e Iker non ha proprio bisogno di perdere tutto quel tempo.
Xabi gli fa un cenno un po’ assente - il suo piatto è lucido come se fosse uscito in questo esatto istante da una lavastoviglie, - e poi, dopo essersi assicurato che già qualcun altro - almeno mezza dozzina di persone, a quanto pare, tra cui Del Bosque stesso, il che è ancora più spaventoso della faccia serissima di Xabi, davvero, - abbia lasciato la tavola, si alza e si ferma sulla porta, ad aspettare che Iker lo raggiunga.
Nell’ascensore sono miracolosamente soli, e Iker non riesce a tenere la bocca chiusa per più di un piano e mezzo.
«Che è successo?» chiede, le mani che prudono per la voglia che ha di tramortire Xabi, rubargli il cellulare e verificare da sé l’entità del guaio capitato all’Inghilterra. Dio mio, se David si è fatto male davvero è la volta buona che spacco le ossa a Papadopoulos. «Xabi. Xabi, che è successo?»
Xabi prende un respiro profondo - non può essere un buon segno, oh, Dio, non può essere un buon segno, - si passa brevemente una mano tra i capelli e guarda Iker dritto negli occhi. Non è un buon segno.
«Abbiamo fatto un’ottima partita, oggi,» dice. «Tu hai fatto un’ottima partita. Quando hai parato quei cinque tiri di fila pensavamo davvero che i tifosi avrebbero fatto crollare lo stadio e--»
«Dio mio, Xabi, sono sull’orlo di una crisi di nervi e non mi stai aiutando per niente,» esala Iker, e l’ascensore trilla allegramente per avvisarli che sono arrivati al loro piano. Xabi sospira di nuovo, Iker l’ha capito che vuole arrivare in camera prima di decidersi a sganciare questa misteriosissima, tragica bomba di notizia, e se una parte di lui gli è segretamente grata - se deve scoppiare in lacrime come una ragazzina preferisce farlo nell’ambiente circoscritto di una stanza d’albergo, non nel bel mezzo del corridoio, - c’è una ben più consistente fetta del suo cervello che vorrebbe veramente che Xabi la smettesse di torturarlo.
Per fortuna ci arrivano in fretta, a chiudersi la porta alle spalle - Iker pensa di aver cominciato a iperventilare, a un certo punto, ma Xabi è stato gentile, faccia-di-bronzo abbastanza da non dar segno di averlo notato, - e a questo punto Iker cede al panico, perché finché il carrello delle montagne russe continua a salire e salire e salire hai paura, d’accordo, ma il terrore bianco ti appanna la vista solo quando sei in cima e la discesa la vedi.
«Se si è rotto qualcosa non lo voglio sapere,» dice, sollevando le mani come se Xabi potesse sfilarsi dalla tasca della tuta David in stampelle e protesi di legno. «Se ha rotto qualcosa a qualcuno, anche qualcosa di importante, tipo l’osso del collo, e lo hanno arrestato, quello va bene, me lo puoi dire. L’Ucraina non ha la pena di morte, credo-- la California sì, ma l’Inghilterra no e David è ancora cittadino loro per cui non credo che sarebbe un problema. Se-- Dio, Xabi, se è successo qualcosa di meno grave di una di queste due cose e mi hai fatto praticamente morire d’infarto per una stronzata, ti prego chiama il tuo Stivigì e digli addio perché ti giuro che non rivedrai la luce del sole.»
Xabi lascia che si sfoghi, Iker sa che lo sta ascoltando appena, e quando il silenzio dura per più di trenta secondi si decide a riportare lo sguardo su di lui.
«Siediti,» dice, indicando il letto; Iker non ha la forza di opporsi oltre, e semplicemente si siede. «È una cosa un po’ complicata, e--»
«Quanto può essere complicata, una cosa che Steven ti ha detto in due messaggi?» lo interrompe, esasperato perché vuole solamente sapere, e Xabi sospira, avvicinandosi un po’.
«Mi ha mandato un link, col primo messaggio, per farmi leggere un articolo di giornale,» spiega, con tutta la pazienza del mondo, e Iker vorrebbe odiarlo, ma non ci riesce perché vuole solamente sapere. Dio. «Iker, è-- forse è meglio se guardi tu stesso.»
«Non mi stai aiutando, Xabi, non mi stai aiutando,» brontola Iker, in un mantra impazzito, e continua a ripeterlo per tutti i quaranta secondi netti che Xabi impiega a sfilarsi il cellulare dalla tasca, recuperare la notizia che gli ha mandato Stevie mezz’ora fa e mostrarla a Iker. Lui deve strizzare un po’ le palpebre per mettere a fuoco le lettere attraverso le lacrime, Dio, che gli inondano gli occhi; distingue a stento le parole David Beckham e outed by the tabloids e shocking pictures e reliable sources e is this the end of a legend? e non capisce, davvero. Non capisce.
«Cos- Xabi, che cosa...? Che significa?»
Xabi siede accanto a lui sul bordo del materasso, gli passa un braccio attorno alle spalle e copre lo schermo del cellulare con una mano, perché Iker stava scorrendo la pagina, curioso di vedere le shocking pictures, sperando di riuscire a capirci qualcosa.
«David è stato visto in un locale gay di Los Angeles. Più di una volta. Ci sono delle fotografie, e-- beh. Stamattina la notizia è stata resa pubblica. Nel peggiore dei modi,» bisbiglia; la sua voce bassa e gentile si riverbera morbida attraverso le ossa di Iker, e gli sembra impossibile che stia dicendo cose tanto terribili con una voce così bella. Vuole sentire gli strilli di Victoria, il pianto di Romeo, vuole che a parlargli sia la voce distorta e lontana di Sara, impersonale e fredda; vuole la risata cinica di un paparazzo, i bisbigli scandalizzati delle signore a modo, ma non la voce piena e calda e piacevole di Xabi, quella davvero non va bene. «Capello non-- non l’ha presa bene, Iker. Lo ha preso a schiaffi in mezzo allo stadio, subito dopo la partita. David ha segnato una doppietta, comunque. Forse è-- Dio, Iker. Forse è stata la sua ultima partita con l’Inghilterra. Non lo so. Nessuno sa niente, non ancora.»
Adesso è tutto chiaro, comunque. Chiaro e cristallino come tornare a casa e trovare lo zerbino inondato di sangue, il salotto un disastro di schizzi, e pensare: oh, hanno ammazzato la mia famiglia. Chiaro e inequivocabile come farsi bocciare all’esame della patente, e per cinque o trenta errori è la stessa cosa. Chiaro e irreversibile come scoprire che nel mondo reale il principe chiede a Cenerentola di ballare, ma non si sognerebbe mai di rincorrerne il ricordo in lungo e in largo per il regno.
«Dio mio,» soffia Iker, pianissimo, perché il fiato gli si spezza in gola, e Xabi lo stringe più forte, premendo la fronte contro una sua tempia. «Dio mio, devo chiamarlo.» E scatta in piedi, si lancia sul borsone abbandonato ai piedi dell’altro letto.
Xabi rimane a guardarlo; sta cantando, sottovoce, walk on, walk on, with hope in your heart, e neppure se ne accorge. Forse sta solo respirando.

*

David non risponde, e non è affatto divertente. Iker passa due ore a cercare di rintracciarlo, ruba persino dal cellulare di Xabi il numero di Steven, mentre Xabi è sotto la doccia, - e, davvero, con che coraggio lo convocano nella nazionale inglese, quando palesemente parla tutt’altra lingua? - ma sembra che nessuno abbia idea di dove David sia, e il suo telefono squilla a vuoto.
Decide di fare un ultimo tentativo, giusto per non andare a dormire con questo peso sullo stomaco - non che s’illuda di riuscire a dormire, comunque; ha così tanti pensieri che gli frullano nel cervello che dubita anche solamente di riuscire a mantenere la concentrazione necessaria a stare in piedi, in tutta onestà, - e non si stupisce quando, per l’ennesima volta, la chiamata finisce alla casella vocale. È tentato di lasciare un messaggio, ancora, ma non saprebbe cosa dire - a parte chiamami, stronzo, cazzo, chiamami, ma suppone che quaranta chiamate perse e tre alla hall dell’albergo siano sufficienti, - per cui attacca e sospira, rassegnandosi ad un’interminabile sfida col soffitto a chi distoglie lo sguardo per primo.
Sobbalza, quindi, colto di sorpresa, quando, un secondo dopo, il cellulare si mette a squillare come un pazzo, vibrandogli in mezzo al petto. Quasi lo fa cadere dal letto, nella foga di rispondere - David ha la sua suoneria personale, e il cuore di Iker sta praticamente rimbalzando da una parte all’altra della sua gabbia toracica per l’emozione.
«Ehi,» saluta, senza fiato, e si sono sentiti ieri a quest’ora, l’ultima volta, ma gli sembra una vita - e forse una vita è passata davvero, se deve dar credito a tutti i servizi televisivi che blaterano di come David Beckham non sarà più lo stesso, dopo oggi.
«Ciao, piccolo,» bisbiglia David, con una stanchezza nuova, e Iker vorrebbe potersi stringere alla sua schiena. «Scusami, stavo-- avevo bisogno di calmarmi, ho fatto un bagno un po’ lungo.» Sospira. «Stevie mi ha detto di aver parlato con Xabi, immagino che avrai...»
«Sì, sì, ma non-- Dio, David. Come stai? Che posso fare?»
David ride un po’, sembra esausto e Iker non vuole davvero trattenerlo al telefono, vuole che vada a dormire e stia tranquillo perché le cose si aggiusteranno - alla fine, in qualche modo si aggiusteranno, no? - vuole, in realtà, che domattina David si svegli e scopra che è stato tutto un sogno, magari scopra di essere ancora a Madrid, pronto a vincere qualche altro trofeo luccicante; non riesce a trovare dentro di sé il coraggio o la voglia di lasciarlo solo, però, e detesta di non potergli stare vicino fisicamente, di poterlo disturbare solo così, per telefono, stupido mondo.
«Intanto non ti preoccupare, Iker, d’accordo?» dice, e c’è un’ombra di forza, adesso, nella sua voce, di cui Iker non si riesce a spiegare l’origine se non col fatto che si tratta di David e David, anche se forse non lo sa e non lo vuole ammettere, è la persona più forte che Iker conosca. Più forte di Sergio, più forte di Xabi, più forte persino di Raúl, e Raúl è più forte di un toro. «Promettimi che non ti preoccuperai.»
«Come faccio a non preoccuparmi?» brontola Iker, in risposta; si preme una mano sulla faccia e trema quando si accorge di avere gli occhi ancora gonfi di lacrime. Fissando il soffitto, non ci aveva neppure fatto caso. «Mi dispiace doverti dare questa brutta notizia, David Beckham, ma arrivi tardi. Mi sto già preoccupando. Come faccio a non preoccuparmi?»
«Non lo so, almeno provaci,» replica David, e sembra sinceramente divertito, ma Iker sta cominciando a sospettare che sia tutta una farsa, e non gli va che David finga con lui. «Non c’è davvero nulla per cui tu debba preoccuparti. Andrà tutto bene, è solo... un incidente di percorso, o qualcosa di simile.»
«Un incidente di percorso,» ripete Iker, pianissimo, e non gli piace il modo in cui le parole suonano sulla sua lingua. Sanno di pretesto, di scusa raffazzonata all’ultimo minuto per tranquillizzare una madre, una fidanzata isterica, e Iker ha troppo orgoglio per tollerare di farsi trattare così - anche se si tratta di David, anche se sono entrambi stanchi oltre qualsiasi limite. Soprattutto perché si tratta di David, e perché sono entrambi stanchi oltre qualsiasi limite. «D’accordo. Ti dispiace smettere di parlarmi come se fossi completamente stupido, adesso? David. Ti prego.»
David sospira, un po’ a fatica, e Iker sente il suo cambiamento direttamente sulla pelle. Non è sicuro che gli piaccia - come fa a piacergli un David distrutto e spaventato?, - ma almeno è la verità. Fa male come una fiammata in pieno volto, ma almeno è la verità.
«Scusami. Sono solo-»
«-Esausto. Lo so. Posso immaginarlo. Però, ehi, io... sono qui per questo, sì?» Gli sembra la cosa giusta da dire, perciò lo ripete: «Sono qui per questo.»
David sospira ancora, più facilmente, stavolta. Iker sente un lieve fruscio di lenzuola, suppone si sia sistemato meglio sul letto. Immagina che potrebbe cullarlo a dormire facilmente, così, e l’idea non gli dispiace.
«Non so che fare,» gli confessa, alla fine, e Iker si sforza a cercare un tremito nella sua voce, ma non ne trova neppure l’ombra. David è forte. «Capello non mi farà più giocare. L’ha presa male davvero, ma almeno non può mandarmi a casa, credo. Victoria ha detto che chiederà il divorzio appena rimetto piede in America, il che è un motivo in più per rimanere qui più a lungo che posso. Farà il possibile per tenere i bambini fuori da tutta questa storia, ma non credo che-- beh. Ho già sguinzagliato gli avvocati,» Iker non sa neanche cosa voglia dire, sguinzagliato, neppure capisce la parola, «e domani ho una conferenza stampa, ho deciso di farlo, Iker, non ha senso nascondersi dietro a un dito, però... non lo so. Non so che altro fare. Non so che altro posso fare, e ho la sensazione di essermi perso un pezzo importante, da qualche parte.»
Iker non sa che dirgli - non sa neppure da dove cominciare un discorso qualsiasi, Dio, in questo momento non sarebbe capace neppure di discutere del tempo. Annaspa un po’, poi stringe forte gli occhi e gli pare di riuscire a pensare molto meglio.
«Hai giocato benissimo,» dice, alla fine, e gli sfugge un sorriso quando David ride. «Guarda che dico davvero. Il primo gol era incredibile, Dio, probabilmente non l’avrei saputo parare neppure io.»
«Aw, adesso mi stai lusingando, piccolo,» lo blandisce David, ma si sente che è un po’ più contento. «Ci avrei pure creduto, sai, se non me l’avessi detto proprio nel giorno in cui hai parato quelle cinque cannonate una dietro l’altra.»
«Ma che c’entra,» brontola Iker, fingendosi più offeso dallo scetticismo di David di quanto non sia realmente. «Erano tiri semplici, a parte il terzo, te lo concedo, tutti dritti sulla porta, un bambino di tre anni li avrebbe visti arrivare. Cannonate ’sto cazzo, davvero. Tu invece tiri a effetto, quella pallonata stupenda ha cambiato traiettoria all’ultimo momento, era un’opera d’arte.»
David rimane in silenzio per un bel pezzo, Iker non riesce a capire perché, quasi teme che si sia addormentato, quasi lo spera. Alla fine lo sente ridere di nuovo, impercettibilmente, però, e magari il suo cuore ha saltato un paio di battiti e poi li ha recuperati tutti di corsa, ma non è il genere di cose cui Iker presta attenzione, comunque.
«Va bene, penso di poterti credere,» decide David, e Iker sorride del sorriso che sente nella sua voce. «Grazie per avermi cercato, Iker, e credimi, l’avrei fatto io. Non è che non volevo sentirti. Volevo, voglio. Ho solo pensato che non fosse prudente, o cose del genere. Non voglio metterti nei guai, piccolo, non voglio davvero. Ma non so se posso farcela da solo.»
«Certo che puoi, coglione,» bisbiglia Iker, pianissimo. «Però non significa che devi.»
«Dio, Iker. Grazie. Non è neanche abbastanza, lo so, però grazie.»
«Sei un coglione, David. Sono qui per questo, te l’ho detto.»

*

Sono una barzelletta, e neanche una particolarmente divertente.
Volevo chiamarti non appena ho visto Capello venirmi incontro con quella faccia livida, e volevo chiamarti appena ho sentito il dolore sordo del suo schiaffo. Volevo chiamarti quando Carra e Lamps sono saltati fuori dal nulla e, senza sapere assolutamente niente, hanno cominciato ad urlargli addosso, a difendermi; so che gli stavano urlando addosso, lo so, ricordo le loro facce, le loro bocche spalancate nella stessa espressione, attorno alle stesse parole, ma non li ho sentiti davvero, perché volevo solo chiamarti.
Volevo chiamarti quando ho chiamato Victoria. Volevo chiamarti, mentre con tutta la calma del mondo ha riso di me e mi ha promesso il divorzio. Volevo chiamarti e dirti, «Ti amo». Io sono solo forza, e poi la forza mi è mancata e, Dio, quanto ho voluto chiamarti, quando Victoria è scoppiata a piangere e ha detto, «Avrei dovuto saperlo,» quando ha detto, «Mi dispiace.»
Volevo chiamarti, però ha chiamato il mio agente. Volevo chiamarti quando mi ha detto di chiamare gli avvocati, l’ufficio stampa, mia madre, mio padre. Volevo chiamarti quando mi ha detto di chiamare i bambini. Volevo chiamarti quando ho chiamato tutti, e non ho chiamato te.
E quando ti ho chiamato, non avuto neppure il coraggio di dirti che è soltanto te che chiamerei, quando precipitano gli aerei e il mondo va a fuoco e mi crolla da sotto i piedi.

*

È quasi divertente, il modo in cui le cose si sistemano. Non è facile, non è veloce, non è indolore, ma è quasi divertente perché è come se tutto fosse destinato ad accadere, cazzo. È come se il destino avesse sempre saputo che un giorno avrebbero divorziato, Becks e Posh, e quindi gli ha fatto stipulare quel contratto pre-matrimoniale; è come se il mondo del calcio avesse sempre sospettato che qualcosa non andava, nei gusti sessuali di David Beckham, e avesse di conseguenza usato la sua magia per fare in modo che il suo contratto con i Galaxy scadesse esattamente quando i Galaxy non avessero più saputo cosa farsene, di un giocatore tanto scomodo. Ogni minuscolo pezzo trova il suo posto nell’enorme puzzle che è la nuova, pessima vita di David - che torna a vivere a Londra, compra per una miseria un condominio di quattro piani che avrebbe dovuto essere abbattuto due settimane dopo, lo fa ristrutturare, e nel frattempo vive in una suite al Baglioni, partecipando a ricevimenti e raccolte fondi della comunità LGBT e un miliardo di cose altrettanto vuote, altrettanto importanti.
Ogni. Minuscolo. Fottutissimo. Pezzo.
Se David stesse guardando un film, si alzerebbe e applaudirebbe - per quanto sia stupido applaudire in un cinema, non è che gli attori sulla pellicola possono sentirti. Comunque, applaudirebbe, perché è tutto orchestrato per incastrarsi così perfettamente che, da spettatore, si sentirebbe oltremodo soddisfatto, come da un thriller labirintico che si conclude nel più lineare dei modi.
Il problema è che non si tratta di un film, è la sua vita e la vita non dovrebbe venir fuori come un mosaico perfetto e bellissimo e razionale, dovrebbe essere un quadro astratto, un disastro di tempera e pastelli come quelli che Brooklyn amava combinare sul pavimento del soggiorno, macchiato di amori giusti al momento sbagliato, di incroci mancati, guai che non si risolvono e persone che se ne vanno e non ci lasciano mai davvero.
David invece si guarda e vede un domino ordinato di eventi cascati a pennello, vede crisi risolte sempre nel migliore dei modi; lo specchio gli rimanda l’immagine di un uomo che è stato incredibilmente bello, è invecchiato ed è diventato assolutamente splendido. David si guarda e detesta le proprie spalle dritte, perché lo sa che il problema sta lì, nel fatto che la vita non l’ha piegato perché la sua schiena è troppo forte per lasciarsi sopraffare.
Bend it like Beckham, pensa, certe sere, quando è più amareggiato del solito, quando ha più alcol in corpo di quanto non gli piaccia ammettere, e sorride appena, accarezzando il vetro freddo della finestra che più di tutte guarda a sud-ovest.
Iker avrebbe apprezzato l’ironia della sorte.

*

Una delle cose meno divertenti in assoluto è il fatto che David non ha contatti con Iker da anni. È andato a diverse partite del Real, va al Bernabéu ogni volta che può, in effetti, ma non ha mai trovato il coraggio di ripercorrere la strada sempre troppo familiare per gli spogliatoi. O di chiamarlo.
La cosa meno divertente di tutte, comunque, resta il fatto che l’ultima volta in cui hanno parlato davvero è stata quella stracazzo di notte in cui il mondo ha deciso di mettersi a girare nel senso contrario. E David non ha neppure avuto il coraggio di dirgli, tutta questa forza che mi ritrovo, Dio solo sa come, tu me la rendi sopportabile. Solo tu.

*

È divertente, all’inizio, far finta di non stare male. È divertente concentrarsi come un matto sulle partite, giocarle con un entusiasmo imbarazzante, come se fossero nuotate nell’oceano in piena estate, respirando a pieni polmoni e prendendo ogni minuto al meglio, senza concedersi un attimo per pensare, per raccogliere tre o quattro indizi e accorgersi che, Iker, stai perdendo pezzi per strada e di questo passo, Iker, non ti rimarrà niente di te.
È divertente, perché a Iker non piace accorgersi di stare sbagliando tutto, e non gli piace neppure contare i giorni che passano senza che David si faccia vivo. Non gli piace, in generale, pensare a David, perché se lo immagina alle prese con il divorzio, a cercare una casa nuova, una vita nuova, magari un amore nuovo, e, beh, no, non gli piace. Perciò, semplicemente, non ci pensa, ed è più divertente, così. Sembra che tutti sappiano quello che sta facendo, sembra che tutti riescano a vedere la vanga con cui ha ammazzato Iker Casillas e se l’è seppellito in fondo al petto, ma Iker impara pian piano ad ignorare gli sguardi preoccupati di tutti i suoi compagni, perché sa che così andranno via: è successo con Sergio, con Xabi, succederà anche con lui.
È divertente, perché Iker sembra essersi sinceramente dimenticato che nessuno, neppure lui stesso, ha mai smesso davvero di preoccuparsi per Sergio, per Xabi, e che se nessuno li guarda ancora come se potessero rompersi da un momento all’altro, come se fossero fatti di cristallo, non significa che lo spogliatoio si sia rassegnato. Non significa che loro siano diventati di marmo, di legno o di piombo, da un giorno all’altro.
È divertente, perché Iker non ha più preoccupazioni e gioca persino meglio, alla faccia di quelli che lo credevano ormai arrivato alla perfezione. Ogni partita è un nuovo limite abbattuto, Iker colleziona assist e parate da orgasmo, segna persino tre gol durante la stagione regolare. (David Villa lo chiama da Barcellona, e ridendo dice che l’ultima cosa di cui avevano bisogno era un altro concorrente in classifica marcatori, grazie tante.)
La parte più divertente, però, è litigare con Sara, e dimostrarle con logica inattaccabile che le sue sono assurdità, Iker non è cambiato di una virgola. Quando alla fine Sara se ne va, sbattendo la porta, per sempre - Iker non ci crede più da un pezzo, ai ‘per sempre’, - le cose diventano un po’ meno divertenti, ma poco, e alla fine Iker si adegua alla sua assenza. Impara a non comprare il detersivo per i piatti che gli irrita le mani e a sopportare l’odore dell’ammoniaca per lavare a terra. Ricomincia ad andare ogni due giorni a fare la spesa, ricade nella piacevole routine dell’uomo single e non riesce a soffrirne. Si accorge, con un certo stupore, di averne sentito la mancanza.

*

Diventa molto meno divertente ogni giorno, il fatto che è all’assenza di David che proprio non riesce ad abituarsi.

*

Iker era bellissimo a ventidue anni sotto il sole torrido della sua Madrid, ed è bellissimo anche adesso che di anni ne ha quindici di più e, quasi timidamente, siede al tavolo di un lussuoso ristorante di Londra.
David arriva perfettamente in orario e si stupisce di vederlo già lì, adorabile nel suo disagio a malapena celato dietro un bicchiere di vino. Si ferma a guardarlo, addirittura, lo stomaco che si torce in un nodo piacevolissimo quando si accorge che, naturalmente, il viso di Iker sembra invecchiato giusto di uno o due giorni dai tempi in cui David lo rincorreva in lungo e in largo nel Bernabéu solo per pizzicargli le guance.
È bello. Stropiccia nervosamente un lembo della tovaglia, gli occhi piantati sul menù ma addosso l’aria di chi non sta leggendo davvero, piuttosto è perso in qualche pensiero lontanissimo, e David sente un’impazienza quasi infantile montargli nel petto. Si tortura il bottone della giacca, mentre copre in fretta i dieci passi che lo separano dal tavolo di Iker, e in qualche modo riesce a costringersi a non esaminare, a non riconoscere neppure l’esistenza del tremito che sente nel proprio battito cardiaco.
Iker si accorge di lui immediatamente, solleva quegli occhi incredibili dal tavolo e glieli pianta in viso, sgranati e scuri ed enormi e David dovrebbe prendersi a calci per aver perso così tanti anni.
«Ehi,» riesce solo a bisbigliare, maldestramente a corto di fiato, - Avrei dovuto respirare di più prima di entrare, sono un tale idiota, pensa, - ma Iker continua a fissarlo come se avesse visto un fantasma, forse l’ha visto davvero, e David comincia a sentirsi a disagio anche lui, perché aveva sperato in un abbraccio. Aveva sperato in un abbraccio.
Iker sembra riscuotersi, comunque, e si apre in un sorriso un po’ sghembo - David ha dei seri problemi a ricordarsi il solo concetto di aria, ma ci sta lavorando, - e si alza, gettandogli subito le braccia attorno al collo a premendoselo contro perfettamente.
«Ciao,» ride, contro il suo collo, e David si aggrappa a lui e poi con una mano liscia pieghe inesistenti sul suo maglione, che è sempre stata la sua scusa ufficiale per accarezzargli la schiena. «Dio mio, David, non sei invecchiato di un giorno.»
David ride, scostandosi di malavoglia da lui, ma rifiutandosi di andare più lontano di un paio di centimetri - il tavolo che David ha prenotato per loro è estremamente appartato, e se questo non bastasse il ristorante è di sua proprietà e oggi ha deciso di tenerlo chiuso.
«Rispetto a stamattina, sì, sono d’accordo,» dice, e Iker sbuffa e scuote piano la testa, dandogli, col naso, un lieve colpetto di rimprovero contro la guancia. David si domanda distrattamente quand’è che questa vicinanza tra di loro ha smesso di essere imbarazzante, e si corregge subito, con una punta di delusione nei confronti di se stesso, chiedendosi, più appropriatamente, quando mai questa vicinanza tra di loro è stata imbarazzante.
Ride, sorride; il cellulare di Iker, sul tavolo, trilla contento per avvisarlo di un messaggio in arrivo, e David pensa che magari è meglio sedersi. Lo lascia andare, solo per riprenderselo un attimo dopo, appoggiando gentilmente la mano sulla sua, sul tavolo, e quasi gli manca il respiro quando Iker, come se fosse la cosa più naturale del mondo, volta il palmo all’insù e stringe le dita attorno alle sue.
David rimane a guardare con una certa ammirazione la pelle di Iker premuta alla propria, ma non gli sfugge il suo sbuffo imbarazzato.
«Non fare quella faccia sorpresa,» brontola Iker, e quando David risolleva gli occhi su di lui lo vede controllare il cellulare e sorridere. «Xabi e Stevie,» dice. «Ci augurano un buon pranzo, e ti fanno sapere che il loro invito per oggi deve essere andato perso.»
«Accidenti alle poste della Regina,» replica David, dando una lieve strizzatina alla mano di Iker, che ride, intanto, spegne il cellulare e lo mette via. David ha fatto di meglio, non si è neppure dato il disturbo di prendere il proprio.
Un cameriere - George, a David piace assumere personalmente i suoi dipendenti, - porta discretamente a tavola un cestino di pane, e poi con un cenno brevissimo è già sparito di nuovo.
Iker pesca un grissino e lo sgranocchia in silenzio, guardando David con un po’ d’imbarazzo e forse curiosità, e quasi arrossisce quando David, di punto in bianco, sorride.
«Sono felice che il Real stia andando così bene,» dice, perché è David Beckham ed è forse la persona più indicata al mondo per gestire i momenti imbarazzanti. «Una splendida partita, sabato.»
«Ci hai guardati?» chiede Iker, con tanto d’occhi, quel che resta del grissino che capitombola nel piatto con un tintinnio lievissimo, e David ridacchia.
«Ero al Bernabéu,» ammette, e la presa delle dita di Iker attorno alla sua mano si rafforza per un secondo, affettuosa e sorpresa.
«Lo sapevo,» sghignazza Iker, però, e David fa del proprio meglio per non sollevare le sopracciglia in un’espressione scettica - ma non ‘fa del proprio meglio’ per davvero, perché eccola là, l’espressione scettica più affascinante che la storia conosca. «Penso di averti visto. Ma comunque me lo sentivo. Ci hai visti anche contro il Mallorca, no?» David annuisce, colpito, e Iker sorride. «Lo sapevo.»
Perché, ecco la verità: Iker ha voluto cancellare dalla propria vita il pensiero di David, e non è mai stato meno che tremendamente testardo, perciò, perfetto, ci è riuscito; la voglia di David, però, il bisogno, la nostalgia, la sua maledetta risata e il colore dei suoi occhi impresso come una fotografia nella sua testa - quelli non ha potuto, e forse non ha mai neppure voluto, perché non sono cose su cui ha un controllo, perché si tratta di David. E David è sempre, sempre, sempre stato più forte; più forte di Sergio, di Xabi, di Raúl. Più forte del tempo, della distanza, del silenzio. Più forte persino di Iker.

*

Per i primi sei mesi, David ha tenuto il conto delle cose che avrebbe voluto raccontare ad Iker, ed è stato quasi divertente. Ha smesso di farlo, però, quando ha avuto bisogno di segnare su carta le cifre, che erano diventate troppe e continuavano a sovrapporsi l’una all’altra in assurde imitazioni del sorriso del madrileno, perché David non è mai stato capace di tenersi addosso penne e foglietti, li perde, facilmente come perde il senno e il sonno e l’amore delle persone che ha intorno.
Ora, con il migliore cous-cous dell’intera Gran Bretagna tra loro e neppure un po’ di silenzio, ora, con Iker che condivide aneddoti meravigliosi e ride ed è Iker - e, Dio, quanto gli è mancato, - ora gli sembra che neppure una di quel fantastiliardo di cose sia importante davvero. Non importante quanto le due parole che ha sulla punta delle labbra e pretendono di venir fuori, e gli addolciscono il sapore del vino in bocca. Non importante quanto il fatto che la mano di Iker non abbia mai lasciato la sua, se non per un attimo mentre ha quasi rovesciato il bicchiere, versandosi da bere.
Niente è importante quanto Iker, e dovrebbe essere una rivelazione, forse, ma David, Dio, David l’ha sempre, sempre, sempre saputo.

*

Piove, quando finalmente lasciano il ristorante, ma nessuno dei due si stupisce davvero, perché sarebbe stato divertente se non avesse piovuto. È Londra, perciò piove, e Iker sorride, stringe forte la mano di David e chiede:
«Da che lato?»
E David quasi risponde verso di te, sempre, anche quando ti volto le spalle, ma si morde la lingua, gli sfugge un sorriso perché quanto esattamente sarebbe stupida, come risposta?, e scrolla le spalle.
«Dove vuoi andare?» domanda invece, avvicinandosi un po’ di più a Iker finché le gocce di pioggia che s’infrangono sulle spalle rigide del suo cappotto elegante non arrivano a solleticargli la gola.
Iker ridacchia, chinando appena la testa, e poi si volta a guardarlo con gli occhi lucidi e le guance arrossate dal freddo sottile, dal vino, sicuramente non dal respiro di David sul suo collo.
«Hai detto che volevi farmi vedere casa,» dice, e David non riesce a ricordare precisamente di averlo detto, ma suppone sia plausibile, per cui ride, come di una barzelletta non particolarmente brillante.
«Allora di qua,» dice, e potrebbero prendere un taxi, ma girare così è più divertente, senza neppure un ombrello, con gli altri passanti che riconoscono David cinque secondi troppo tardi e al ragazzo sorridente dietro di lui neppure prestano attenzione.
Iker scoppia a ridere come un pazzo, quando scopre che David effettivamente abita da solo in un condominio.
«Tu sei matto,» dice, ma varca la soglia senza l’ombra di un’esitazione e appende il cappotto alla rastrelliera, come se fosse una cosa che fa tutti i giorni. David è a dir poco stregato dalla sua sicurezza, ma tenta di contenersi.
«In che modo il fatto di abitare in un condominio mi rende matto, di grazia?» chiede, sfilandosi la sciarpa, il giubbotto e la giacca, e Iker, dietro di lui, ride di nuovo, ma più distrattamente di prima, perché sta esaminando la collezione di fotografie in bella mostra su un’elegante cassettiera vittoriana accanto alle scale.
«Non è il fatto che abiti in un condominio,» dice, accarezzando quasi con devozione un ritratto di Romeo annegato in una gigantesca maglietta della nazionale spagnola. «Ma il fatto che tutto il condominio sia casa tua.»
«Alla fine, questo posto ha meno metri quadrati di Beckhingam Palace,» commenta David, e si sposta alle sue spalle senza avere nessunissimo secondo fine, davvero, è un galantuomo, lui, però Iker si volta  verso di lui, quasi intrappolandosi spontaneamente contro la cassettiera, e un galantuomo è necessariamente anche un uomo, no? Perciò è normale e comprensibile che a David venga voglia di baciarlo.
«Non ci credo neanche se vedo le planimetrie,» sorride Iker, ed è così vicino che David potrebbe leggergli nel pensiero, e comunque non è possibile che la fottuta parola planimetrie possa suonare così tanto seducente, davvero.
«Posso farti vedere cose più interessanti, piccolo,» brontola David, in risposta, - salvandosi in corner perché riesce a fare un sorrisetto furbo che magari riuscirà a stemperare l’eventuale ambiguità delle sue parole (ma non funziona così, il signor Beckham dovrebbe saperlo, ormai; Iker, praticamente, ha un attimo di black-out, e se non avesse la schiena premuta alla cassettiera si sarebbe senza ombra di dubbio accasciato per terra), - ed è la prima volta in tutta la giornata che usa il suo soprannome, e non riesce davvero a non notare che Iker rabbrividisce e gli si avvicina ancora un po’.
«Tipo cosa?» bisbiglia Iker, e si sta davvero mordendo il labbr--? Sì, ok, se lo sta mordendo.
David, che non è arrivato a quarantatrè anni suonati chiudendo sistematicamente la porta in faccia al proprio cervello, quelle poche volte in cui gli va di mettersi al lavoro, decide saggiamente di prendersi un attimo per contemplare la situazione e decidere che, ’fanculo il modo, ha voglia di baciare Iker da quindici anni, ormai, e potrebbe ben concedersi di farlo, come regalo di Natale anticipato o di compleanno in ritardo o quello che è. D’altra parte, ha ricevuto schiaffi da mezza Inghilterra e da Fabio Capello; nel peggiore dei casi, Iker Casillas sarebbe un pezzo raro per la sua collezione, glielo invidierebbe il mondo.
Gli accarezza una guancia, allora, allargando le dita sulla sua pelle morbida perché per quel che ne sa potrebbe essere la prima e ultima volta che l’universo gli fa un simile piacere; David non è pienamente sicuro di essere bravo, con le prime volte - non ci vuole ripensare, a quando ha perso la verginità, grazie, - ma durante la sua ultima ‘ultima volta’, cioè ‘l’ultima volta in cui ha giocato a calcio da professionista’, ha segnato una doppietta da brivido, perciò, ecco, almeno con quelle ci sa fare.
Magra consolazione, forse, ma è quello che basta per convincere il suo pollice a deviare un po’, e andare a stuzzicare il labbro inferiore di Iker, liberandolo dalla prigione dei suoi denti. Quando Iker trattiene il fiato, David si fa forza - ed è sempre Iker, è sempre Iker a rendergliela sopportabile, senza eccezioni, ed è forse la cosa più bella di lui, del modo che ha di stare al mondo con David, - e si china, assaggiando con una punta appena di timore e una colata bollente di emozione nel petto le sue labbra.
Ricorda un momento simile, a Madrid, troppo tempo fa, quando era troppo ubriaco anche solo per capire da che parte fosse il pavimento ma non abbastanza per non accorgersi dei capelli troppo corti di Iker terribilmente morbidi sotto le sue dita, ma adesso è un bacio infinitamente migliore, così tanto che David avrebbe bisogno di una lavagna chilometrica per portare il conto.
«Fammi vedere, allora,» bisbiglia Iker, e poi si rilassa contro di lui, schiudendo le labbra e andando incontro alla lingua di David con la propria. Non sono scintille o stelle o fuochi d’artificio a correre lungo la spina dorsale di David in una cascata di brividi elettrici; è la teca che custodisce l’affresco impeccabile della sua vita che va in milioni di pezzi e, infranta, riflette l’arcobaleno. E il calore che, ancora, ridicolmente gli riempie il petto, è il capolavoro perfetto che ottiene il suo ultimo tocco: una secchiata d’oro sul cielo in tempesta e, nel mezzo, una macchia rossa di vernice, dove c’è il bacio di Iker che è, prima di ogni altra cosa, una promessa. «Sono qui per questo, coglione.»

When you walk through a storm
Hold your head up high
And don't be afraid of the dark
At the end of the storm
Is a golden sky
And the sweet silver song of a lark
Rodgers/Hammerstein - You'll Never Walk Alone

A/N.
- ASJDFJSDLFDòKSDAHSFDGASKòLFMDS HO PIANTO AL PENSIERO DI BECKS CHE VA IN MODALITA’ ‘YNWA’ SU STEVEN. *muore*
- LOL, ho fatto due conti e se la Spagna si qualifica in tranquillità e tutto, il giorno in cui eventualmente Capello schiaffeggerà Beckham per il fatto che è gayo (la data per me è il 17 giugno 2012, segnatevela sul calendario e non prendete altri impegni) Iker starà effettivamente giocando la sua centododicesima (non centordicesima, thankyouverymuch xD) partita in Nazionale, non ho sparato un numero a caso (però senza contare eventuali amichevoli prima di quel giorno, perché mi pesava il culo cercare le date, yay \o\). L’unica cosa inverosimile è che Spagna e Inghilterra giochino contemporaneamente - perché questo potrebbe succedere solo se venissero sorteggiate nello stesso girone, il che dovrebbe essere alquanto improbabile, ma, ehi, non si sa mai. Nel mio universo personale, cose incredibili accadono *Ride* Comunque, se vi interessa, sempre nel mio universo personale la Spagna si piazza seconda nel girone e l’Inghilterra prima, con buona pace dei Campioni del Mondo \o\. (questo avviene principalmente perché Stevieboo è immensamente incazzato con Capello e quindi decide di dare il 600% (come se normalmente desse di meno, amore /o\), il che lo porta ad essere una specie di macchina da guerra *ride* e poi perché Xabi a un certo punto di Spagna-Inghilterra si confonde e passa a lui :D:D:D:D:D) (Gesù, il mio canon personale è *così* awesome; perché non mi lasciate essere Dio? *s’imbroncia*)
- …ve lo ricordate il paragrafo in cui dico ‘come se il destino avesse saputo che all of this was meant to happen e blablabla’? (sì che ve lo ricordate, voglio sperare, l’avete appena letto) ECCO, IO SONO PROFONDAMENTE CONVINTA DI QUESTA COSA, OK? Perché non l’avevo pianificato, m’è uscita di getto, quella frase, e quando, per amor di realismo, ho googlato ‘Beckham Galaxy Expiration’ (LOL io e le mie capacità di sintesi, really, l’ho trasformato in un sottaceto), GOOGLE È STATO COSI’ GENTILE DA INFORMARMI CHE IL CONTRATTO DI BECKS SCADE A GIUGNO 2012. RIPETETE CON ME, GIUGNO 2012. *corre in tondo urlando e agitando le braccia*

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