[RPF] Tant se val d'on venim (Gasolvarro)

Nov 20, 2011 21:30

Titolo: Tant se val d'on venim
Fandom: RPF Basket
Personaggi/Pairing: Pau Gasol/Juan Carlos Navarro, Marc Gasol
Rating: PG14
Conteggio Parole: 3778 (fidipu)
Avvertimenti: What If?, hints slash, fluff
Prompt: Promessa @ bingo_italia [ cartella]
Note: Tante note! Prima di tutto, il titolo: chiaramente rubato all'inno del Barça, l'ho scelto perché significa "non importa da dove proveniamo"; e ALDSHDFJHDHGADFJSDH;;HGS il Gasolvarro è la cosa più meant to be di tutti i tempi, ok? Ok.
- Seguono un paio di notizie storiche che non sono solo d'intrattenimento (*ride*).
- A ventidue anni (cioè nel 2002, anno in cui è ambientata questa fic), Juan Carlos Navarro già vantava due titoli di lega (’99 e 2001), una Coppa del Re (2001), una coppa Korac (1999), il bronzo agli Europei (2001), l’oro a Mannheim (1998), l’oro agli Europei U21 (1998), l’oro, nonché il titolo di MVP del torneo, ai Mondiali U21 (1999). #STICAZZI
- Non ho idea del perché AEK-Barcellona (57-62) nel 2002 si sia giocata a Lamia, considerando che il palazzetto fa abbastanza pena e l’AEK solitamente è di casa in un certo Olympikos, ma il sito dell’Eurolega mi dice così e quindi me lo tengo.
- Se ve lo state chiedendo, sì, i conti tornano tutti: Marc Gasol è nato a fine gennaio dell'85, per cui nell'ottobre 2002 ha effettivamente diciassette anni e otto mesi. Sì, i giocatori che vedete citati a cazzo di cane erano nella rosa del Barcellona nel 2002 (beh, tutti meno che Marc).
- Altro, come al solito, in fondo alla fic.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.



~ Tant se val d'on venim.

Marc esordisce in ACB a diciassette anni e otto mesi, con la maglia del Barcellona.
Pau, accomodato sul palco dei distinti per la prima volta in tutta la sua vita, si deve mordere le mani per costringersi a star buono e a non saltare in piedi e sbracciarsi come un ossesso, appena lo vede spuntare dal tunnel per gli spogliatoi. Non gli pare vero, in tutta sincerità, che Marc - il suo fratellino - stia davvero correndo fuori di lì proprio dietro a Nacho Rodriguez.
È pure stranissimo, per di più, il Palau, visto dalla tribuna. Pau conosce il palazzetto meglio che la propria stanza, ne ha contato i sedili più volte di quante riesca a ricordare, eppure non era mai stato qui, e non c’è paragone con la curva; è come se avessero aggiunto un’altra dimensione al campo, e più colori, e oddio, è talmente vicino che riesce a vedere con precisione ogni singola espressione sulla faccia di Marc.
Cristo santo.
La squadra comincia il riscaldamento - il Barcellona comincia il riscaldamento e Marc è lì a farsi passare il pallone dai grandi. Marc è lì che insacca un tiro libero a casaccio, scalzando via una tripla di Jasikeivicius che - bontà del cielo, - gli fa un sorriso e va a scompigliargli i capelli. Marc, Dio, Marc è davvero uno del Barcellona, e Pau non riesce a togliersi dalla testa l’immagine di quel bambino un po’ paffutello che adorava appiccicargli in faccia le mani sporche di tempera, una rossa e una blu.
È la sensazione più assurda e bella del mondo, guardarlo fare stretching a bordo campo con coach Pesic che gli blatera all’orecchio, e Pau è così fiero di lui che si sente scoppiare.
Suo padre gli si materializza accanto, tenendo in braccio un secchio di popcorn formato famiglia.
«Hanno già iniziato?» domanda, a bocca piena. Pau sorride, scuote la testa.
In campo, Marc fa una battuta e Juan Carlos Navarro, seduto a gambe incrociate accanto a lui, scoppia a ridere. Pau si morde le labbra, si volta a guardare la curva.

*

A giudicare dai rumori che provengono dal bagno, più che farsi una doccia Marc sta attivamente tentando di abbatterci una parete, lì dentro. Pau sta scaldando al forno mezza teglia di lasagne avanzata dal pranzo, e magari dovrebbe andare a controllare che suo fratello non si stia ammazzando in qualche improbabile maniera. Ci ripensa dopo un momento, però, perché le ossa rotte s’ingessano e i muri si ricostruiscono, mentre non c’è rimedio per una cena carbonizzata.
L’universo deve aver deciso di complottare ai suoi danni, tuttavia, perché neanche un momento più tardi, Pau sente suonare il citofono e, accidenti, adesso chi è? Pau non è precisamente dell’umore adatto ad avere a che fare con qualche venditore di pentole o i testimoni di Geova, ma non può neanche dare una voce a Marc, nella remota ipotesi in cui suo fratello stia per davvero lavandosi.
Non ha molta scelta, quindi. Sbuffa, implora mentalmente il forno di non rovinargli la lasagna e a malincuore se ne va in soggiorno.
«Marc, va tutto bene?» chiede, già che c’è, affacciandosi in corridoio. Perlomeno sente lo scroscio dell’acqua, da lì, ed è un sollievo non trascurabile.
«Bene, benissimo!» replica Marc, dopo un momento. Pau non riesce a non ridacchiare un po’. Pure con tutte le difficoltà del caso - i suoi orari improbabili e i cartoni animati e la Nutella che sparisce nel giro di mezza giornata, - è contento di aver proposto a Marc di trasferirsi a vivere con lui. Non è male, avere quel cretino di nuovo tra i piedi. «Non sono annegato, stai tranquillo. Ma mi pare di aver sentito suonare il citofono?»
«Sì, sto andando,» dice lui, e difatti va, anzi, è già lì. Sgancia la cornetta del citofono dal muro, già pronto a riattaccarla in faccia a chiunque abbia il coraggio di predicargli che è ora che abbandoni la sua eretica condotta di vita e si converta all’ultimo modello di aspirapolvere. «Chi è?»
«Sono Juanca,» gli risponde una voce allegra, resa un po’ metallica dalla qualità non precisamente esaltante del citofono.
Pau si acciglia, sorpreso. Per un interminabile momento, sta lì e medita sulla possibilità che si tratti di un elaborato stratagemma di qualche malintezionato per infilarglisi in casa e rubargli le cose più preziose che ha - il libro di anatomia, i tre volumi di istologia; si stringe nelle spalle, alla fine, e preme il bottone per aprire il portoncino.
Il citofono suona di nuovo.
«Sì?»
«Marc, scusami, ma che piano è?» ridacchia la stessa voce di prima, e Pau, di nuovo, storce il naso. Marc non gliel’ha mica detto, che avrebbero avuto ospiti.
«Il terzo,» dice, in ogni caso.
«Grazie,» sente rispondere, e appende il citofono e automaticamente fa per aprire la porta lì accanto, ma ci ripensa.
«Marc!» chiama, a voce alta. Tre piani più in basso, sente il pesante portone del palazzo sbattere mentre si richiude.
«Cosa?»
«Abbiamo ospiti!» dice, il suo tono di voce che tradisce splendidamente quanto è indispettito dalla visita a sorpresa. Non che si aspetti che Marc se ne renda conto, comunque. «Me lo potevi dire!»
«Oddio, è già qui?!» strilla Marc, che ha sempre avuto meno sensibilità di un blocco di cemento. Pau sospira.
«Sta salendo,» dice, laconico, e gli sembra di sentire dei passi sul pianerottolo, per cui fa il bravo padrone di casa e apre la porta. In quei tre secondi che gli ci vogliono per abbassare la maniglia, gli passano davanti agli occhi ottomila pensieri, che si condensano in un’unica, agghiacciante verità e Juanca, porca miseria; perché ci ha messo così tanto ad arrivarci?
Oh, porca miseria.
«Ciao,» sorride Juan Carlos Navarro, magnificamente in piedi sullo zerbino di casa sua, con una cassa di birra tra le braccia e quegli occhi troppo neri e troppo grandi e troppo dolci perché Pau possa continuare a respirare come dovrebbe. Oh. «Pau, giusto? Sei troppo alto per non essere Pau.»
Pau non ce la può fare.
«Sì, uhm, sono io. A-accomodati,» riesce a schiodare, alla fine, facendosi da parte per lasciarlo passare. Il sorriso di Juan Carlos - Pau si morde le labbra - si allarga ancora un pochino mentre lui entra in casa e si guarda attorno, vagamente spaesato, forse cercando un posticino per abbandonare le birre.
«Queste dove le metto?» domanda, appunto, sollevando un pochino la confezione. Pau si era incantato a fissarlo, in tutta sincerità, ma si riscuote in un attimo, chiude la porta, gli indica il corridoio.
«Da questa parte,» dice, precedendolo fino in cucina. La lasagna, nel forno, dà un profumino delizioso, ma Pau è troppo concentrato nel tentativo d’impedirsi di avere un infarto per farci caso. «Marc è sotto la doccia.»
Juan Carlos sorride tra sé, piazza le birre sul tavolo e poi gli porge una mano per presentarsi. Oh, Dio.
«Juan Carlos, piacere,» dice, inclinando appena la testa di lato. È incredibilmente adorabile, e Pau sta per morire. Gli sorride, gli stringe la mano. Avrà sognato questo momento giusto quattro o cinquemila volte, negli ultimi sei anni, ma neppure quando Marc s’è finalmente ritrovato in prima squadra ha mai osato immaginare che sarebbe successo davvero, e in un modo tanto sciocco e banale e bellissimo.
«Sì, ne avevo il vago sospetto,» dice, e Juan Carlos ridacchia con lui. «Pau Gasol, mi hai scoperto.»
Juan Carlos annuisce, si ficca le mani nelle tasche e si guarda attorno - più che altro, guarda all’insù verso la faccia di Pau, che è perlomeno venti centimetri troppo in alto rispetto a lui, e si vede che è una cosa cui non è abituato, perlomeno non fuori dal campo.
«Sei alto,» dice, dopo un attimo di esitazione, e poi ride. «Scusami, però sei proprio alto, Dio santo.»
«Davvero?» replica Pau, ispirato, premendosi una mano sul petto e facendo del proprio meglio - non che basti - per non sogghignare e, soprattutto, per non arrossire. «Non ci avevo mai fatto caso, giuro.»
Juan Carlos ride ancora - è adorabile; uno che riesce a mettere trenta e passa punti al Real Madrid facendolo sembrare facile come respirare non dovrebbe poter essere così adorabile, eppure, beh, Dio, - si accarezza il collo. Non sembra davvero a disagio, solo un po’ imbarazzato per timidezza, e Pau conosce la sensazione.
Gli fa segno di accomodarsi al tavolo, Juan Carlos annuisce, si siede sul lato lungo e Pau spegne il forno, si siede a capotavola. Per un attimo si è crogiolato davvero nella folle idea di accomodarglisi accanto, ma una cosa per volta, si è detto. Prima tentiamo di ricominciare a respirare normalmente, e poi facciamo i pazzi.
«Medicina, giusto?» domanda Juan Carlos, di punto in bianco, e Pau non riesce a trattenere un’espressione sorpresa. «Non fare quella faccia, Marc parla un sacco di te.»
«Oh, Dio, questa non può essere una buona notizia,» scuote la testa lui, e Juan Carlos ride, ma prima che possa replicare qualcosa, qualsiasi cosa, un terremoto diciassettenne di capelli incolti e braccia e gambe troppo lunghe compare sulla soglia della cucina, con addosso un jeans e una maglietta infilata al contrario, e poi piomba su di lui, appolipandoglisi addosso al grido di Juaaaaaaaaannnnnquiiiiiiiiiiiii!

*

Per un quarto d’ora, Pau detesta profondamente Marc. Non si può, umanamente, piazzare un uomo nella stessa stanza col suo giocatore preferito - il giocatore per cui, magari, quell’uomo ha pure una specie di cotta, una cosa stupida, d’accordo, e segretissima, ma comunque imbarazzante, - senza il minimo preavviso, e pretendere che la sua prima reazione sia diversa da una crisi isterica, condita da vaghi istinti omicidi.
La gratitudine arriva dopo, quando il sorriso amichevole di Juan Carlos e i suoi occhioni scuri e poi la lasagna sciolgono la timidezza di Pau, e tutti e tre si buttano sul divano, Juan Carlos nel mezzo, a guardare il clásico in televisione.
«Non riesco a credere che non ti abbiano dato i biglietti,» brontola Marc, masticando pensoso un boccone di lasagna. Juan Carlos punzecchia distrattamente una polpetta, si stringe nelle spalle.
«Toccava a Deji e Greg, stavolta,» dice, e Pau, poco più in là, - che è mezz’ora che dibatte con se stesso per tentare di decidere se sia il caso o meno di allargare un po’ le gambe e toccare il ginocchio di Juan Carlos col proprio, - impiega un attimo a rendersi conto che sta parlando di Bodiroga e Fucka. Seriamente, è straniante avere a che fare con la gente per cui tre mesi fa strillava dalla curva al Palau.
«Sì, ma è il clásico,» insiste Marc, agitandosi sul divano e sgranando gli occhi. «Non dovremmo, tipo, essere tutti quanti lì?»
Alla tivù, il guardalinee contesta un fuorigioco al Real Madrid. Juan Carlos, di nuovo, fa spallucce.
«Preferisco la lasagna,» dice, con un sorriso. Pau si morde le labbra, arrossisce come un semaforo.

*

Una settimana più tardi, Pau ritira la macchina dal meccanico, per cui si ritrova, ogni giorno, dopo le lezioni, a guidare fino al Palau e aspettare, nel parcheggio, che Marc finisca gli allenamenti. Suo fratello, naturalmente, è sempre tra gli ultimi a uscire, ma Pau non se la prende perché con lui viene via anche Juan Carlos, che non manca mai di sorridergli e fermarsi a chiacchierare, e certe volte - sempre più spesso, - si lascia anche invitare a cena da loro.

*

Il secondo giovedì di Eurolega, durante il riscaldamento prima della partita, Juan Carlos si allaccia le scarpe, a bordocampo, e poi alza la testa, guarda su per la tribuna dell’Halkiopoulio, guarda Pau, e lo saluta.
Dopodiché, provvede ad infilare quindici punti all’AEK.

*

Marc si sveglia ogni giorno alle nove passate, fa colazione con tutta calma e poi, puntualmente, impazzisce e si scapicolla per mezza città per non arrivare tardi agli allenamenti del mattino. Pau, invece, alle sei e mezzo è già in piedi, e alle sette meno dieci esce per i suoi tre quarti d’ora di corsa.
Segue sempre lo stesso percorso, le stesse strade, persino sempre lo stesso marciapiede, ma stamattina, quando attraversa il parco due quartieri più giù di casa sua, - con le gambe che ha, lui per davvero ogni tre passi fa sei metri, - per la prima volta in quattro anni trova qualcuno già chino sulla sua fontanella preferita.
Pau rallenta un po’, quando è ancora in cima al viale, sperando che il tizio finisca di riempire la bottiglia che sta riempiendo - no, adesso sta bevendo, quindi che finisca di bere e se la squagli in fretta. Nota, poi, il pallone da basket che quello si tiene incastrato nell’incavo del gomito, e la curva familiare del suo fianco.
Oh.
Pau ingrana discretamente la quinta, senza nemmeno pensarci.
«Ehi,» saluta, quando è a meno di un metro dalla fontana. Juan Carlos alza la testa, lo riconosce, sorride. Pau tenta di non fissargli troppo apertamente le labbra, la punta della lingua che guizza a raccogliere una gocciolina d’acqua fuggiasca.
«Buongiorno,» dice Juan Carlos.
«Anticipi l’allenamento?» domanda Pau, accennando al pallone, e, beh, non avrebbe potuto uscirsene con niente di peggio, sul serio. Juan Carlos, comunque, è troppo gentile per farglielo pesare, e sorride un po’ di più.
«Veramente mi sono alzato presto e non sapevo che fare,» ammette, guardandosi i piedi, e poi azzarda un’occhiatina all’insù, quasi timida. «Posso, sai. Ti va di fare due tiri?»
Il cervello di Pau s’inceppa, tentando di processare l’informazione, e alla fine approda alla conclusione che non avrebbe potuto chiedere di meglio. Dio, quest’anno Natale è arrivato con due mesi d’anticipo.
Pau annuisce, quindi, e lascia che Juan Carlos lo preceda attraverso una macchia d’erba e oltre due filari di pioppi, fino ad un campetto da basket che, sinceramente, lui neanche sapeva fosse lì.
Juan Carlos appoggia la bottiglia contro la recinzione metallica del campo, fa un sorriso un po’ incerto, palleggia distrattamente e sembra che non abbia idea da dove cominciare. Adorabile, pensa Pau, col cuore in gola, e gli ruba il pallone quando è ancora a mezz’aria, era un’azione assolutamente legittima, Juan Carlos può fare tutte le risate strozzate di sdegno che vuole.
Pau improvvisa un tiro dalla media distanza, perché Juan Carlos gli è subito corso dietro e si stava preparando a buttarglisi davanti; il pallone trova soltanto il ferro e rimbalza via, sbattendo contro la recinzione. Juan Carlos reagisce d’istinto, ed è più veloce. Conquista la sfera arancione e si allontana di corsa dal canestro, ridendo.
«Non costringermi a denunciarti alla federazione, Gasol,» dice, palleggiando poco più in qua della linea di metà campo. È rilassato, tranquillo, ma appena Pau gli va incontro s’incurva leggermente, protegge il pallone, fa un passo in avanti. Stringe gli occhi, Dio santo, e il suo sorriso sicuro diventa un po’ più predatore, un po’ più aggressivo.
«E tu vedi di non fare passi,» lo provoca Pau, che lo sa che è un nervo scoperto, che domenica scorsa quell’infrazione gliel’hanno fischiata su due azioni, e ogni volta era più inesistente dell’altra.
Juan Carlos sgrana teatralmente gli occhi.
«Mi spezzi il cuore,» ride, e Pau gli si sistema davanti a gambe larghe, coprendo completamente il canestro, il resto del campo, Dio, persino le cime degli alberi, per quanto è grosso. C’è solo Pau, e il cielo azzurro dietro di lui. Juan Carlos sorride, fa ancora un passo indietro, palleggiandosi tra le gambe. Neanche respira, ma si piega e salta e si tende e il pallone vola talmente in alto che Pau, a braccia tese, non riesce a sfiorarlo.
Juan Carlos chiude gli occhi e dà un soffio contento, quando il tiro s’infila perfettamente a canestro e la retina sospira.
Pau non sa se piangere o ridere, e probabilmente l’unica cosa da fare sarebbe gettarsi ai suoi piedi e onorarlo come un dio. Dà una risatina nervosa, scuote la testa.
«A ventuno?» domanda Juan Carlos, guardandolo da sotto in su con un sorriso impercettibile. Pau annuisce.
«Però niente triple,» dice, sollevando un indice ammonitore. Juan Carlos ride, ma non fa obiezioni.

*

«Dio santo, sei un avversario impossibile,» sbuffa Pau, quasi un’ora più tardi, mentre Juan Carlos vince venti a sedici, e non sta esagerando. Juan Carlos è notevolmente più piccolo di lui, ma è veloce come un supereroe e poi c’è quella sua bomba che non è nient’altro che un incubo instoppabile, e poi il fatto che riesce ad inventarsi tiri da qualsiasi punto del campo e buttarli dentro comunque e, beh, c’è da pregare tutti gli déi di tutte le religioni che Juan Carlos non decida mai di voler entrare al Palau con una divisa diversa.
Un passo fuori dal pitturato, rigirandosi il pallone tra le mani, Juan Carlos ridacchia.
«Ti ringrazio,» dice, inclinando la testa di lato. Pau abbozza un sorriso, si risolleva, tenta di riprendere fiato. «Sei un bello stress anche tu, comunque.»
Pau scuote la testa.
«Dimmelo quando - no, se riuscirò mai a contenerti,» replica, sereno, - Juan Carlos gonfia le guance, imbarazzato, - e poi solleva le mani. «Mi arrendo, ehi.»
«Sì, ci siamo meritati una pausa.»
Si riposano buttandosi sul prato appena al di là della recinzione, all’ombra di un albero che non s’è ancora reso conto che è quasi arrivato novembre. Tutta Barcellona, per la verità, ancor più del solito sembra essersi dimenticata che l’autunno dovrebbe essere almeno un po’ freddo; Juan Carlos è in canotta e pantaloncini, Pau con una maglietta a mezze maniche e il pinocchietto di una vecchia divisa da basket dei Lakers, e sono tutti e due degnamente sudati. Non tanto da far schifo, ma il giusto, e comunque troppo, per essere il ventitré ottobre.
Juan Carlos beve un lungo sorso d’acqua, poi offre la bottiglia a Pau e la sete che ha è sufficiente perché lui si costringa ad aggirare l’imbarazzo, l’accetti e se la porti alle labbra. Non è male, come primo bacio indiretto; è un po’ salato e ha l’odore inconfondibile dei palloni da basket, e Pau la bottiglia se la tiene, mettendosi a scollare l’etichetta. Juan Carlos giochicchia col pallone, e il silenzio tra di loro, scremato dai rumori un po’ lontani della città che comincia a mettersi in moto, è quello tranquillo che viene dopo una conversazione intima, che ha esaurito tutti i segreti.
Tutto quello che hanno fatto è stato giocare, però, inseguirsi e inseguire un pallone ruvido e Pau non riesce a capire perché gli sia bastato così poco per incastrarsi così bene con Juan Carlos.
«Era da un sacco di tempo che non giocavo,» dice, alla fine, perché non ne può più di stare a sentire il proprio cervello che s’arrovella in labirinti senza uscita, foderati di zucchero. Juan Carlos ha un’espressione seria, non lo guarda, si trattiene il labbro inferiore tra i denti. Pau si acciglia. «Che c’è?»
Ci vuole un altro momento, un sospiro e un’occhiatina colpevole prima che Juan Carlos si decida a rispondere.
«Marc non mi ha mai spiegato...» lascia il pensiero in sospeso, cambia idea, aggrotta le sopracciglia: «Perché hai smesso di giocare? Se non sono, uhm, indiscreto.»
«Non sei indiscreto, Juanqui,» ridacchia Pau, e sarà la prima volta che si permette di pronunciare quel diminutivo ad alta voce; si sente le orecchie andare in fiamme, e tenta di concentrarsi su qualcos’altro. Il colore dell’erba, per esempio, bello davvero. «Comunque, io non... non ho mai voluto fare il giocatore professionista. È da quando avevo undici anni che voglio fare il medico.»
Juan Carlos sgrana gli occhi.
«Oh!» dice, e Pau abbozza un sorriso, perplesso. «Non-- scusami, è che ho sempre pensato che, sai, fosse per qualche infortunio.» Arriccia il naso, in un’espressione che lo rende trenta volte più adorabile - e quanto fa, comunque, infinito per trenta?
Pau ridacchia, scuote la testa.
«No, niente del genere. Il basket mi piace, ma è Marc quello col sogno dell’NBA,» ammette, e riesce a strappare un pezzetto di etichetta dalla bottiglia.
«Però hai giocato.»
«Fino al liceo, sì,» annuisce, e fa una smorfia. «È un po’ difficile che i professori di educazione fisica la smettano di assillarti, quando a quindici anni devi piegarti per passare sotto le porte.»
Juan Carlos scoppia a ridere, gli dà un paio di pacche di consolazione sulla spalla. Quando si calma, gli fa un sorrisino cui il cuore di Pau reagisce decidendo di volerglisi tatuare sullo sterno. Se fosse un uomo saggio, se la sarebbe filata un’ora fa.
«Quindi, vogliamo salvare il mondo,» commenta Juan Carlos, con una punta di quello che sembra a tutti gli effetti orgoglio a brillargli negli occhi scuri.
Pau scrolla le spalle, imbarazzato.
«Finirò a fare il lavoro sporco per mia madre in ospedale,» dice, e Juan Carlos, stavolta, gli tira uno schiaffo per rimproverarlo. «E comunque, devono passare perlomeno altri sei anni.»
«Cazzo,» sbotta Juan Carlos. «Dura così tanto, Medicina?» Pau annuisce e, vagamente depresso, tira su le mani bene aperte, a fare segno di dieci anni; Juan Carlos fischia, impressionato, e poi sorride, quasi tra sé. «Beh, mi servirà un fisioterapista personale, tra sei anni, si spera.»
A Pau va storto il respiro, e non è per niente sicuro di aver sentito bene. Juan Carlos continua a sorridere quietamente, però, come se nulla fosse, e lui si impone la calma.
«Non serve la laurea in Medicina, per fare il fisio,» osserva, aggrottando le sopracciglia. Juan Carlos sbatte gli occhi.
«Ah, no?»
Pau scuote la testa, mette via la confusione, fa un sogghigno.
«E intanto, mio fratello a diciassette anni già guadagna in un mese più di quanto io abbia mai posseduto in tutta la mia vita,» dice, e Juan Carlos ridacchia. «E tu, beh,» si morde le labbra. «Tu hai la mia età, e hai un palmarés che fa onestamente paura.»
Juan Carlos, bontà del cielo, arrossisce.
Si stringe nelle spalle, fa saltellare il pallone da una mano all’altra e poi, con uno scatto rapidissimo del polso, lo solleva a farlo girare sull’indice. Pau l’ha decisamente imbarazzato.
«È l’unica cosa che posso fare, no?» dice, alla fine. «Vincere, voglio dire, o perlomeno provarci.»
Pau annuisce. È per questo, che non ha mai voluto fare il professionista: a quarant’anni, se tutto va bene, finisci di giocare, finisci di vivere, se non hai fatto attenzione, e ti rimane da fare i conti con i trofei che hai e, più di ogni altra cosa, con quelli che ti sei perso. Non gli piace pensarci, e non gli piace pensare che Marc e Juan Carlos chiuderanno la divisa in un cassetto e chissà come ci arriveranno, a quel giorno, con quali vittorie e con quali sconfitte segnate addosso.
Si sporge un po’, Pau, avvicinando l’indice teso a quello di Juan Carlos, che attentamente gli viene incontro e trattengono il fiato entrambi, mentre il pallone passa dall’uno all’altro. Pau gli dà un colpetto gentile per mantenerlo in equilibrio, e lo guarda girare, assorto.
Alla fine lo fa sobbalzare, lo blocca con entrambe le mani e sorride.
«Vinciamo l’Eurolega, quest’anno,» dice. Juan Carlos sgrana gli occhi, sorride come di una battuta, ma Pau non è mai stato più serio di così. «Se la vinci, Juanqui, se la vinci faccio l’esame, e faccio il tuo fisioterapista.»
È una pazzia, chiaramente.
Il sorriso di Juan Carlos si fa più convinto, un po’ più simile a quello che aveva mentre giocavano. I suoi occhi brillano allo stesso modo, quando porge a Pau la destra, col palmo all’insù.
«Affare fatto,» dice. Pau avvampa, ma sorride, e gli stringe la mano.

*

Il Barcellona vince l’Eurolega, quell’anno.

A/N.
- Sì, il Barcellona l'ha vinta per davvero, l'Eurolega, quell'anno.

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