Titolo: L'Affitto del sole si paga in anticipo, prego
Autore:
ary_trueBeta:
meggie87 (Grazie, perché te la sei sciroppata nonostante fosse un mostro enorme e nonostante non fosse il tuo fandom, solo perché te l'ho chiesto io. Sei splendida. :*)
Fandom: RPF - FC Inter ♥
Personaggi/Pairing: Mario Balotelli, Davide Santon, Marko Arnautović (Santonellautovic, che non è una 3some ♥)
Rating: NC17
Warning: slash, drama
Word Count: 14492 (
fiumidiparole ♥)
Disclaimer: Questa fanfiction non è a scopo di lucro. Non si vuole offendere o essere lesivi nei confronti delle persone reali descritte. Niente di quanto narrato in questa fanfiction è realmente accaduto ma è frutto di fantasia, pertanto non si pretende di dare un ritratto veritiero di eventi o personalità.
Dedica: Come ogni cosa che scrivo, ma questa bestiola in particolare, è per
el_defe,
lisachanoando e
chia25. Grazie per tutto il supporto, per le belle parole, per l'attesa, perché anche in questo momento vorrei spendere papiri per ciascuno di voi ma credo capiate comunque cosa intendo dire con queste poche righe: siete splendidi, vi amo molto, vivere questo fandom senza di voi non avrebbe alcun senso ♥♥♥ (E sì, sciocchini, vorrei sposare e avere bambini da ciascuno di voi, a prescindere dai nostri livelli di parentela ♥)
Non ricorda di aver mai sentito tanto freddo alla Pinetina, neanche in pieno inverno.
Supera tutti gli strati di tessuto che si mette addosso, compresa la sciarpa (e continua a portarla, nonostante i segni sul suo collo siano spariti da un po'), e lo colpisce nonostante il calore generato dal movimento continuo del suo corpo. È da quando è tornato da Genova che sente freddo, ma non cerca scuse, non ora che non riesce a ricordare quando sia stato l'ultimo allenamento sereno che la squadra abbia affrontato. Per Davide è strano, in un certo senso, che ci sia stato bisogno di quello per capire quanto lui e Mario siano fondamentali per l'equilibrio dello spogliatoio: non si era mai reso conto dell'importanza di un abbraccio, di un sorriso, di un Bravo, di una risata scema fino a che questi non sono venuti a mancare.
E quindi gli sguardi tesi e preoccupati e consapevoli di tutti, che lo seguono nella corsa quasi si aspettassero di vederlo crollare da un momento all'altro. E Davide tante volte vorrebbe fermarsi e dire Ehi, se sono stato abbastanza forte da sopportare il cazzo di un altro su per il culo, posso sopportare anche questo. Non sono una principessa di cristallo. Cristo, non è di me che vi dovete preoccupare; poi però sta zitto, perché si ricorda quanto bene vuole loro, quanto loro gli vogliano bene per sostenerlo nonostante tutto, nonostante Mario stia perdendo pezzi davanti a tutti per colpa sua e nessuno possa impedirlo. E non nel solito modo rumoroso e caotico e semplicemente appariscente che è proprio di Mario, ma in un modo sommesso fatto di silenzi, di sguardi bassi e notti fuori casa a fare-non-si-sa-cosa con conseguenti mattinate incubo nei lettini dell'infermeria.
È da quando sono tornati da quel sabato che Mario non gli parla più. E per la prima volta da che si sono trasferiti in appartamento, quando sono tornati a casa si è chiuso nella sua camera. E Davide ancora non riesce a prendere le misure con le porte chiuse e il silenzio, perché da che lui e Mario si sono conosciuti non hanno mai avuto bisogno di separarsi neanche per un attimo, perché nessuno di loro ne aveva mai abbastanza dell'altro. Ora invece il suo letto è grande e la sua camera vuota nel suo ordine e sembra che i loro corpi, così abituati a muoversi uno intorno all'altro, riescano ad evitarsi con la stessa simmetrica precisione. E quindi non si incrociano mai, neanche per sbaglio, neanche se abitano in un appartamento di novanta metri quadri. Non ci sono più casini in cucina o docce insieme, solo stanze con le serrande semi abbassate e completamente impersonali, con mobili chiari e semivuoti e un divano in pelle che improvvisamente sembra inutile perché il salotto fa paura e nessuno vuole vedere la televisione. La cosa più strana e terrificante, poi, è che niente, in quei quadri alle pareti e in quei lampadari e in quei muri coloratissimi testimoni la realtà di quei mesi trascorsi lì, insieme. E i ricordi non contano più, perché i ricordi stanno solo nella sua testa e Davide è terrorizzato all'idea di perdersi nuovamente nei suoi pensieri, perché sarebbe la volta buona che non riuscirebbe più a uscirne. E quindi si sente un estraneo in casa sua e si pente di non aver fatto delle foto da esporre, di non essersi preoccupato di scegliere qualcosa insieme da sistemare in giro per le stanze, anche qualcosa di orribile, che dicesse semplicemente è casa nostra.
E ci pensa ogni volta che Mario si chiude la porta alle spalle, dopo mezzanotte; lo segue sempre con lo sguardo dalla finestra, accendendo qualche lampada in giro per casa e passeggiando per i corridoi sino a sfinirsi, per poi sgusciare nel suo letto e odorare le lenzuola che Mario si è comprato da solo e che sono nuove e che non riescono a prendere il suo odore perché lui non dorme più lì, neanche se quella è la sua camera. E ogni volta che si sveglia in quella stanza estranea, tra quelle lenzuola sconosciute, Davide si sente semplicemente impazzire, perché guardare Mario farsi quello, arrivare agli allenamenti con gli occhi scavati dopo essere stato fuori delle ore a vivere una vita nuova da solo, le gambe che cedono per la fatica dopo mezzo giro di campo e non poter fare niente per impedirlo (anzi, essere la causa di tutto), gli ha fatto capire per la prima volta in vita sua che cosa sia l’avere il cuore spezzato. E non è nessuna di quelle emozioni particolarmente vivide e romantiche che tanto fanno vendere i romanzi rosa, perché non c'è niente di romantico o dolce o semplicemente umano nella sensazione del tuo cuore che si spezza in miliardi di schegge o nell'immaginare che queste comunque continuano a scorrere nelle vene, affilatissime e pronte a pizzicare ogni fottuto secondo ovunque perché non puoi sopportare oltre di vedere sentire toccare quello che ti sta davanti.
Anche il Mister deve essere a conoscenza di quello che è successo e per questo non riesce più a sollevare gli occhi da terra in sua presenza. Davide lo sa che è stupidissimo imbarazzarsi a quel punto, quando tutto quello che poteva perdere è andato perso, ma gli occhi di José, dopo quelli di Mario, sono gli unici giudici che per lui abbiano importanza e non riesce a pensare all'eventualità di perderli entrambi. Non riesce a pensare di vedere in quegli occhi scuri e intensi la definitiva sparizione del bambino che vorrebbe ancora essere. Non vuole leggere in quelle iridi, più che in quelle di tutti gli altri compagni, quel Io te lo avevo dato perché lo trattassi con cura. Come hai potuto romperlo? che sembra restare sospeso tra i nuovi campi verdi.
Il Mister però non gli dice niente, non lo tratta diversamente, perché si preoccupa solo di Mario e questo è un altro dei mille motivi per cui Davide sarà sempre riconoscente a quell'uomo; e quindi le indicazioni al personale dell'infermeria, le passeggiate con Mario, le carezze sulla schiena e le parole soffiate al vento, la preoccupazione che si esprime nella tensione della fronte e delle mani quando lo vede allontanarsi verso gli spogliatoi.
Marko invece è tutto un altro discorso, perché è come se all'Inter non ci fosse mai venuto. Nessuno gli presta realmente attenzione, né per biasimarlo né per perdonarlo e quell'indifferenza, col passare dei giorni, sembra essersi depositata sulle sue spalle larghe, sulle sue gambe e sui suoi occhi spenti. Davide lo sa che il Mister e i suoi compagni non lo accusano di niente, che non vogliono giudicare nessuno, ma che naturalmente, in modo quasi consequenziale, si sono stretti attorno a loro due che sono i fratellini e i figlioletti che conoscono da anni, cuore di quella famiglia strana che formano tutti insieme e di cui Marko, semplicemente, non fa parte. E Davide si sente in colpa anche per lui, perché è per causa sua e di quello che hanno fatto se Marko si ritrova in quella situazione, solo e tagliato fuori dalla realtà della squadra (e si è chiesto tante volte se quello abbia mai pensato, scegliendo l'Inter, in che casino si sarebbe cacciato tra l'affetto e il lavoro che proprio non si possono separare).
E anche adesso che giocano tutti assieme una partitella, con Mario che sta nella loro squadra avversaria, Marko è come un elemento ignorato da tutti. E anche Davide non riesce a considerarlo, perché è così sorpreso dal fatto che Mario sia in piedi e in campo, che gli stia così vicino (anche solo come avversario) da poter sentire il suo odore e poter vedere il suo profilo contro il pallido sole autunnale, che gli sembra che tutto corra improvvisamente velocissimo: e quando la palla gli arriva tra le gambe con un passaggio di Cristi quasi gli sfugge dai piedi per la fretta di liberarsene e di continuare semplicemente a guardarlo, odorarlo, sentirlo. Solo che gli sfugge dalla parte sbagliata, perché Marko scatta in avanti e la recupera e Mario gli è improvvisamente addosso, la gamba tesa in un colpo al piede destro (il piede infortunato. Cazzocazzocazzo) talmente violento e preciso e cattivo da togliere qualsiasi dubbio sulla volontarietà del gesto. Marko crolla a terra con il labbro inferiore tra i denti per impedirsi di urlare, gli occhi lucidissimi e qualcuno dei ragazzi che gli si stringe intorno per aiutarlo, per difenderlo, quasi un episodio del genere li autorizzasse finalmente a vedere anche lui.
Davide però non vede niente, perché il suo primo pensiero è stato Cristo, no. Mario no no no e le sue gambe e le sue braccia e il suo corpo intero non riescono più a trattenersi, e non importano le urla di José e Javi e l'affannarsi di Beppe e Douglas che subito è corso dietro a Mario, che a sua volta urla qualcosa, perché lui deve andare da Mario e basta. Ed è lì, davanti a lui, proprio ora, e prova a toccarlo, prova a dirgli Ti prego, ti prego smettila perché mi stai uccidendo, ma come la sua mano tremante sfiora quel fianco così familiare non sente più niente, se non la carne del suo labbro che si lacera sotto la forza di un pugno ben assestato e Mario che scalcia nella presa di Douglas, che grida più forte, che gli dice "Cazzo, levati dai coglioni! Non toccarmi, non ti avvicinare! Vaffanculo Davide!", e la sua voce è talmente acuta che gli si pianta nel cervello come un chiodo.
E mentre il Mister urla di portarlo via, urla di metterlo in una stanza e chiamare Zlatan e di farlo parlare con lui per tutto il fottutissimo tempo necessario (e davvero, il fatto che il Mister sappia che solo Zlatan può stare con Mario in quei momenti di violenza cieca non serve proprio a un cazzo, perché Zlatan non c'è più e lui dovrebbe cominciare a farsene una ragione), mentre Beppe e Diego lo spingono verso la panchina, mentre Marko viene sollevato e portato in infermeria, Davide non riesce più a sentire niente in tutto quel caos, se non quelle parole e il sapore del sangue caldissimo che gli inonda la bocca e l'unica cosa che riesce a realizzare davvero è che Mario lo ha colpito. Lohacolpitolohacolpitolohacolpito.
E non gli serve il ghiaccio e non gli serve Diego che sussurra che va tutto bene mentre lo costringe a sedersi, non gli serve vedere lo sguardo scuro di Samuel che si avvicina preoccupato, perché Mario lo ha colpito e tutta la sua vita improvvisamente si riduce a un gesto così piccolo.
E non riesce a smettere di pensare al peso di quel pugno sulle labbra con cui lo ha baciato migliaia di volte, alle parole che gli ha urlato disperatamente (la stessa voce che lo ha sfinito di premure e dolcezze e sconcezze) e il cui sapore è persino peggiore di quello rugginoso del sangue. E Davide lo sa che è a un passo minuscolo dal limite, che non può reggere oltre tutta questa situazione, non così, non con un labbro spaccato e un cuore e una testa che non sono più da nessuna parte e nessuno, nessuno che possa salvarlo.
E mentre lui comincia a tremare piano arriva il Mister che semplicemente chiede di essere lasciato solo con lui. E Davide non sa cosa aspettarsi, non ha neanche più la forza di avere paura, e quindi rimane lì, raggomitolato su quella panca, con il ghiaccio sul labbro che pulsa e José Mourinho che gli si siede di fianco e prende ad accarezzargli la testa, le dita che si perdono tra i suoi capelli sottili e sempre più lunghi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se fosse l'unica cosa giusta in un momento del genere.
"Su, bambino. Va bene così, ormai è andata... ". La sua voce è dolcissima e bassa e Davide neanche si è reso conto di aver cominciato a singhiozzare in quel modo violento, il petto che si solleva e riabbassa velocissimo, le lacrime che gli bagnano le guance per la prima volta in tutto quel casino.
E nasconde il viso tra le ginocchia, ansimando e lasciando che le lacrime facciano un po' quello che vogliono, con quelle dita tozze che continuano per un attimo a vagare per la sua cute per poi scendere sul collo e sulle spalle in abbraccio caldissimo e familiare e semplicemente paterno, con José che poggia il mento sulla sua testa e se lo stringe proprio contro il collo. E Davide piange di sconforto, perché lui e Mario non sono mai stati così lontani e sembra che questo sia tutto ciò che gli riserva il futuro, perché si sente impotente e solo e piccolo e completamente privo di speranza; ma contro quel collo, contro quella pelle scura e con la voce del Mister che sussurra qualcosa in portoghese proprio contro il suo orecchio, Davide si rende conto di piangere anche di sollievo, e Dio solo sa quanto questo lo faccia sentire un coglione; perché è riuscito a toccarlo, è riuscito a sentire di nuovo la sua pelle sotto le dita ed è stato come una botta d'ossigeno, perché Mario lo ha toccato di nuovo e perché Mario è incazzato e questo significa che non è finito niente, che nonostante tutto c'è ancora qualcosa di loro che può essere recuperato.
*
Lo sente. Sente che è uscito dalla sua camera ed è pronto ad uscire ancora di casa, per tutta la notte. Ma oggi è diverso, perché Davide per la prima volta ha intenzione di impedirglielo e di imporgli la sua presenza. E così lo aspetta in salotto, seduto sul divano, tremando un po' nella sua felpa e nei pantaloncini della tuta, le gambe nude e i piedi scalzi.
Anche Mario indossa la tuta, però lui è vestito di tutto punto e non pare intenzionato a fermarsi neanche davanti all'evidenza della sua presenza e Davide sa che non deve lasciarsi scoraggiare da questo, anche se fa male vedere con quanta determinazione lo ignori, anche se fa male vedere quella ruga alla radice del naso che si forma sempre quando qualcosa lo turba al punto da non riuscire a nasconderlo.
"Dove vai?" chiede, e lo fa pianissimo, quasi stesse parlando tra sé e sé.
"Cazzi miei," ringhia lui, e la risposta è talmente prevedibile da farlo quasi ridacchiare per la situazione in cui si trova.
"Perché non resti qui? Vorrei parlare... Ti prego, Ma'". Non ha il coraggio di mentire, di trovare una scusa più appetibile che lo convinca a restare, chiede semplicemente quello che vuole e spera che Mario, da qualche parte, trovi il coraggio, la forza, di accontentarlo. Davide si rende conto di essere debolissimo, lì di fronte a lui, e pensa che questa sia l'unica arma a sua disposizione per riaverlo indietro; e per questo non si fa scrupoli ad usarla, ad usarsi e ad usare anche Mario.
"Parlare di cosa, Da'? Del fatto che ti sei fatto inculare da un altro? O del fatto che solo adesso trovi i coglioni di rivolgermi la parola? Non ho un cazzo da dire, io". Ma la sua voce, che trema ed è carica di millemila colori diversi, gli dice il contrario. Gli dice che qualcosa da dire ancora c'è, dopo tutto.
"E allora fai parlare me, cazzo. Dammi almeno la possibilità di dirtelo. Mi dispiace Ma', mi dispiace non sai quanto. Non ha significato niente e lo sai, e sai anche che non posso dire più di così, ma ti prego, ti supplico, credimi."
E Davide, che dice quelle parole tutte d'un fiato, neanche si rende conto di essersi alzato in piedi, di essergli arrivato vicinissimo. Ma Mario arretra contro la porta e lo guarda supplicandolo di allontanarsi e non riesce a negargli questo, non quando i suoi occhi sono l'unica cosa che non riesca a sottomettere alla rabbia e alla delusione e al disgusto, ma solo al puro e semplice dolore per quello che gli ha fatto.
"Da', non ti voglio sentire, non mi interessa. Non mi interessa sapere perché lo hai fatto, non mi interessa sapere se ti è piaciuto o se lo ami o che cazzo ne so... Non mi interessa se ti dispiace perché io ci ho provato, cazzo, ci ho provato a starti dietro, a essere paziente e a comportarmi bene per tutti e due, perché tu lo hai fatto con me e io ti dovevo almeno questo, dovevo almeno starti vicino e volerti be-... " e Mario la ingoia quella parola così piccola e così importante, la ingoia, con le sopracciglia che si aggrottano e tremano per un attimo, perché non vuole cedergli anche quello, non più, non dopo che gli ha ritorto contro tutto quello che sono.
"... ma non è bastato comunque, perché io non sono quello che vuoi adesso. Non è bastato e io non ce la faccio a essere ciò che tu vuoi e ciò che tu cerchi. Quindi non dirmi che ti dispiace, perché fai solo peggio. Fai solo fottutamente peggio".
"E cosa vuoi che dica, allora?! Che mi è piaciuto, che volevo farti questo?! Ma', ma che cazzo stai dicendo? Pensi davvero che se potessi tornare indietro non tornerei con te in albergo, che non preferirei che quella cazzo di notte non fosse mai esistita perché si è mangiata tutto quello per cui ho lavorato sin ora e tutto il rispetto che avevo per me stesso?! Ma', io amo te. E non me ne fotte un cazzo di sembrare una ragazzina esaltata qualunque, ma amo te e basta. E tu lo sai, cazzo. Lo sai, quindi almeno questo me lo devi concedere." E la sua voce sale di tono ad ogni parola, con le guance e il collo che bruciano per la rabbia e l'esaltazione di quell'attimo e gli occhi che pizzicano, ma Davide non ha intenzione di piangere ancora, non in quel momento, non quando deve combattere e basta.
"E cosa cambia se te lo concedo? Cosa cazzo cambia, dimmelo! Perché per quanto io ti voglia credere, per quanto io ti creda, ogni volta che ti guardo, adesso, mi immagino cosa abbia visto lui quella sera. Mi immagino come ti abbia toccato, i suoni che ti saranno usciti di bocca a ogni carezza, le espressioni che avrai fatto mentre ti scopava; Cristo, non riesco a togliermi dalla testa l'immagine di come deve essere stato il suo cazzo dentro di te. E quindi non riesco più neanche a guardarti, porca puttana. Non ce la faccio proprio, perché non riesco a smettere di pensare che lo volevi, che volevi lui e che hai lasciato che ti avesse come ti ho avuto solo io, hai lasciato che prendesse tutto ciò che c'era di mio in te... " e la voce di Mario invece si abbassa, come le sue spalle e la sua testa, e Davide ad ogni parola si sente morire, perché capisce ogni singola emozione, capisce fino a che punto lo ha calpestato, capisce cosa gli ha fatto ed è troppo oltre. Oltre la preoccupazione, oltre lo scazzo, oltre la delusione, oltre il dolore e la vergogna, oltre quello che avrebbe potuto immaginare. E per un attimo minuscolo gli pare che sia tutto inutile, che questa volta non ci sia più niente da aggiustare, che si sia solo illuso che ci fosse una speranza piccola piccola, perché Mario è rotto e non è una bambola e quindi la colla non basta a tenerlo insieme.
"Vuoi che vada via?"
"Se pensi che non vederti basti a non pensarti, sei ancora più stronzo di quanto io non abbia capito."
"E allora dimmi cosa fare per farti stare meglio, perché non riesco più a capirlo da solo. Dimmi cosa vuoi e io lo farò, te lo prometto. Vuoi che mi levi dai coglioni? Vuoi picchiarmi? Vuoi che sparis-..."
"Tu proprio non capisci, Da'. Non capisci mai. Lo sai qual è la cosa peggiore, in tutto questo? Che so benissimo che non riuscirò a starti lontano ancora a lungo. Perché io ho davvero bisogno di te e neanche il fatto che tu mi abbia messo le corna basta per tagliarti via. Neanche sfigurarti la faccia a pugni cambia qualcosa, perché non è quello il punto. Il punto è che lo so che arriverà la mattina in cui mi sveglierò e mi sarà passata, perché sei tu e io non riesco a stare senza di te, nonostante tutto. E ti odio per questo, ti odio in un modo che neanche puoi capire, perché hai lasciato che ti credessi solo mio e poi mi hai lasciato come un coglione a chiedermi cosa fare quando non c'eri più. E se te ne sei andato una volta, perché dovresti restare adesso? Cosa c'è di diverso, cazzo, per cui tu debba rimanere?". E Mario semplicemente scivola a terra, la testa tra le ginocchia e il respiro pesante, le mani che vagano sul tessuto della cuffietta che si è infilato per proteggersi dal freddo milanese. E Davide non riesce a controllarsi e scivola a terra anche lui, le ginocchia nude contro il pavimento gelido e le mani che stringono i polsi nerissimi del ragazzo che gli sta davanti e le parole che escono da sole, senza un minimo filtro.
"Io sono qui, sono qui. Ci sono io e ci sei tu. Non mi senti? Mario, ti prego. Ti prego, mi dispiace..." e la sua testa si solleva e Davide può sfiorare le guance caldissime, può sentire sulla pelle il suo alito e i suoi occhi scurissimi e dopo quello sguardo gli sembra di poter morire, perché il solo fatto che Mario ancora lo guardi così vale una vita intera.
"Io sono solo tuo davvero, lo sai. Mario, davvero, io non ce la faccio più. Se mi credi, riprendimi allora. Riprendimi perché io non aspetto altro, cazzo. Ti prego..." singhiozza, e non sa quante altre suppliche gli sfuggono di bocca, perché Mario è più veloce e si avventa sulle sue labbra e le ingoia tutte e non c'è niente che possa impedirgli di ricambiare disperatamente quel bacio, neanche il dolore per il labbro spaccato da cui scivola un rivoletto di sangue. E il suo sapore è ancora lì, e anche la sua fame, e a Davide sembra di poter prendere fuoco per quanto si sente nuovamente vivo contro quelle labbra, contro quel corpo, in quella casa, la loro casa.
E quando le loro labbra si separano Mario se lo stringe contro togliendogli quel filo di fiato che gli è rimasto e Davide lo stringe a sua volta, pigolando scusascusascusa contro il suo collo e toccando quanto più può le sue braccia, le sue spalle, la sua schiena, per ricordarsi come sono contro le dita.
E poi ci sono solo i singhiozzi di Mario contro la clavicola, le sue mani che lo toccano ovunque quasi ad accertarsi che sia vero, che ci sia proprio lui tra le sue cosce e tra le sue braccia e Davide non capisce più un cazzo, perché l'unica cosa che vuole è averlo di nuovo così vicino da non capire più dov'è che sono divisi.
E quindi si tira su all'improvviso, le gambe che tremano un po' e le guance che bruciano da morire mentre gli tende una mano; e Mario lo guarda per un momento solo, gli occhi arrossati, prima di allungarsi e di intrecciare quelle dita con le sue, pronto per farsi sollevare e per andare nella loro stanza, insieme.
E lì, nella penombra, non c'è più spazio per le scuse, per la paura o per la vergogna, perché sono solo loro; e quindi le mani bianche di Davide, indecise, che aprono la felpa di Mario e scorrono sulla pelle nerissima, indugiando sul capezzolo con la punta del pollice per poi continuare a scorrere sulle costole e lungo la linea degli addominali scolpiti, con una devozione tale da farlo sentire una preziosa statua di marmo e non di semplice carne. E Mario non resiste, non quando gli vede addosso quello sguardo attento e devoto, le labbra incurvate in un piccolo broncio concentrato, non ora che non lo tocca da un secolo, non ora che è semplicemente lì; e quindi se lo tira contro e lo bacia come non ha mai baciato nessuno, le mani che scivolano lente e languide sotto quella maglia troppo larga troppo vecchia troppo loro, stringendo prima i fianchi e poi salendo lungo quella schiena magrissima, sentendo ogni nervo in tensione, ogni vertebra sporgente. E Davide mugola, sciogliendosi come sempre, allacciando le braccia al suo collo e stringendoselo addosso come non ci fosse un domani, come se la sua pelle fosse acqua e ossigeno e vita, ecco. Ed è perfetto, solo questo. Perché, di tutte le cose che ha avuto in vita sua, Davide non pensa che ci sia mai stato qualcosa di altrettanto perfetto rispetto a quei momenti con Mario. E non è una questione di sesso o di voglie, perché tutto dipende dal modo in cui Mario lo tocca, come se fosse la cosa più preziosa della sua vita, come se fosse piccolo e fragile e assolutamente meraviglioso e lui lo sa che mai nessuno in vita sua avrà la capacità di farlo sentire così, necessario e importantissimo. Ed è in quelle mani che lo accarezzano sotto i pantaloni con carezze esperte e misurate proprio dove lui lo vuole, in quelle gambe che lo spingono verso il letto, che sta quell'equilibrio che non trovava più, perché Mario è la sua bussola e ha avuto bisogno di perderlo per rendersene conto sino in fondo.
Ma ora, tra quelle lenzuola che ancora profumano di loro, dell'ultima volta che sono stati insieme (e quanto tempo è passato?), Davide non vuole più pensare a nient'altro che a quel momento, a Mario che si è spogliato ed è nudo sopra di lui e lo guarda soltanto, mentre se ne sta disteso in modo scomposto, la maglia tirata su a scoprire lo stomaco tenero e bianchissimo, i pantaloni che stanno un po' più in basso di dove dovrebbero essere e le cosce schiuse come in un invito.
E Mario, continuando a guardarlo, si china a baciare la pelle morbida della pancia, affondando la lingua nell'ombelico per poi risalire sul petto e mordere piano un capezzolo, le mani che scivolano sulla sua pelle e lo spogliano di quel primo indumento. E poi la sua bocca è di nuovo sul suo stomaco, caldissima, e Davide sta ansimando, perché le dita di Mario sono esattamente sopra l'elastico dei pantaloncini e li tirano giù pianissimo, depositando baci umidi su ogni lembo di pelle che scopre, per poi tirarsi nuovamente su quando anche lui è completamente nudo e sudato e così eccitato da non riuscire a smettere di tremare, quasi volesse ammirare una sua personalissima opera.
E poi ci sono di nuovo le sue labbra sul collo e sulle spalle e Davide semplicemente non ragiona più, lasciando le mani libere di vagare sui suoi zigomi e sul suo cranio semi rasato, mentre Mario si sistema tra le sue gambe, una mano che scorre tranquilla su una coscia e l'altra che scivola più giù, penetrandolo piano e rubandogli un singhiozzo colmo di gratitudine ad ogni singolo affondo. E Davide è già così vicino e oltre il limite che non può sopportare ancora quei giochi e quei morsi e quindi lo implora ancora con millemila Tipregotipregotiprego pigolati al soffitto, che hanno un sapore infinitamente più piacevole degli ultimi che gli ha rivolto; e Mario non deve stare tanto diversamente, perché lo accontenta subito. E come lo sente spingersi dentro di sé Davide urla e si inarca tutto e lo stringe più forte che può, facendolo gemere di gola, perché è troppo. E' troppo riaverlo così vicino, poter studiare ogni minuscolo mutamento della sua espressione con gli occhi e con le dita, sentire i suoi fianchi muoversi in colpi decisi contro il suo bacino, che mandano scariche elettriche ovunque, sentire i morsi che affonda nel suo collo e le carezze lievi della lingua sul labbro gonfio, in una premura piccola e dolcissima.
E può solo abbracciarlo e baciarlo a sua volta, le labbra gonfie e il cuore che batte all'impazzata mentre gli sussurra all'orecchio che vuole solo lui persemprepersemprepersempre. E Mario viene con forza, quelle parole nelle orecchie, sussurrando senza fiato contro la sua clavicola una serie miomiomio e quello è il momento che Davide ricorderà per sempre di quella sera, una stupidissima e freddissima sera qualunque dell'autunno milanese, perché è stato il momento in cui tutto, nella sua vita, ha finalmente ritrovato il suo incasinatissimo ordine.
*
Se qualcuno all’inizio di quella stagione gli avesse detto che avrebbe passato il ventidue maggio duemiladieci insieme alla squadra, a Madrid, Davide avrebbe pensato a una battuta scema o a un sogno o a qualche stronzata simile.
E non per sfiducia o per superstizione, perché non è mai stato tipo da credere a qualcosa di diverso dai fatti concreti e tangibili (e loro quella finale la meritano, cazzo. La meritano perché è stato un anno fantastico e tutta la squadra è stata fantastica e perché, Cristo, non capitava da cinquant’anni e ce l’hanno fatta da soli contro tutti, alla faccia di tutti), non quando il suo destino e il suo futuro è stato capace di costruirselo con le sue sole forze e il suo solo impegno, ma semplicemente perché, quando il campionato è iniziato, la sua vita era così squilibrata e folle e disordinata e difficile da impedirgli di pensare al domani senza sentirsi sospeso nel niente più assoluto, figurarsi quindi se c’era spazio per una notte tanto magica tra le sue fantasticherie.
È strano, ma quei mesi nerissimi gli sembrano ora infinitamente lontani, quasi non fossero neanche un suo ricordo ma una storia qualunque sfumata dal tempo, quasi non fossero stati così brutti come gli era sembrato mentre li stava vivendo, quasi avessero assunto un buon sapore alla fine dei conti.
Forse se ora pensa queste cose è merito delle luci del Bernabeu, che bagnano l’immensità di quello stadio che Davide non ha mai visto prima di quel momento, rendendolo uno spettacolo al limite dell’umano.
Forse è l’aria che profuma di attesa, di eccitazione, di voglia, per un qualcosa che è tanto vicino e tanto lontano e che rappresenterebbe qualcosa di eterno nella storia sua e della squadra e della società.
Forse è lo spettacolo di tutto quel neroazzurro ovunque tra gli spalti, di quell’Amala, pazza Inter amala che per una volta non proviene dallo speaker di San Siro, ma da migliaia di voci che si uniscono fino a sembrare una sola, potentissima e limpida e speranzosa, di fronte al quale si ritrova a pensare che può davvero essere per sempre.
Per sempre con quella maglia (magari fino a mettersi la fascia più preziosa di tutte al braccio), per sempre con quei colori nella testa e nel cuore, per sempre con quei tifosi e con quell’emozione e quell’amore che in quel momento gli pare di sentire tutto in gola. Per sempre e basta, come nei film e nelle canzoni e nei romanzi a lieto fine.
Forse però sono i sorrisi di Mario, che brillano più delle luci dello stadio e sono più intensi di quei colori di cui si vestono ogni partita e catturano il suo sguardo quasi inconsciamente.
Forse tutto si riduce a quello, come sempre da che si conoscono.
Davide lo guarda passeggiare con Zlatan qualche metro più in là, le labbra spalancate in una risata genuina e piena e infantile mentre lo spintona, le mani che indugiano su quelle spalle larghe e magre con una delicatezza e una tranquillità che solo l’intimità è capace di dare e si ritrova a pensare che se tutto quello è ancora suo, nonostante tutto, allora anche quello può essere per sempre (e no, non gli frega un cazzo di avere appena vent’anni, perché si sente scorrere nelle vene, insieme al sangue, la convinzione che neanche in venti secoli potrebbe ritrovare due amori altrettanto perfetti con cui sostituire quelli che sta vivendo adesso); poi Zlatan lo vede e fa un cenno del capo a Mario, indicandolo con un sorrisetto ironico. Mario lo vede e inizia ad avvicinarsi, sorridendo in modo diverso, in quel modo che urla loro a chiunque sappia quale sia la vera natura del rapporto che li lega, e Davide si ritrova a sorridere a sua volta, senza sapere bene come e perché, solo per l’improvviso e intensissimo bisogno di farlo.
Non è stato facile riprendersi quel sorriso. Non è stato facile fare i conti con i suoi silenzi densi e la sua diffidenza involontaria e i suoi spazi improvvisamente troppo ampi per renderglielo raggiungibile, perché quei lati di Mario non lo hanno mai riguardato prima di quello. Non è stato facile riprendere le sue misure e riconquistare gli spazi che una volta gli appartenevano, ma c’è riuscito. Ci sono riusciti insieme. E non gli interessa fare paragoni tra quello che è stato prima e quello che è stato dopo, perché lui e Mario sono due costanti in continuo movimento e legate dalla reciproca necessità e basta solo questo per far assumere a tutta la realtà un senso improvviso ed evidente.
“Davide, ti prego, riprenditi la tua fidanzata. Mi ha stancato. E poi potrei impiegare più utilmente questo tempo. Dov’è il mister, per dire?” mugugna Zlatan, la tuta del Barça che continua a stonare sulla sua figura, nonostante sia quasi un anno che la indossa.
“Stronzo, per una volta che ci vediamo devi subito pensare a eclissarti per scopare con quell’altro?” si lamenta allora Mario, la spalla che sfrega contro quella di Davide in una carezza fintamente casuale, a cui quello risponde con una spintarella.
“Non credo sia l’unico. Guarda un po’ chi manca dei nostri, Mà.”
“Ma che cazzo, hai ragione. Quegli stronzi di Alen e Marko dove accidenti sono? Seriamente, non posso accettare di essere l’unico a non aver scopato prima di stasera. È ingiusto.”
È bello sentirlo parlare così. È bello perché sotto il tono fintamente imbronciato ci sono il divertimento e l’affetto ed è incredibile pensare che possa essere vero, dopo quanto accaduto tra lui e Marko. Ma Mario è tipo da queste sorprese, da queste manifestazioni tutte di cuore, proprio come quella volta in cui, dopo mesi di silenzi e indifferenza, si era avvicinato al più grande e lo aveva abbracciato con naturalezza, come se fosse un gesto da niente, lasciandolo dapprima interdetto e poi tremante nella sua stretta, mentre mormorava una sequela di scuse umide contro la sua guancia. Davide lo ricorda benissimo quel momento, perché gli si era stretto dolorosamente il cuore a vedere l’intera scena e perché non aveva potuto fare a meno di chiedergli, una volta a casa, cosa significasse quell’abbraccio; e Mario aveva evitato il suo sguardo torcendosi le dita, la voce fermissima mentre diceva Abbiamo parlato, sai. All’inizio avrei voluto spaccargli la faccia e le gambe e il cazzo e tutto, te lo giuro. Non riuscivo a guardarlo senza provare il desiderio fisico di fargli più male possibile, capisci? Poi però lui mi ha guardato in faccia e mi ha detto che cercava solo qualcosa che lo trattenesse qui. Che ha sbagliato, ma che aveva bisogno di un motivo, di una scusa, che gli impedisse di sentirsi completamente fuori posto e solo, qui a Milano, che gli impedisse di fare i bagagli e andarsene il più lontano possibile consapevole di aver fallito su tutta la linea. Che è stato stupido ed è stato un errore enorme e gli dispiaceva. E io ancora volevo spaccargli la faccia, davvero, ma allo stesso tempo capivo di che stava parlando, perché anche io un anno fa ero nella sua stessa condizione e sapevo esattamente come ci si sente a stare contro tutto e tutti. Anche io ho cercato qualcosa a cui aggrapparmi per non cadere e per non cedere. Io mi sono aggrappato a te, in fondo. Certo, non ho ferito nessuno nel farlo, ma il mio comportamento non è stato tanto più eroico del suo, viste le responsabilità che ti ho scaricato addosso. Sei l’unico motivo per cui sono ancora qui e non al fottuto Real o al fottuto Arsenal. Poi ho pensato a quante volte ho fatto cazzate, ferendo la gente a cui tenevo, che è sempre stata pronta a perdonarmi comunque, anche quando dimostravo di non meritarlo. E io non lo so se l’ho perdonato davvero sino in fondo, sinceramente, perché ha fatto una gran stronzata a pensare di potersi mettere tra noi. Però non sono più arrabbiato, ecco. E non voglio che vada via, voglio che trovi un motivo per rimanere.
E il desiderio di Mario si è esaudito, perché Marko quel motivo lo ha trovato indipendentemente da loro ed è Alen ed è incredibile quanto questo abbia cambiato le carte in tavola nella sua storia personale e professionale, viste le quindici presenze finali con sette gol.
“Be’, resta sempre il dopo partita.” sussurra Davide, arricciando il naso e ridacchiando quando lo sente grugnire insoddisfatto.
“Credi davvero che dopo la partita avremo il tempo o la voglia di scopare? Okay, magari la voglia sì, ma il tempo mancherà di sicuro. Staremo festeggiando!” si lamenta ancora quello, mentre Zlatan si allontana con un Dios tra i denti quando Henry lo richiama verso la sua metà campo.
“Sei nervoso, uhm?” dice allora, studiando la sua espressione e sapendo di aver colto nel segno nel momento in cui quello aggrotta le sopracciglia, sciogliendosi in una risatina subito dopo.
“È così evidente? Dio, sto impazzendo. Sai cosa, Dade? Voglio stenderli tutti. Voglio dimostrare a tutti che mi merito il mondiale e che non sono un minchione. Voglio vincere questa cazzo di Coppa per me, per te e per il Presidente e perché abbiamo sputato sangue tutto l’anno. Voglio vincere per dimostrare a Zlatan che ha sbagliato a mollarci così. Sono completamente rincoglionito?”. Mario borbotta tutto questo quasi casualmente, guardandosi attorno con gli occhi che brillano di determinazione e emozione e voglia, e Davide sa che quel suo sguardo fa da gemello al proprio, quindi risponde “No. Penso che sia bello, in realtà. Penso che sia lo spirito giusto con cui scendere in campo. Penso che voglio vincere questa cazzo di Coppa anche io.”
“Voglio che sia la nostra sera.”
“Facciamo in modo che lo sia, allora.”
Quando il richiamo della panchina li coglie, si rendono conto di essersi avvicinati troppo, i respiri che si infrangono l’uno contro la pelle dell’altro.
È quasi ora, dice Beppe. Scendete a cambiarvi.
Mentre scendono negli spogliatoi, i tifosi più vicini alla panchina applaudono e gli urlano incoraggiamenti, senza accorgersi dello sfiorarsi reciproco delle loro dita a ogni passo che compiono.
Note finali: E' stato un PARTO. Non so neanche quanto tempo ci ho messo, non ricordo più com'è iniziata e adesso neanche so come ho fatto a finirla, so solo che c'è, che è enorme e che è stata un'esperienza "importante" scriverla.
Per una volta non mi interessa neanche stare a piagnucolare su quanto sia brutta o bella o strana o pazza o noiosa o tutto il resto delle cose di cui mi lamento, perché sono esattamente conscia di tutti i limiti che ha, sono conscia della sua banalità e un po' anche della sua superficialità, ma va bene così, perché per la prima volta voglio bene a qualcosa che scrivo.
Va bene così anche perché è stata un punto di partenza e pure un punto d'arrivo e non potevo chiederle di più, perché ha strappato reazioni che mai avrei potuto immaginare o sognare, perché tutto questo è nato dall'amore smisurato che provo per tutti e tre (in modo diverso, ma li amo tutti e tre e ci terrei che il mondo non odiasse il cinghialotto, per dire) e quindi, insomma, non c'è niente di cui mi debba vergognare.
Be', non so che altro dire. Se siete arrivati sino a qui, vi devo un grazie enorme, quindi prendetevelo. :*
EDIT: Ah, il titolo viene dalla bellissima "Mi fido di te" di Jovanotti, una canzone che amo tantissimo e che a mio parere è molto, molto, molto Santonelli ♥