Titolo: No Mercy, No More
Fandom: Heroes
Ship: Sylar/Maya
Rating: PG
Prompt: Scelta Libera
Parole: 3753
Caratteri: 23311
EFP:
LINK.Summary: Era arrivato là dentro cacciatore, ma sentiva di starsi trasformando lentamente in preda.
Note: Perché ne avevo voglia. Dedicata a Eli perché .. sì, e perché ne deve scrivere tassativamente una anche lei adesso ù_ù Per Surinder, Eli, susu!
Tabella:
TABELLA. No Mercy, No More.
Sparkling angel, I couldn't see
Your dark intentions, your feelings for me.
Fallen angel, tell me why?
What is the reason, the thorn in your eye?
I see the angels,
I'll lead them to your door
There's no escape now
No mercy no more
No remorse cause I still remember
The smile when you tore me apart
You took my heart,
Deceived me right from the start.
You showed me dreams,
I wished they'd turn into real.
You broke a promise and made me realize.
It was all just a lie.
Could have been forever.
Now we have reached the end.
(Within Temptation - Angels)
Un tuono improvviso squarciò il silenzio della navata centrale, illuminandola per un fugace attimo, prima che tutto ritombasse nel buio più opprimente.
Gli aveva fatto uno strano effetto vedere quelle figure distorte delineate sui vetri colorati apparire e scomparire in rapida sequenza, come in uno sguardo inatteso che aveva intercettato le sue mosse. Si era sentito stupidamente colto in flagrante, si era sentito osservato, si era sentito scoperto, solo con la sua colpa in quella chiesa deserta.
Non ricordava esattamente qual'era stata l'ultima volta che era entrato in un ambiente simile. Doveva essere stato molti anni prima, quando sua madre era ancora in vita.
Ricordava ogni santissima domenica mattina trascorsa su una di quelle panche opache, lo sguardo perso nel vuoto, in totale contrasto con quello di Virginia, sempre vigile e attento, continuamente puntato in direzione dell'abside.
Si era chiesto tante volte quale potesse essere il sentimento di totale devozione che animava sua madre. Quel bagliore era là, fisso nel suo sguardo.
Gabriel si era sempre sentito in dovere di provare la stessa identica devozione: si sforzava di capire, le prestava costantemente ascolto, tentava di restare attento per tutta la durata della Messa, ma la sua mente finiva irremediabilmente altrove dopo qualche attimo. Tutti i tentativi di focalizzarsi solo e soltanto sulla funzione, finivano miseramente a vuoto. Si era dato di stupido, si era insultato da solo, si era fatto la violenza di leggere... leggere qualsiasi cosa riuscisse a trovare nella scarna libreria della madre. Erano per di più testi sacri. Si era sforzato di capire, nell'attesa che qualcosa gli si smuovesse in petto a leggere di questo o quel miracolo, ma raramente riusciva ad illudersi. Aveva comunque continuato: adorava gli sguardi che gli rivolgeva sua madre tutte le volte che si avvicinava a quello scaffale sbilenco, occupato, più che altro, da quelle sue sfere di vetro piene di neve, innaturalmente immobili nella loro polverosità.
Nonostante tutto, sentiva di essere osservato. Era convinto che qualcuno o qualcosa, dall'alto, continuasse a controllare minuziosamente il suo operato, senza dargli un solo attimo di tregua, non un secondo per poter riprendere a respirare.
Si era dimenticato che effetto gli facesse quella sensazione di impotenza davanti a quello sguardo indagatore, ma in quel momento esatto, gli sembrò di non averlo mai scordato. Fisso e impietoso. Ovunque.
Staccò a fatica gli occhi dalla vetrata ormai ritornata nell'ombra, temendo, in qualche modo, che quella figura tornasse ad illuminarsi per poterlo cogliere di sorpresa.
Ancora una volta.
Tentò di rilassarsi. Appoggiò la schiena alla colonna dietro la quale si stava nascondendo.
Sentiva solo il battere incessante della pioggia sui vetri, e il frenetico martellare del suo cuore.
Detestava il modo in cui ogni più piccolo suono risultasse innaturalmente amplificato in quel posto. Aveva la sgradevole sensazione di essere completamente scoperto, da solo di fronte ad un giudizio ultimo, che lo avrebbe finalmente condannato per tutti i peccati che aveva commesso. Non aveva mai realmente sentito il peso dei suoi delitti: doveva agire in quel modo, doveva togliere a chi non meritava, doveva impedire che tutti quei doni andassero sprecati, o dimenticati in qualche buio angolo di mondo di cui nessuno si sarebbe mai accorto.
Non poteva permetterlo. Aveva il potere per far sì che non accadesse, e allora perché lasciarsi sfuggire l'occasione di sganciarsi da quella vita anonima che aveva condotto fino a quel momento? Non avrebbe avuto senso.
Il destino aveva bussato alla sua porta, e far finta di niente, ignorare la chiamata, era totalmente fuori discussione.
Però, tra quelle ombre che non lo nascondevano, si sentiva solo e alla mercè di qualcosa di invisibile, per non parlare di quell'enorme peso che si portava sulle spalle ormai da mesi. Ma non riusciva a mentire, non in quel momento.
La solennità del luogo lo stava condizionando fino all'inverosimile.
Una parte di lui premeva per uscire, una parte che era rimasta sopita per tanto tempo, una parte che sperava essere definitivamente morta.
Dopotutto non ne aveva più bisogno.
Sua madre era morta, lui l'aveva uccisa, per un tragico incidente, certo, ma non c'era più nessuno sguardo d'ammirazione da potersi guadagnare.
Nessuno gliene avrebbe più rivolti.
Questo lo sapeva fin troppo bene.
Si era abituato all'idea, e non gli era mai apparso come un vero e proprio problema. Aveva ben altro di cui preoccuparsi, non gli interessava di dover compiacere qualcuno. L'aveva fatto per tanto tempo, adesso non aveva più alcuna intenzione di continuare per quella strada.
Un rumore improvviso lo costrinse a trasalire, raddrizzando la schiena, premendola maggiormente contro la colonna fredda, sperando quasi di poter diventare un tutt'uno con la pietra ruvida.
Era arrivato là dentro cacciatore, ma sentiva di starsi trasformando lentamente in preda.
Non sapeva come fossero riusciti a trovarlo, ma gli era bastato poco per ricordarsi di Molly Walker, quella ragazzina con la straordinaria capacità d'individuare le persone ovunque esse si trovino, in qualsiasi parte del mondo, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Gli venne da ridere pensando a quello stupidissimo piano messo in piedi da Suresh.
Aveva rivisto anche quella biondina dall'aria schizzata, che l'aveva poco elegantemente congedato dal laboratorio in cui si era ripreso i suoi poteri e riappropriato del suo più grande tesoro.
Il laboratorio in cui Maya l'aveva costretto ad ucciderla, a sangue freddo, senza ripensamenti.
Povera stupida... si era sempre chiesto se stesse desiderando vendetta. Vendetta per la morte di quel suo altrettanto stupido fratello, dall'aria spaesata, o con quell'odiosa parlantina spagnola che riusciva a mandarlo in bestia.
Il pensiero l'aveva assillato per una notte intera, per poi sparire con il dileguarsi della notte, e il sorgere dell'alba successiva. Che importanza poteva avere?
Nessuna.
Era al calare della sera che si sentiva maggiormente indifeso.
Quando restava solo con se stesso a rimuginare e a pensare... quando l'immaginazione prendeva il sopravvento e non gli lasciava via di scampo.
Non se n'era mai fatto un vero e proprio problema. Qualsiasi dubbio era presto dimenticato non appena subentrava il sonno, ed ogni mattina una ferrea sicurezza aveva soppiantato le indecisioni, che sembravano solo lontani ricordi di un sogno dai contorni indefiniti.
Sobbalzò per la seconda volta.
Di nuovo quel rumore... sembrava un battito cardiaco stranamente accelerato, mischiato a qualcos'altro che non riusciva bene a riconoscere.
Se fosse stato più calmo, forse, avrebbe fatto miglior uso di quel super-udito che si era premurato di procurarsi.
Suresh era sparito chissà dove. Lui aveva deciso di seguire l'altra figura, che l'aveva condotto fin lì.
Probabilmente per nascondersi: quale luogo migliore di una chiesa per poter chiedere asilo? Pietà?
Come se gli assassini più spietati tenessero conto del luogo in cui perpetrano le loro violenze. Non avrebbe fatto alcuna differenza.
Affatto.
Decise di aggirare la colonna per avere un maggior accesso alla navata centrale, che si stagliava imponente e silenziosa di fronte a lui.
Quel battito cardiaco si era fatto improvvisamente più nitido.
E poi l'ennesimo lampo, quel flash acciecante, lo sguardo secco e immobile della figura sulla vetrata, il buio subito dopo.
Doveva uscire di lì.
Non gli interessava se Suresh lo stava inseguendo accompagnato dalla schizoide o da un qualsiasi altro membro di quell'associazione di folli che si occupava di impedire alle persone di poter sfruttare i propri doni.
Quale intento meno nobile?
Mohinder gli era già apparso ingenuo, ma adesso la sua testardaggine stava decisamente sfociando nell'azzardo più cieco.
Non l'aveva ancora capito che nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo?
Aveva deciso cosa sarebbe successo, già delineato il suo percorso, già disegnato la sua personalissima rappresentazione del futuro.
*
Era rimasto in fissa della parete per un lasso di tempo che non riusciva ad identificare.
L'odore acre delle tempere riempiva la minuscola stanza.
Aveva le mani e il viso imbrattati di nero e bianco.
Il potere di Mendez non si era mai rivelato così inutile.
Uno sguardo ricambiava insistentemente il suo.
Spaurito, ma allo stesso tempo deformato da una spaventosa risolutezza.
Occhi di donna, un po' stilizzati, immersi in un buio pressoché totale.
Gli sembrò di conoscere quello sguardo, ma non riuscì ad identificarlo.
Era qualcosa che aveva già visto, ma non così.
Erano scuri e profondi.
Ebbe paura per un fugace attimo, prima di lanciare la tavolozza contro l'altra parete, frustrato.
Cos'avrebbe dovuto dedurre da quello stupidissimo paio di occhi?
Cosa?
Gli erano perfettamente inutili.
E, oltretutto, gli davano solo fastidio.
Non sentiva il minimo bisogno di sentirsi osservato.
Gli era necessaria una dritta, aveva trovato il tempo di rinchiudersi là dentro, nel primo motel anche solo lontanamente decente in cui era incappato prima di far ritorno in città, solo per potere dare una sbirciata al futuro.
E tutto quello che il futuro gli riserveva, era uno sguardo che non lo rassicurava affatto.
Un misero paio d'occhi.
*
Avvertì un clic improvviso, risuonargli nell'orecchio.
Era il caricatore di una pistola. Un'automatica forse.
Ne riconobbe immediatamente il suono.
- Sta' fermo.
Non registrò immediatamente l'effetto che gli fece quella voce. Si sentì dapprima sollevato, poi quasi divertito. Nessuna delle due sensazioni, comunque, era destinata a durare a lungo.
Conosceva quell'accento. Lo conosceva fin troppo bene.
Se ne era preso gioco una quantità infinita di volte.
Si sentì nuovamente in vantaggio. Non c'era più nessuna vetrata dall'aria minacciosa pronta a mettere a nudo tutte le sue crudeli ambizioni, c'era solo quella voce che lo faceva ridere.
Un odore familiare gli arrivò alle narici, mentre un sorriso storto gli si dipinse sulle labbra, in una strafottente convinzione di aver il totale controllo sulla situazione.
- Maya.
Disse semplicemente, con cadenza odiosa, prima di voltarsi molto lentamente verso di lei.
Il sorriso gli si aprì maggiormente sul viso, in una smorfia di derisione, che lei non tardò a cogliere.
Accennò alla pistola che gli stava deliberatamente puntando contro, accompagnata da un'espressione che voleva probabilmente essere minacciosa, ma che non faceva altro che contribuire alla comicità di quel momento.
- Lo sai che non puoi farmi niente.
Le disse, spostandole l'arma di lato con un gesto quasi annoiato.
Era tutto lì ciò che Suresh sapeva fare?
Era questo il suo invicibile alleato nella lotta al male?
Maya. Ingenua e fragile. Avrebbe potuto toccarla e sarebbe caduta in frantumi, là di fronte a lui.
Adorava l'effetto che aveva su di lei. Gli conferiva la stessa onnipotenza che gli davano i suoi poteri.
Era un potere di un altro tipo, certo, ma non per questo meno gratificante.
Magari solo perfettamente inutile.
- Mohinder e gli altri stanno per arrivare.
Riprese a parlare lei, tornando a puntargli la pistola contro.
La voce le tremava appena.
Un brivido corse su per la schiena di Sylar, mentre una piacevole sensazione lo invadeva.
Una sensazione che, si sorprese, non aveva ancora dimenticato.
- Credi che Mohinder e gli altri possano fare qualcosa?
- Ti renderanno innocuo.
- Ci hanno già provato.
Le si avvicinò, incurante della minaccia che incombeva.
- Hanno provvidenzialmente taciuto i loro fallimenti?
La provocò di nuovo, aspettandosi un qualche segno di cedimento, che però non arrivò.
Nascose qualsiasi ombra di delusione.
- Non puoi fuggire per sempre.
- Oh sì che posso.
- Nessuno... - mormorò - nessuno può farlo, Gabriel.
L'afferrò improvvisamente per le braccia, serrando follemente la presa e sbattendola senza alcun riguardo alla colonna alle sue spalle.
Un colpo partì senza alcun preavviso, riempiendo immediatamente l'intera chiesa, rimbombando ovunque e sovrastando, per un attimo, il rumore della pioggia e dei tuoni.
- Non mi chiamo Gabriel!
Le urlò furioso, alzando due dita affinché la pistola le scivolasse di mano e schizzasse sul pavimento, lontana da entrambi.
- Non mi chiamo Gabriel.
Tornò a ripetere, più calmo, scandendo attentamente le parole.
- Non è fingendo di essere qualcun altro che riuscirai a scappare.
Trovava irritante il modo in cui parlava. Aveva paura. Una paura folle, la sentiva. Poteva toccarla, palparla, la leggeva nei suoi occhi.
E allora perché continuava a rispondergli in quel modo?
- Ti ucciderei di nuovo se non trovassi il tuo potere assolutamente inutile.
Precisò.
- Una volta per tutte.
Aggiunse poco dopo. Era così fastidiosa. Si pentì di non averla tolta di mezzo prima.
Definitivamente.
- Come hai fatto con Alejandro?
Domandò lei. La voce che si smorzò sul finire della frase, confondendo il nome di quel fratello al quale non aveva creduto.
Sylar scoppiò a ridere, incoerentemente.
- No.
Rispose scuotendo il capo, allentando appena la presa sulle braccia di lei.
- No.
Ripeté.
- Lui era ancora più inutile di quanto non sia tu.
Le sorrise di nuovo, fissandola quasi ossessivamente.
Si sorprese di star cercando un minimo di devozione nel suo sguardo. Devozione... se l'avesse costretta ad implorare pietà avrebbe riconosciuto qualcosa di simile nei suoi occhi?
Era curioso.
- Dio ti punirà.
Si sentì rispondere.
- Dio ti punirà.
Disse ancora lei, per renderlo più convincente.
- Da lui non potrai nasconderti.
Stava tremando.
La smorfia che percorse il viso di Sylar non aveva niente di rincuorante. Non era niente di beffardo, era puro disgusto. Come osava parlargli di misericordia?
Perdono? Non riusciva a sopportarlo.
Lasciò scivolare via le mani, allontanandosi di un passo dal suo corpo caldo e profumato.
- Hai ucciso più persone di quanto non abbia fatto io, Maya.
Sentenziò dopo un attimo.
- Ne hai uccisi più di me.
Trovò di nuovo la forza di sorriderle.
- Innocenti morti a causa tua. Che differenza vuoi che faccia, eh Maya?
- Io... -
- Shhhh. -
La mise a tacere portandosi l'indice alle labbra.
- E' il tuo dono, Maya. E' il tuo potere. Non puoi rinnegarlo.
- Non sarà mai come dici tu... meraviglioso. E' soltanto demoniaco.
- Demoniaco?
- Non siamo uguali.
- Siamo la stessa identica cosa.
- Non è vero.
- Assassini, Maya.
- No.
- Perfidi, vili, crudeli assassini.
- NO!
Le scoppiò a ridere in faccia, ma si sentiva nervoso. Paragonarsi a quella stupida ingenua non lo faceva sentire bene... ma gli piaceva farle perdere l'equilibrio, versare la goccia che le avrebbe fatto rovesciare il vaso. Godere del suo smarrimento, gioire della sua paura.
- Maya, Maya, Maya...
Il respiro di lei era accelerato bruscamente. Stava stringendo gli occhi, impedendosi di iniziare a piangere. Un brivido lo colse del tutto impreparato.
- Che stai facendo?
Assottigliò lo sguardo, avvicinandola di nuovo.
Perché non si lasciava andare e basta? L'avrebbe messo in seria difficoltà. Perché utilizzare una vuota arma da fuoco quando poteva ucciderlo solo versando qualche lacrima? Quel pianto nero e denso, che l'avevano affascinato così tanto. Si era lasciato tentare, aveva rischiato, solo per poterle insegnare a fare a meno di chiunque altro. Le aveva insegnato a controllare il suo dono.
Perché?
- Maya...
Chiamò di nuovo, innervosito dal mutismo che stava ricevendo in risposta.
- MAYA!
Gridò improvvisamente, colpendola violentemente al volto con una mano.
Sgranò gli occhi subito dopo guardandola voltare il capo di lato, mentre i capelli le nascondevano il viso.
- No...
Mormorò senza alcun senso, provando qualcosa di molto simile al disgusto.
Verso se stesso.
- Sei un mostro.
Si sentì rispondere. Non lo stava guardando... si limitava a tenersi una mano sulle labbra, presumibilmente ferite.
Restò in silenzio, per la prima volta a corto di parole.
Doveva uscire di lì. Doveva andarsene prima che Mohinder arrivasse con i rinforzi.
- Mi hai ingannata... sin dall'inizio.
Riprese dopo un secondo a voce bassa.
- Io...
- Sta' zitta.
- Perché?
- Se non vuoi morire, sta' zitta, dannazione!
- A me non interessa.
- Ah no? Cosa direbbe il tuo stupido fratellino se lo sapesse?
- Sei pazzo.
- Forse.
- Sono stata così stupida...
Rialzò il capo, scuotendolo leggermente, inebetita dalla sua infinita stupidità.
- Gabriel... come l'angelo.
Disse ancora, sarcastica.
- Proprio come l'angelo.
Le fece eco lui.
Era stata il suo mezzo per tornare ad avere i suoi poteri. Per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare niente di deprecabile nel suo comportamento.
Certo, lei gli aveva dato più di quanto lui avesse richiesto. Era stata una... piacevole parentesi, ma mai aveva pensato di poter anteporre qualcosa al suo unico opprimente problema: trovare Suresh e farsi curare, una volta per tutte.
- E quella scenata su tua madre... hai mentito...
- No.
Lo fissò per un lunghissimo attimo, senza aver paura di sostenere il suo sguardo penetrante.
- No?
- Ti do cinque minuti per sparire, Maya.
Non voleva ucciderla. A che scopo? Non ammazzava per il puro gusto di farlo, e il suo potere non gli avrebbe dato alcuna soddisfazione. Solo all'idea di doversi mettere a piangere per uscire illeso da un qualche scontro, gli veniva da ridere. Aveva ancora una dignità, dopotutto.
- Perché non mi uccidi?
- Perché non ne ho voglia.
Le voltò le spalle, pronto ad andarsene. Forse Dio l'avrebbe trovato sul serio prima o poi, ma non sarebbe stato lui ad accelerare i tempi, o a rendergli facile la cosa.
- Non è un valido motivo.
La sentì ribattere.
Lo stava trattenendo?
Tornò a guardarla di malavoglia, stanco di quella situazione priva di senso che gli stava solo facendo perdere del tempo prezioso.
- Lo è per me.
- Non per me.
- Non mi interessa.
Stava ridendo di nuovo, ma non gli piaceva la piega che aveva preso il discorso.
- Gabriel...
- No.
- Puoi ancora...
- Ho detto no.
Sentenziò seccamente riavvicinandola di colpo. La spinse di nuovo contro la colonna, bloccandole qualsiasi via d'uscita con il proprio corpo.
-... chiedere perdono.
- Non cerco il perdono.
- Ne hai bisogno.
Stava sussurrando. Quand'era nervosa il suo inglese suonava ancora più ridicolo.
- No...
Esalò in risposta, sospirando piano.
- Sì, Gabriel.
Le afferrò prepotentemente le braccia fasciate di nero.
- E' Sylar.
- Perché... ?
La sentì sporgersi in avanti, avvicinandosi al suo volto.
- Che stai facendo, Maya?
Non rispose. Seplicemente perché non aveva una risposta.
Soffiò appena, spostando l'attenzione sulle labbra di lui.
Assolutamente perfette.
Cercò il suo sguardo ancora una volta, ma non la stava guardando.
Sentiva il calore delle sue mani sulle proprie spalle.
Decise di rischiare, accarezzandogli pigramente il volto con la punta delle dita. Le guance erano ispide sotto i suoi polpastrelli. La barba sfatta di qualche giorno le solleticava la pelle.
- Gabriel...
- No...
Ripetè debolmente, preso com'era dal profumo che emanava la sua pelle ambrata.
Le passò due dita sotto le labbra, cancellando la traccia di sangue che il suo schiaffo aveva lasciato.
Non riusciva ad allontanarsene. Forse era quello il motivo per cui non voleva ucciderla?
Erano solo le circostanze ad essere diverse... in altre non avrebbe sicuramente esitato.
O almeno stava cercando di convincersene.
Un altro tuono squarciò il silenzio, facendo sobbalzare entrambi.
L'afferrò per la vita strattonandola contro di sé, mentre quegli occhi di vetro variopinto tornavano a fissarlo inquisitori, e una sconcertante necessità di pensare ad altro si impossessò di lui.
Catturò le sue labbra morbide in un impeto di rabbia.
Non la sentì protestare: si irrigidì appena per poi rilassarsi subito dopo.
Gli piaceva sentire la sua mano sul viso. Era calda e sembrava dargli conforto.
Un conforto di cui aveva imparato a fare a meno.
Non ne aveva bisogno.
Non più.
Non da lei.
La baciò preopotentemente, serrandola nella sua presa, che si fece sempre più stretta ed esigente.
La sentì schiudere le labbra, permettergli di baciarla ancora, come aveva fatto il giorno prima della loro partenza per New York.
Il giorno in cui aveva ucciso Alejandro senza alcuna pietà.
Scese ad accarezzargli il collo, lasciando scivolare l'altra mano nella tasca del proprio giubbotto.
Interruppero il contatto solo dopo una manciata di secondi.
I respiri di entrambi affannati e spezzati.
- Non mi chiamo Gabriel.
Mormorò, senza crederci più di tanto.
- No... ?
Gli fece eco lei.
No, decisamente no.
Cadde il silenzio, accompagnato solamente dal battere della pioggia sulle vetrate immerse nell'ombra.
- No.
Sussurrò tenendo gli occhi socchiusi, forse per meglio sottrarsi allo sguardo di lei.
- No.
Ripetè lei.
Qualcosa come uno sbuffo di risata le risalì lungo la gola.
- Lo so.
Aggiunse.
Sylar riaprì di scatto gli occhi.
Un dolore lancinante lo costrinse a deformare il viso in una smorfia contrita.
Sentì un bruciore improvviso e fulminante.
- Cazzo.
Smozzicò a mezza voce mentre Maya ritirava la mano che ancora le tremava: gli aveva piantato una siringa nella spalla, iniettandogli chissà quale schifezza.
Aveva di nuovo paura. Lo stava fissando con i suoi occhi neri e sgranati, ma non tentò di allontanarsi.
- Mohinder ha detto che farà effetto in poco tempo.
Gli spiegò piano.
Sentì la rabbia ribollirgli nello stomaco senza alcun controllo.
- Sei una stupida.
- Lo so.
- Non potete fermarmi.
- Sì... possiamo.
- No.
- Sì.
Le scoppiò a ridere in faccia, debolmente, prima di indietreggiare di qualche passo.
Alzò un braccio, tentando di raggiungere la siringa ancora piantata nella spalla che continuava a fargli un male del diavolo.
Se la tolse con un gesto secco, lanciandola furiosamente a terra.
- Potevi ancora pentirti.
- No... no, io non devo pentirmi.
Le immagini avevano iniziato a confondersi davanti ai suoi occhi. Le ombre si stavano allungando, deformandosi pian piano, mentre il contatto con la realtà si faceva via via più labile.
Cadde a terra, perdendo l'equilibrio.
Maya esitò solo un attimo prima di accorrere al suo fianco.
- L'hai deciso tu... quando hai ucciso Alejandro.
- Non...
Tentò di dire qualcosa, provò ad alzare le mani, ad utilizzare i propri poteri, ma era davvero troppo debole per poterci riuscire.
Chiuse per un attimo gli occhi prima che l'ennesimo tuono accompagnato da un flash improvviso infrangesse nuovamente il religioso silenzio che vigeva là dentro.
E poi capì.
Riconobbe quello sguardo che lo aveva fissato dalla parete del motel.
Erano i suoi.
Erano quelli di Maya.
Che lo osservavano... a metà tra il determinato e il dispiaciuto.
E c'era altro.
Qualcos'altro a cui non riusciva a dare un nome.
- E adesso guarda cosa mi tocca fare.
Mormorò lei assecondando un bizzarro scherzo del destino.
Non c'era traccia di ironia nella sua voce.