Oct 15, 2008 12:02
“Io veramente. Veramente non. Non riesco a capire dove la trovi tutta questa - questa spensieratezza” mormora in questo borbottio informe, sputando l’ultima parola come se non gli piacesse neanche il suono.
L’altro ride come riderebbe Dio, di questa vena sindacale di lui che non conosceva, mentre sollevati gli occhiali a goccia, stropiccia l’occhio destro. Questa è la sensazione del terzo giorno, si dice. Il terzo giorno senza sonno. Gli mancava.
Maggio sembra profondamente inacidito da questa grossolana ironia.
A dieci metri dalla loro radura inospitale, da quello sterposo muricciolo. Una bellissima lei al secondo giorno, abbraccia in un sorriso un bellissimo lui al quarto. Maggio ha la certezza che prima o poi. Cortese morirà. È il tipo che ha qualcosa da dimostrare. A lui. Più semplicemnte, è un tipo stupido.
Che poi non si affretterebbe a chiamarla gelosia. Maggio non è mai stato un tipo frettoloso. Non riesce a formulare altro, per cui dev’essere vero. Deve davvero pensare questa sciocchezza.
“E’ così. Allegra.”
“Non dovrebbe?” Che non è difficile da districare. Deve riferirsi alla loro vita avventurosa, al poco denaro, ai buoni e rari pasti, alle notti ubriache e alla luna gentile, alle canzoni scritte tra le quattro mura bollenti di quella piccola macchina e alle volte che riescono anche a farsi lasciar suonare. E poi anche, si. A Cavaliere.
“Ma dico. Certe donne. Certe donne sono davvero disgustose quando sono felici.”
Simone ride di nuovo. Ride di gusto dondolando tra le dita le chiavi della loro piccola macchina. Della loro piccola, inospitale casa.
Prende tempo, forse. O forse no. Maggio fissa gli altri due, sempre più distanti e bellissimi, in questa polaroid sbiadita scattata alle sette del mattino e nel momento in cui rivolge lo sguardo a Simone. Un mignolo? Dev’essere una sigaretta. Una sigaretta gli pende dal labbro, come un naturale prolungamento cannibale. Maggio starnutisce, per il contrasto tra il freddo e il caldo del fuori e il freddo e il caldo del dentro, come troppe contraddizioni per un piccolo organismo stanco. Ma non solo.
“Mi. Me ne daresti. Potresti anche darmene.”
Simone gli risponde come una statua sorridente. È quanto di più assurdo abbia mai sentito uscire da quelle belle labbra cerchiate di stanchezza e di una nuova, superiore forma di felicità.
“Ci sono anche argomenti più seri per cui turbarsi. Sai?”
Maggio si siede a terra. Le natiche morbide fasciate dai jeans rovinati. Chi l’avrebbe mai detto. Jeans rovinati, e non curarsene. Gli scappa da ridere.
Eppure no. Polaroid. Lei sorride ancora. Bimbo, stanco di due giorni le porge una pasta dolce, eppure. Non ha voglia. Lei sembra rifiutarsi di allontanarsi da quelle spalle smilze e da quello sguardo sincero.
Ancora, di tre o quattro o nessuno sa quanto beve il suo caffè accanto a Cavaliere. Un bel quadretto, considerato il peso perso dal primo e l’aria stranamente sicura del secondo.
Eccolo, quello sciocco senso di colpa. Nei confronti di sè stesso.
Dev’essere soltanto. L’incapacità di essere felice?
“Non è come pensi, vecchio mio” lo interrompe il vecchio. Come riesce a...? “E’ una dote naturale, si. Una dote. In ogni caso. Sei un moccioso. Durerà ancora qualche minuto, poi scoprirai quanto sono dolci i canditi nel tuo dolcetto e tornerà tutto a posto. Lo sai -” e lo fissa dall’alto in basso, con quella strana intensità disinteressata “Potrei quasi dire che. Ti detesto.” E poi sorride. Con su la sigaretta, il pizzetto e la goccia obliqua e dorata dei suoi occhiali da sole. Maggio si chiede spesso da dove sia arrivato e anche come se ne andrà. In definitiva, si risponde, si augura di non venire a saperlo mai.
In un sorriso allunga la mano come un gattino stupido verso il suo gomitolo, con la strana sensazione di star compiendo un gesto idiota. Non arriverà mai alla sigaretta, realizza mentre Simone ride ancora dall’alto del suo metro e novanta.
Ma capisce quel che voleva dire. E si siede accanto a lui.
Dove finisce l’asfalto e inizia. Tutto il resto.
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