Il ventunesimo fantod

Jun 27, 2008 02:52

Una notte e tre quarti. Una fiasca scarica. Un limone, forse due. Piccola percentuale di voci, distanti, risucchiate da veicoli di provenienza. Bisbigli su pianerottoli, in langue d'oc, soffocano risolini (la lampadina è bruciata) fino a ucciderli.

Il pensiero ricorre, toglie il silenziatore, e la chiazza color pece è un fulmine che, negativo e infagottato di un velluto stellare senza atmosfera, si schianta nella campagna della mia mente, ora non più ignara, ma assai prima che sia possibile ripararsi. La frazione irrazionale, incorniciata, balbetta una logica da limerick e poco più.

Sono gli incubi, ritornano, i sudori congelano altri sudori. Le scene vivide e al tempo stesso extramondane. (La lampadina emette una luce indecisa. All'avvicinarsi della mano, un crepitare lieve). Spostamenti d'aria senza che nulla o nessuno ne sia la causa. I contorni degli oggetti, nella stanza (la stessa stanza, molto più tardi), si fanno sfuggenti, i colori sbavano e l'occhio, fisso e scavante disperato come un minatore in trappola (la lampadina del suo casco si è bruciata), cerca di afferrarne la sostanza prima del suo liquefarsi, cerca un appiglio per triangolare una dimensione consueta e familiare, com'è il suo lavoro.

Sono gli incubi, un'infermità invisibile alla luce del giorno.

(La lampadina brucia).
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