Titolo: “Kokochi yoku nagareru kono oto” (Questo suono che scorre per l’eternità) - “Tsutaeru neiro wa chigau” (Anche se il suono trasmesso è diverso)
Fandom: Hey! Say! JUMP
Personaggi: Yabu Kota, Inoo Kei
Pairing: Inoobu
Warnings: Slash
Parole: 2.206
Rating: R
Prompt: “Annego e il mare è lei” (“Mi Distruggerai”)
NdA: Storia scritta per la challenge
corte_miracoli. Il titolo della storia è tratto da “Oto”, di Yabu, così come quello del capitolo.
03 - Kokochi yoku nagareru kono oto
Tsutaeru neiro wa chigau
Gli capitava di pensare a tutte le notti che avevano passato insieme, ai primi tempi della loro relazione.
A quando tutto sembrava ancora semplice.
A quando passavano ore fra quelle lenzuola, intrise del loro sudore.
A quella smania di sentirsi sempre più vicini, a quando sentirlo sotto di sé, intorno a sé non sembrava essere abbastanza.
Alla sua pelle contro la sua, ai respiri che si fondevano, al suo odore che non lo abbandonava mai.
Ci pensava sempre con un sorriso, e pensava che in quei momenti gli sembrava una cosa normale, ma che a conti fatti quelle notti erano una conquista, qualcosa che per lui si avvicinava alla perfezione.
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L’aveva ignorato troppo a lungo.
Aveva ignorato i suoi sguardi malinconici, quelle stranezze che non erano più tipiche dell’Inoo Kei che conosceva, ma che si facevano quasi sordide, a tutto quello che gli taceva.
Quella mattina, mentre facevano colazione insieme, in silenzio, gli aveva lanciato un’occhiata ed era rimasto inorridito da se stesso.
Perché di fronte a sé aveva uno sconosciuto, perché l’ultima volta in cui aveva guardato Kei, in cui l’aveva guardato davvero, era sicuro che non ci fosse quello sguardo sul suo volto.
Che cosa era successo al loro rapporto?
Cosa lo aveva distratto a tal punto da non capire che la persona che professava d’amare non era felice?
Perché era disattento, ma non poteva mentire a se stesso al punto tale da dirsi che Kei fosse felice.
Rimase a fissarlo per qualche secondo, fino a quando il più piccolo non alzò lo sguardo in sua direzione.
“Kei-chan?” gli disse a quel punto, e l’altro sembrò trasformarsi. Alzò lo sguardo, dapprima sorpreso, poi sorrise apertamente.
“Cosa c’è, Ko?” gli domandò, con tono carico d’aspettativa, e il più grande sentì come se l’avessero appena pugnalato all’altezza del cuore.
Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui era stato lui ad iniziare a parlargli? Quanto era passato dall’ultima volta in cui era stato lui a cercarlo, e non il contrario?
“Oggi abbiamo la giornata libera” gli disse, cercando di non dare segni di turbamento. “C’è qualcosa che ti piacerebbe fare?” chiese, attendendo una risposta mentre vedeva il sorriso sul volto dell’altro diventare sempre più grande, sempre più sincero.
Parve pensarci per un po’, ma alla fine scrollò le spalle.
“Niente di speciale. Visto che non capita spesso, possiamo anche rimanere in casa a fare qualcosa. Mi basta che stiamo insieme, lo sai” gli disse, chinando il capo in una sorta di atteggiamento pudico che a parer di Yabu poco gli si addiceva.
Questi annuì, cercando di sorridere a sua volta.
“Per me va benissimo. Anche...” aggrottò le sopracciglia. “Anche a me fa piacere stare un po’ insieme io e te” aggiunse, prima affrettarsi a finire la propria colazione e alzarsi da tavola.
Era vero.
Gli faceva piacere passare un po’ di tempo da solo con Kei.
Eppure continuava a chiedersi per quale ragione quella frase, pronunciata da lui, apparisse così costruita, così fasulla.
Yabu era conscio del fatto che le cose fra loro non andassero più bene come una volta.
Eppure aveva lasciato correre ogni minimo segno di difficoltà, pensando ingenuamente che ignorandoli i problemi si sarebbero risolti da soli.
Negli ultimi mesi non si era concesso nemmeno un minuto per fermarsi e pensare alla sua relazione con il fidanzato, e ora che lo stava facendo gli sembrava come se qualcosa fosse cambiato, come se loro due avessero perso la complicità che avevano prima.
Avrebbe voluto incolpare il tempo che passava, incolpare le difficoltà di ogni giorno, il lavoro, la miriade di pensieri che gli affollavano la mente, ma non poteva essere solo quello.
Guardare Kei, parlargli come se fosse un estraneo, chiedersi che cosa gli passasse per la testa, quando prima era in grado di capirlo solo con uno sguardo, erano cose che gli facevano paura.
E non riusciva a non darsi la colpa di quei cambiamenti.
Avrebbe voluto fare qualcosa, ma senza riconoscere la persona che gli stava davanti, non aveva nemmeno indizi su dove cominciare.
Non sapeva come si fossero ritrovati a letto.
Sapeva che erano sul divano in salotto, a guardare un film, e che ad un certo punto Kei aveva preso il telecomando e aveva spento la televisione, prima di saltargli letteralmente addosso.
Yabu era stato preso alla sprovvista, ma l’aveva lasciato fare.
Si era lasciato baciare, e l’aveva baciato.
Si era lasciato toccare, e l’aveva toccato.
Quando il più piccolo si era alzato, senza separare la propria bocca dalla sua, l’aveva seguito fino in camera da letto, con dei movimenti quasi automatici.
E con gli stessi movimenti aveva cominciato a spogliarlo, sentendo le mani di Inoo che facevano la medesima cosa, fino a quando entrambi non si erano ritrovati nudi sotto le lenzuola.
Ora Kei aveva la lingua sulla sua erezione, mentre le mani gli tenevano fermi i fianchi per evitare che spingesse dentro la sua bocca, soffocandolo.
Yabu gli teneva una mano intrecciata nei capelli, stringendo sempre più forte, al punto che fu sicuro di avergli fatto male, sebbene l’altro non si fosse lamentato.
Quando venne nella sua bocca, finalmente si sentì bene, per la prima volta da... settimane? Mesi?
Non pensò a niente in quei secondi. Solo alla sensazione della lingua di Kei su di lui, ai suoi mugolii soffocati, al fatto che erano insieme in quel momento, cosa che non accadeva da troppo.
Strinse gli occhi al punto tale che gli fecero male, aprendoli solo quando sentì la bocca del più piccolo lasciarlo andare, delicatamente, per tornare accanto a lui.
Sorrideva.
Yabu gli passò una mano intorno alla vita, stringendolo forte a sé come se non volesse lasciarlo andare mai più.
Ed era questo quello che provava, in effetti.
Rimase fermo solo per qualche minuto, in silenzio, prima di recuperare le forze.
Sempre tenendolo per la vita, si spostò sopra di lui, facendosi spazio in mezzo alle sue gambe e cominciando a baciarlo sul collo.
Quando lo sentì cominciare a gemere sorrise, continuando a toccarlo ovunque le sue mani arrivassero, in ogni posto che sapeva farlo impazzire, come dei gesti meccanici che compiva il suo corpo.
E fu proprio quel pensiero a farlo vacillare.
Come dei gesti meccanici che compiva il suo corpo.
Si alzò di scatto, mentre l’altro lo guardava con aria a metà fra il sorpreso e l’incuriosito.
“Ko? Che cosa è successo?” gli domandò, preoccupato, ma lui non gli rispose subito.
Perché era diventato meccanico?
Perché quel momento di assoluta estasi di pochi minuti prima era durato così poco, e la sua testa aveva ripreso a lavorare, a farlo pensare anche troppo per quello che la situazione richiedeva?
Non doveva essere meccanico.
Doveva essere istintivo, naturale.
Ripensò a tutte le volte, poche a dire il vero, in cui avevano fatto sesso negli ultimi mesi, e si rese conto che c’era sempre lo stesso fattore ricorrente.
Si spogliavano, si baciavano, si toccavano, lui lo preparava, entrava dentro di lui e tutto era finito prima ancora che potessero davvero pensare se andasse davvero bene o meno.
Era sempre la stessa routine, e solo ora Yabu si rendeva conto che c’era qualcosa di sbagliato.
Si sentì come sull’orlo di un precipizio.
Si alzò dal letto, prendendosi la testa fra le mani come se così facendo potesse bloccare i suoi stessi pensieri.
Guardò Kei, ancora seduto sul letto, ancora con espressione confusa, e si sentì male nel solo guardarlo.
Quello era l’uomo che amava, ne era sempre stato sicuro.
O forse, anche amarlo era diventato un gesto meccanico?
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Inoo continuava a fissarlo, non comprendendo fino in fondo quello che fosse successo.
L’aveva condotto fino a dove voleva lui.
Aveva provato a farlo rilassare, ed era convinto di esserci riuscito.
Aveva voglia di fare sesso con lui, e più che una reale eccitazione voleva essere più un conforto, la prova che c’era ancora qualcosa da salvare, la prova che almeno quell’aspetto della loro relazione fosse rimasto ancora integro, per quanto la consolazione sarebbe stata pur sempre magra.
E ora che Yabu si era fermato e lo guardava con quell’espressione quasi disgustata, non sapeva che cosa pensare.
“Ho... ho fatto qualcosa, Kota?” gli chiese, senza nemmeno sapere da dove venisse quel ‘Kota’ al posto del familiare e rassicurante ‘Ko’.
Vide il più grande indietreggiare, mordendosi un labbro.
“Mi dispiace, Kei. Io... non credo di riuscirci” mormorò, mentre sul suo viso si leggevano chiari i segni della vergogna.
L’altro rimase immobile.
“Che cosa significa che non ci riesci?” domandò, sorpreso dalla calma del suo stesso tono.
Calma che Yabu non mantenne.
“Non lo so che cosa significa!” urlò, per poi prendere un respiro profondo e abbassare la voce. “Non lo so che cosa significa, Kei. So solo che non ci riesco, che mi sembra... strano, ecco. Io...” sospirò. “Che cosa ci è successo, Kei?” gli chiese alla fine, come se non fosse in grado di aggiungere altro.
Inoo lo guardò.
Lesse lo smarrimento nei suoi occhi, e cercò di comprenderlo, di provare a capire quello che sentiva in quel momento.
E forse sì, lo capiva. Ma non riusciva a giustificarlo.
“Me lo chiedi adesso che cosa ci sta succedendo?” si alzò a sua volta dal letto. “Me lo chiedi ora, Yabu? Quando sono mesi che non mi parli davvero, quando sono mesi che non fai altro che respingermi, quando sono mesi che non mi fai sentire altro che un accessorio e non una persona?” gli disse, con il tono di voce che si faceva man mano più altro.
Fece una pausa, aspettando che l’altro dicesse qualcosa.
Ma Yabu tacque, probabilmente preso alla sprovvista. Inoo non se la prendeva pressoché mai, non perdeva mai la calma, non usava mai quel tono con lui.
Il più piccolo non attese oltre, continuando a parlare.
“Sono io che dovrei chiederti che cosa ci sta succedendo, ma se nemmeno tu hai una risposta allora non lo so che cosa possiamo fare. Perché io sono sempre qui che ti aspetto, ma tu non arrivi mai! Torni casa stanco, e lo capisco, non vuoi che abbiamo contatti davanti agli altri e lo capisco, sei stressato e lo capisco. Io ti capisco Yabu, e non comprendo perché tu non faccia nemmeno il minimo sforzo per capire me!” gli disse, e all’ultima frase non riuscì a reggere oltre la tensione.
Sentì le prime lacrime cominciare a solcargli il viso.
Ne asciugò una, due, tre e poi decise che non aveva senso, e scoppiò a piangere.
Sentì ogni singola parte della tensione accumulata negli ultimi mesi scorrere in quelle lacrime, e si domandò per la prima volta che senso avesse continuare, quando l’unica cosa che voleva fare in quel momento era annegare in quelle stesse lacrime.
Ma non gli era concesso, perché se era vero che stava annegando, era pur vero che il mare dal quale stava venendo risucchiato era solo Yabu, l’incertezza, il dubbio, e l’amore che provava per lui, quello al quale non riusciva più a trovare un senso.
Vide il più grande avvicinarsi a lui lentamente, fino a che non se lo ritrovò seduto accanto con un braccio intorno alla sua spalla.
Avrebbe voluto accasciarsi contro di lui e continuare a piangere, far passare quel dolore atroce che provava all’altezza del petto e poi asciugarsi il viso con la convinzione che poi tutto sarebbe andato per il meglio, ma sapeva di non potersi concedere il lusso di crederci.
Scostò il braccio del ragazzo, e questi non ne sembrò nemmeno troppo stupito.
“Ti amo, Kei” mormorò soltanto in risposta, e Inoo sapeva che era vero, ma sapeva anche che come risposta non poteva essere sufficiente.
“Ti amo anch’io, Kota” mormorò, sentendosi improvvisamente sfinito. “Ma amarti mi sta distruggendo, lo capisci?” aggiunse.
L’altro non rispose.
Si alzò dal letto, senza mai staccare gli occhi da lui.
Si avviò verso la porta, con passo incerto, come se non avesse chiare le proprie intenzioni.
Alla fine lo guardò negli occhi, e Inoo si sentì come se la propria sofferenza si specchiasse in quella che traspariva da quegli occhi.
“Esco. Io... ho bisogno di pensare” mormorò, prima di andarsene.
Inoo tenne bene a mente quelle spalle, e l’immagine di Yabu che se ne andava.
Sentì la porta di casa sbattere ed ebbe voglia di ricominciare a piangere.
Si sentiva abbandonato.
Capiva che Yabu volesse pensare.
Capiva che fosse confuso, perché quella confusione lui la provava da troppo tempo ormai.
Ma il problema era di loro due, e non era giusto che lui in quel momento fosse da solo.
Si passò le mani sul volto, facendo presa con le unghie sulla carne, graffiandosi, facendosi del male, come se il dolore fisico potesse fargli dimenticare quello che provava in quel momento.
Non ci riuscì.
Il dolore non spariva.
E quello che faceva più male, era il pensiero che avrebbe voluto essere consolato, avrebbe voluto essere abbracciato, avrebbe voluto sentirsi dire che presto sarebbe finito tutto.
E che l’unica persona da cui avrebbe voluto sentirlo dire, in quel momento non c’era.
Pensò alla felicità che aveva provato con Kota, a come si era sentito negli anni che avevano passato insieme, a come l’amore che provava per lui lo facesse sempre sentire come se fosse sul punto di scoppiare.
Ora era scoppiato.
E quell’amore, si era trasformato in un incubo.
Terrorizzato dai suoi stessi pensieri, si chiese fino a che punto avrebbe potuto spingersi per quell’incubo.