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Claim: [KAT-TUN] Kamenashi Kazuya, Akanishi Jin, Taguchi Junnosuke, Tanaka Koki
Prompt: “Non piangere, perché le lacrime non cureranno questo dolore” (N.M.P., KAT-TUN)
Titolo: Hold me Kowareru Made (Stringimi finché non mi spezzo) - Kibou no Itami wo mune ni Kizamu (Intaglio nel mio cuore il dolore della speranza)
Beta Reader: Simph
Personaggi/Pairing: Kamenashi Kazuya, Akanishi Jin, Akame
Rating: PG-13
Warning: Malinconico
Word Count: 1.654
Introduzione: “’Non ce la faccio’ disse a bassa voce, più a se stesso che a Kame.
Quest’ultimo dal canto suo, era rimasto spiazzato.
‘Ho... ho fatto qualcosa, Jin?’”
Kibou no Itami wo mune ni Kizamu
Kamenashi fremeva.
Erano passati poco più di due mesi da quando Akanishi era partito per l’America.
Non era stato semplice, non avrebbe mentito a se stesso dicendo che era stata una passeggiata.
Gli era capitato di piangere ogni tanto, specialmente quando tornava a casa la sera e la trovava vuota.
Koki, Junno, Ueda e Maru cercavano di lasciarlo solo il meno possibile, invitandolo a cena, a bere, a fare qualsiasi cosa che gli impedisse di pensare al fatto che Jin non c’era.
Kame sorrise.
Come se avesse davvero potuto dimenticarsene.
Si sentivano quasi tutte le sere; erano telefonate ordinarie, si raccontavano l’un l’altro quello che avevano fatto durante il giorno, nei minimi dettagli, per rimanere in contatto con le rispettive vite; a Kamenashi erano parse assai simili alle telefonate con la madre, ma aveva sempre evitato di dirlo a Jin. Sapeva che non era semplice fingere di stare bene, non lo era per nessuno dei due, e se quel contatto poteva servire a farli sentire almeno un po’ meglio, a non farli sentire lontani, allora avrebbe continuato a sentirlo tutte le sere, a dirgli che cosa aveva fatto, dove aveva cenato, a raccontargli quello che facevano gli altri, e a sentirlo fare altrettanto.
Senza pronunciare mai un ‘mi manchi’, perché sarebbe stato troppo penoso per entrambi.
E ora, finalmente, aveva la possibilità di rivederlo di persona.
Akanishi aveva un paio di giorni liberi, rimediati non sapendo nemmeno come, e solo pochi giorni prima aveva detto a Kame che sarebbe tornato in Giappone.
Una visita breve, ma anche quella era una delle piccole cose che il più piccolo avrebbe preso così com’erano, un contatto in più, qualcosa di cui accontentarsi... quasi un regalo, o almeno così lo faceva sentire.
E nei giorni passati in attesa che tornasse, si era sentito stranamente bene; la sua mente era focalizzata sulla sensazione di averlo accanto, di poterlo toccare, di poterlo baciare, di sentire che era a portata di mano; tutte sensazioni che si era costretto a memorizzare nei minimi dettagli, nel terrore che la lontananza potesse cancellarle dai suoi ricordi.
Mancavano poche ore, ormai, e man mano che si avvicinava il momento in cui finalmente l’avrebbe rivisto, più diventava difficile controllare le labbra, che continuavano a piegarsi in sorrisi involontari, dei quali difficilmente avrebbe saputo spiegare l’origine.
Poche ore, e quei due mesi passati senza di lui sarebbero diventati solo un ricordo, come se potessero essere annullati dalla semplice presenza dell’altro.
Cercò di fare mente locale su tutto questo, per evitare di pensare a quanto breve sarebbe stato il tempo concesso loro.
****
“Tadaima” Jin entrò in casa rumorosamente, andando a gettarsi sul divano e guardandosi intorno, come per riprendere confidenza con l’ambiente intorno a lui.
Kame rimase in piedi a guardarlo, con un sorriso che non riusciva a sparire dal suo viso.
All’aeroporto era stato difficile trattenere l’istinto di saltargli addosso, di abbracciarlo, di baciarlo fino a che le proprie labbra non avessero messo radici su quelle dell’altro.
Ma una volta dentro casa, privo di qualsiasi barriera o impedimenti, si diresse verso di lui, mettendosi cavalcioni e prendendogli il viso fra le mani.
“Mi sei mancato” mormorò, perché dirlo non faceva più così tanta paura quando aveva la possibilità di toccarlo, quando era sotto le sue mani.
Jin non rispose, si avvicinò al viso dell’altro per baciarlo. Kame rispose al bacio con una certa veemenza, assolutamente impaziente; fece scorrere le mani sul petto dell’altro fino ad arrivare all’orlo della maglietta che indossava, ma quando fu sul punto di toglierla vide l’altro ritrarsi, e spostarlo di peso finché non si ritrovò seduto sul divano; dopodiché si alzò, passandosi le mani sul volto.
“Non ce la faccio” disse a bassa voce, più a se stesso che a Kame.
Quest’ultimo dal canto suo, era rimasto spiazzato.
“Ho... ho fatto qualcosa, Jin?” chiese, confuso. Il più grande si voltò verso di lui, mordendosi un labbro; aveva uno sguardo in volto che all’altro non piacque affatto.
“Kazu...” iniziò, ma s’interruppe subito, tornando a sedersi sul divano con aria irrequieta. Fece passare qualche attimo, prima di voltarsi a guardare il ragazzo negli occhi. “Kazu, mi dispiace” disse poi, non sembrando in grado di aggiungere altro.
Kamenashi cominciò a respirare affannosamente, mentre i pensieri cominciavano ad aggrovigliarsi.
Aveva paura. Maledettamente paura. Non sapeva quello che Akanishi voleva dirgli, ma dal suo sguardo e da quel ‘mi dispiace’ già presagiva che non gli sarebbe piaciuto.
Continuò a guardarlo, cercando indizi nei suoi occhi e non trovandone nessuno.
C’erano centinaia di possibilità, centinaia di significati per quello sguardo frustrato, angosciato, irrequieto.
E lui vedeva solo le peggiori.
Aveva avuto fin troppo tempo per pensare a tutte le cose che sarebbero potute accadere, a tutto quello che la lontananza avrebbe potuto fare al loro rapporto.
Si era figurato Jin di fronte a lui, con quegli stessi occhi, che gli diceva che per lui era troppo, che non riusciva ad andare avanti in quel modo.
Che non lo amava più come prima.
Kame credeva di essere una persona razionale; aveva costruito una reazione per quelle parole, per ogni evenienza, qualcosa che gli evitasse di affogare sotto il peso di una dichiarazione del genere.
Era stato troppo senza di lui.
Eppure, in quel momento non sapeva bene cosa fare.
Jin rimaneva in silenzio ed altrettanto faceva lui, perché forse non voleva davvero sapere come continuasse quella frase.
Alla fine, esasperato dall’attesa, si voltò verso di lui; gli toccò un braccio, con leggerezza, temendo quasi di essere respinto; cosa che in effetti non accadde.
“Jin... va tutto bene. Basta che mi dici che cosa succede, ok? Non ti preoccupare, se c’è qualche problema puoi dirmelo. Va bene?” disse, cercando in qualche modo di farlo sentire abbastanza a proprio agio da farlo cominciare a parlare.
Akanishi si voltò verso di lui, con una lentezza esasperante.
Il suo sguardo, se possibile, s’era fatto ancora più tormentato.
“Kame...” prese un respiro, drizzando le spalle e costringendosi a guardarlo negli occhi “Sono andato a letto con un altro” concluse, e alla fine chinò la testa, un gesto che il più piccolo prese per codardia.
Impiegò qualche secondo per realizzare quanto aveva appena sentito.
Improvvisamente, era come se il castello di pensieri che si era pian piano costruito nella sua mente fosse andato in frantumi.
Era stato uno stupido, ma quest’opzione non l’aveva nemmeno considerata.
Eppure forse avrebbe dovuto.
Era logico, no?
Avere paura che trovatosi dall’altra parte dell’oceano potesse tradirlo, potesse trovare qualcun altro che non fosse lui.
Si sentiva incredibilmente stupido per aver avuto così tanta fiducia. Non tanto in lui, quanto nel loro stesso rapporto.
Era rimasto immobile, senza riuscire a guardarlo.
Senza sapere cosa dire, perché qualsiasi cosa gli sembrava senza senso.
Era una situazione così surreale che forse l’unica cosa che aveva realmente voglia di fare era scoppiare a ridere.
Senza doversi più fermare.
“Che cosa vuoi che ti dica?” mormorò alla fine, con un mezzo sorriso sarcastico. Akanishi sembrò come risvegliarsi da una trance. Si mise in ginocchio davanti a lui, mettendogli le mani sulle gambe e guardandolo dritto negli occhi.
“Mi dispiace Kame. Davvero, io... ero ubriaco, e io e te non ci vedevamo da un mese. È stato un caso, per me non ha significato niente. Mi sono sentito uno schifo... mi sento uno schifo” parlava velocemente, come temendo che da un momento all’altro il più piccolo lo fermasse, che non gli desse modo di spiegare.
Kame continuava a guardarlo, come se non sentisse davvero quello che gli veniva detto.
Lo spinse, per avere agio di alzarsi dal divano.
“Tu ti senti uno schifo Jin? Hai anche il coraggio di dire che ti senti uno schifo per quello che hai fatto? Per quello che mi hai fatto?” gli disse. Il suo tono di voce non palesava la minima rabbia; solo sconforto, tristezza... e una buona dose di delusione, che il più grande non mancò di notare.
“Lo so che non ho il diritto di starci male. Lo so che ho sbagliato. Lo so, dannazione!” urlò, alzandosi da terra per avvicinarsi a lui. Lo prese per le braccia, chinandosi per poggiargli la testa sulla sua spalla “Dimmi che cosa devo fare perché tu mi perdoni. Ti prego Kazu. Per favore. Io... ti amo, lo sai” concluse, abbassando il tono.
Kamenashi lo sentì distintamente piangere. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, prima di allontanarlo da sé.
Non bruscamente, non con rabbia. Solo con fermezza.
“Non osare piangere, Jin, perché le tue lacrime non serviranno a curare il mio dolore” mormorò, più per dare voce ad un pensiero che per un reale ammonimento nei confronti dell’altro “Non lo so che cosa puoi fare. Non ero pronto ad affrontare tutto questo. Io...” s’interruppe, mordendosi un labbro. Non aveva intenzione di fare il sostenuto; era vero, non aveva la minima idea di che cosa fare in quel momento. Sapeva solo di essere troppo confuso, troppo arrabbiato, troppo spiazzato da quello che era successo per poter pensare lucidamente. “Vattene, per favore” disse alla fine, convintosi che fosse l’unica situazione.
Non voleva vederlo, non in quel momento.
Jin si morse un labbro. Gli prese una mano, come ultimo blando tentativo di farsi guardare, di farsi comprendere.
Non servì a niente.
Se ne andò, velocemente, e Kame rimase fermo a guardarlo chiudersi la porta alle spalle.
Una volta che l’altro fu uscito di casa, si accasciò sul pavimento, prendendosi la testa in una mano.
Voleva piangere, ma aveva bene impresse in mente le parole che aveva detto poco prima ad Akanishi.
Se le ripeté più e più volte, come un mantra, per combattere quel senso di sconfitta che lo aveva attanagliato non appena si era ritrovato da solo.
Non piangere, perché le lacrime non cureranno questo dolore.
Non piangere, perché le lacrime non cureranno questo dolore.
Non piangere, perché le lacrime non cureranno questo dolore.
Niente avrebbe curato il dolore che provava in quel momento.
Non gliene fregava più niente.
Pianse, anche se le lacrime non avrebbero curato quel dolore.