Titolo: “Kumo no ito” (La tela del ragno)
Fandom: Hey! Say! JUMP
Personaggi: Yabu Kota, Inoo Kei, Takaki Yuya, Chinen Yuri, Yaotome Hikaru, Yamada Ryosuke, Arioka Daiki
Pairing: Inoobu, Takachii, Ariyama, slight!Yamabu, slight!Takanoo
Warnings: Slash, Non-con, Death!Fic, AU, Minor abuse, Violence
Word Count: 23.862
fiumidiparoleRating: NC-17
Prompt: 144. “Mentre il vento alimenta il fuoco.”
NdA: Storia scritta per la challenge
bigbangitalia e per la
500themes_ita. Il titolo è tratto dall’omonima canzone di Takaki Yuya.
Questa storia ha ricevuto la bellezza di (s’inchina) due gift, rispettivamente da
el_defe (che potete vedere
Qui, e da
simph8 (che potete scaricare invece
Qui. Sono entrambi bellissimi e ad entrambi va la mia gratitudine *__*
~ Kumo no ito ~
04 - Oretachi no Seishun
“Ti ho incontrato e ci siamo toccati, ma il mio cuore non è ancora soddisfatto.”
[Misetekure, Kanjani8]
Kota era stanco.
Avevano lasciato Tokyo troppo velocemente, e lui aveva ancora domande prive di risposta su quanto era accaduto in quella camera d’albergo fra Yuya e Kei.
Quest’ultimo aveva aspettato lui e Ryosuke nel parcheggio e gli aveva semplicemente detto che dovevano andarsene, senza lasciare intendere niente di più.
Se anche il dubbio aveva avuto il tempo di formarsi nella sua mente, non vi era rimasto troppo a lungo.
Cos’aveva da temere, in fondo?
Kei non l’avrebbe mai tradito, lo sapeva.
Temeva invece per quanto suo fratello potesse avergli detto, temeva per quello che sarebbe potuto accadere dopo, temeva per quello che Yuya aveva pensato nel vedere Ryosuke.
Il ragazzino stava creando ben più di un problema, ma non potevano liberarsene.
Ne aveva parlato a Kei più volte, gli aveva spiegato quali fossero i rischi e aveva cercato di farlo ragionare, ma il più piccolo non ne aveva voluto sapere.
Non sapeva che cosa ci vedesse in lui, ma era un giocattolo al quale non era ancora disposto a rinunciare.
Kota lo conosceva bene abbastanza da sapere che non avrebbe tardato a stancarsene, e che solo allora sarebbe stato più tranquillo.
Non aveva fatto i conti, tuttavia, con le richieste del fidanzato.
Erano rimasti in macchina per un tragitto abbastanza breve, troppo stanchi per andare più lontano, e si erano perciò fermati in un albergo alla periferia di Iwaki.
Ora Kota era di fronte al letto su cui era disteso Ryosuke, e lo fissava con aria quasi disgustata.
Kei, seduto poco distante, aveva tirato fuori dalla propria borsa delle pastiglie, e le aveva mandate giù una dopo l’altra.
È carino, vero Kota? gli aveva detto.
Non avrebbe dovuto starlo a sentire.
Non avrebbe dovuto essere così debole di fronte alle sue richieste, ma era come se non riuscisse a farne a meno.
Era sempre stato così, del resto.
Kei domandava e lui eseguiva, perché voleva vederlo soddisfatto, perché voleva farlo felice, perché c’era qualcosa in lui che lo spingeva sempre a dirgli di sì, anche nelle situazioni più assurde.
Tipo quella.
Si era tolto velocemente la maglietta, e si era fermato ancora ai piedi del letto, fissando il ragazzino.
Aveva il puro terrore nello sguardo, e Kota si domandò se non fosse proprio quello che aveva spinto Kei a porre una richiesta del genere.
Ma il fidanzato pareva non curarsi del suo disagio o di quel terrore.
Rimaneva sulla sua sedia, spettatore attento, e di tanto in tanto ridacchiava per qualche motivo noto solo a lui.
Kota arrivava quasi a detestarlo quando si faceva.
Diventava più irrazionale del solito e se possibile ancora più persuasivo, e lui si sentiva come con le spalle al muro, portato a compiere gesti che normalmente non si sarebbe nemmeno sognato.
Voglio guardare, Ko.
Slacciò la cintura dei pantaloni, lasciandola cadere sul pavimento.
Era un rumore che detestava.
“No, no, per favore, ti prego...”
Cercò di mettere a tacere i ricordi nella propria mente, ma era impossibile. Non in quel momento, non in quella situazione.
Si mise di fianco al letto, accarezzando lentamente il viso di Ryosuke, trovandolo umido.
Non se ne sorprese.
Anche lui piangeva, sempre.
“Non fare la femminuccia, Kota”
Deglutì, voltandosi a guardare Kei, come cercando una sorta di sostegno, come aspettandosi da un momento all’altro che gli dicesse di fermarsi, che era uno scherzo, che non doveva farlo davvero.
Ma il più piccolo rimaneva fermo lì, con gli occhi fissi su di loro, e Kota sapeva che non sarebbe tornato sui suoi passi.
Non lo faceva mai, del resto.
Quando Kota mostrava del dubbio, lui agiva come il vento ad alimentare il fuoco, e diventava sempre più pressante, sempre più insistente, fino a che il più grande non si spegneva e non si annullava, pur di andare incontro alle sue richieste.
“Dai Ko... non farlo aspettare” gli disse, con tono mellifluo, e l’altro sentì un mugugno sommesso provenire dal ragazzino steso sul letto, ma cercò di non curarsene.
Se proprio doveva farlo, almeno che fosse in fretta.
“È inutile, tanto non ci disturberà nessuno... abbiamo tutto il pomeriggio...”
Kota avrebbe voluto scappare, così come voleva scappare da bambino.
Ma ancora una volta, rimase immobile.
Riprese a toccare Ryosuke, come un automa, togliendogli i vestiti di dosso e lottando contro l’istinto di urlare, mentre si sforzava di non guardarlo troppo a lungo.
Salì sul letto, facendo perno sulle sue gambe perché le schiudesse, sordo ai suoi lamenti e alle sue grida.
Non voleva sentirle.
Era diventato bravo, nel tempo, ad estraniarsi quando voleva.
“Ti ho detto di guardarmi, stupido ragazzino. Non è che se tieni gli occhi chiusi sparisco.”
Kota ebbe voglia di piangere.
Ebbe voglia di piangere mentre cominciava a preparare Ryosuke, lentamente, perché quali che fossero i desideri di Kei non aveva intenzione di fargli troppo male.
Ebbe voglia di piangere mentre si avvicinava maggiormente a lui, conscio di non essere in grado di eccitarsi, non in quel modo.
Chiuse gli occhi e pensò intensamente a Kei, pensò a quando facevano sesso, pensò al suo sguardo eccitato, carico di aspettativa, di voglia.
Si voltò a guardarlo, ma non era cambiato niente.
Era ancora lì.
Stava prendendo l’ennesima pillola, e lui avrebbe voluto chiedergli di fermarsi, in modo da potersi poi fermare anche lui, ma non ne ebbe il coraggio.
Era quello che lui voleva, era tutto ciò che contava.
Lentamente, si spinse dentro il corpo del ragazzino, e questa volta non poté fare niente per ignorare le sue grida, per ignorarne il pianto, per ignorare le sue proteste e i vani tentativi di ribellione.
Non sarebbe servito a niente ribellarsi, lo sapevano entrambi, ma lui l’avrebbe fatto comunque, perché non l’avrebbe lasciato fare del suo corpo ciò che voleva, come lo se stesse passivamente accettando.
Kota lo invidiò, perché lui invece si era arreso.
Lo invidiò, e scattò in lui una sorta di meccanismo di odio.
Era in grado di guardarlo, adesso.
Si spinse con più forza dentro di lui, e là dove prima cercava di essere il più delicato possibile ora invece puntava proprio a fargli male, a fargli del male perché reagiva, a fargli del male perché non sapeva davvero che cosa volesse dire fare quella vita e subire quegli abusi giorno, dopo giorno, dopo giorno.
Sentì una lieve risata alle sue spalle, e capì che quello era esattamente quello che Kei stava aspettando, ma non se ne preoccupò.
Del resto, Kei sapeva sempre che cosa aspettarsi da lui.
Gli mise una mano intorno alla gola per soffocarne le grida, ma non strinse abbastanza da fargli perdere i sensi.
Voleva che lo sentisse, voleva che soffrisse in silenzio, così come in silenzio aveva sofferto lui per anni.
Cercò di trattenersi il più a lungo possibile, e quando alla fine non ne poté più raggiunse l’orgasmo, con una spinta più forte delle precedenti, lasciandogli andare la gola perché, almeno alla fine, fosse libero di urlare.
Poi si sfilò da dentro di lui senza dire una parola, abbandonandolo su quel letto, sentendo a malapena Kei che gli si avvicinava e lo abbracciava, senza mai smettere di ridere.
Era felice.
E a chiunque altro Kota non avrebbe perdonato quella felicità, ma non c’era niente che Kei potesse fare per cui lui potesse davvero portargli rancore.
Era stato lui, in fondo, a salvarlo.
“Kota vieni qui.”
Sentiva quella voce profonda biascicare leggermente, e allora sapeva esattamente cosa aspettarsi.
Ormai non provava più nemmeno a nascondersi, perché sapeva che quell’uomo l’avrebbe trovato.
Alla fine, lo trovava sempre.
Si avvicinava lentamente, senza più chiedere che cosa volesse. Si sedeva sul letto, lasciando penzolare le gambe e tenendo lo sguardo fisso su di esse, cercando di ignorare lui e il suo sorriso soddisfatto, quasi felice di essere riuscito a domare qualsiasi forma di ribellione con gli anni e la perseveranza.
Kota allora stringeva forte i denti, fino a sentire male, e si conficcava le unghie nei palmi delle mani, così a fondo che se le ritrovava sempre macchiate di sangue.
Ma non importava, non era mai quello il problema, alla fine.
Rimaneva sdraiato su quel letto, con il viso contro il cuscino, quasi si volesse nascondere.
Si estraniava da quel corpo mentre veniva usato, mentre cercava di ignorare un dolore troppo pungente, e l’umiliazione di non essere in grado di fare niente perché si fermasse.
Si sforzava di non piangere perché non voleva che Yuya lo sentisse, si sforzava di trattenere le grida di dolore e di rabbia nei confronti di quell’uomo, tratteneva i conati di vomito nel sentire il suo alito che sapeva di sakè vicino al proprio orecchio, e lo sentiva ansimare come un animale, e pregava che finisse in fretta, perché voleva andare in bagno e farsi una doccia, tentando di graffiarsi la pelle fino a strapparsela di dosso e non riuscendoci mai.
Ma non finiva mai presto abbastanza, durava sempre tanto quanto bastava per annullarlo, per farlo sentire vuoto, per fargli provare il desiderio di morire e lasciandolo tuttavia privo della forza di farlo davvero.
Rimaneva immobile per quello che gli pareva essere un secolo, poi si alzava zoppicando e usciva da quella stanza, da quell’odore che gli si imprimeva nel cervello, che non lo abbandonava fino alla volta successiva.
Passava di fronte alla porta della cucina e vedeva sua madre chinare lo sguardo per non incrociare il suo, e allora aveva voglia di farle del male, e al contempo di farsi stringere, di piangere fra le sue braccia, di urlarle di fare qualcosa, di aiutarlo, di salvarlo da quella routine che lo stava uccidendo pian piano, perché era sua madre, perché non lo aveva messo al mondo perché poi quell’uomo lo usasse così.
Ma puntualmente taceva e andava avanti, conscio del fatto che se anche avesse sfogato la propria frustrazione e la propria rabbia non sarebbe cambiato niente.
Il giorno dopo sarebbe di nuovo stato in quella stanza sapendo che non ne sarebbe uscito mai, e la notte avrebbe continuato ad andare a dormire sperando di non svegliarsi il giorno dopo.
Avrebbe continuato a guardare suo fratello e ad uccidere sul nascere quella preoccupazione nei suoi confronti, perché voleva proteggerlo dalla verità come nessuno aveva mai fatto con lui, e perché in fondo non aveva il coraggio di dire ad un ragazzino che di tutti i mostri di cui aveva paura da piccolo, quello a fare davvero orrore era il loro stesso padre.
***
Yuya era seduto in un bar di fronte alla centrale.
Girava il cucchiaino nella propria tazza di caffè da quasi cinque minuti ormai, senza riuscire a decidersi a berlo.
Di fronte a lui, Chinen lo scrutava con aria pensierosa, in silenzio, come in attesa che fosse lui il primo a parlare.
E il più grande avrebbe anche voluto farlo, perché c’erano fin troppe cose che aveva taciuto negli ultimi giorni, cose delle quali avrebbe voluto sfogarsi se solo avesse avuto la forza di farlo e avesse trovato qualcuno davvero disposto ad ascoltarlo.
Sospirò, alla fine, posando il cucchiaino sul piattino e finalmente bevendo il proprio caffè.
“Ci sono novità, Chinen-san?” chiese poi al detective, sommessamente.
Da quando Chinen e Yaotome si erano presentati alla sua porta, quasi una settimana prima, era andato spesso in centrale, chiedendo che gli venisse detto qualcosa e sentendosi sempre dire che non c’era niente di nuovo.
Quel giorno non sapeva che cosa fosse cambiato, ma probabilmente Chinen si era lasciato prendere dalla pena per quel suo interesse quasi assillante nei confronti delle indagini, e gli aveva proposto di andare a bere qualcosa insieme.
Yuya si era sentito spiazzato da quella proposta, ma aveva accettato comunque.
Era un passo avanti, e che gli andasse o meno a genio l’idea di ritrovarsi da solo col più piccolo, era un’occasione che non avrebbe sprecato.
“Chiamami pure Yuri” rispose questi quasi automaticamente, arrossendo lievemente prima di continuare. “No, non abbiamo novità particolari. Abbiamo diffuso un identikit di tuo fratello e uno di Ryosuke, e riceviamo qualche telefonata di tanto in tanto in merito ad avvistamenti veri o presunti, ma...” sospirò, scuotendo la testa. “Fin’ora abbiamo fatto solamente buchi nell’acqua” concluse, bevendo a sua volta il proprio tè.
“Chin... Yuri,” il più grande si corresse appena in tempo. “Chi è quel ragazzo?” gli chiese.
Si era fatto un’idea ben precisa in merito.
E l’idea che si era fatto, non gli piaceva. Per niente.
Vide Chinen sospirare, e posare la tazza con aria assorta. Rimase in silenzio per qualche minuto, e Yuya comprese che stava valutando se rispondere o meno a quella domanda, ma alla fine parve scegliere di farlo.
“È il fratello del mio collega, di Yaotome” cominciò, quasi dubbioso. “È per questo che l’altro giorno è stato così irruento. Non che di solito sia semplice tenerlo tranquillo, ma” fece un breve sorriso, che si spense subito. “è una questione personale. Credo che questo, almeno in parte, lo giustifichi.”
Chinen aveva risposto con un’informazione che, per quanto fosse interessante e giustificasse la reazione del detective, andava lontana da quanto lui voleva sapere.
“E... perché si trova con mio fratello?” domandò allora, in un mormorio, quasi non volesse essere sentito, quasi non volesse davvero conoscere la risposta.
“Yuya” disse allora Yuri, con espressione seria. “Immagino che tu abbia sentito parlare degli omicidi che ci sono stati negli ultimi tempi, vero? Intendo dire quelli di massa, lungo le autostrade e nei conbini” iniziò, cauto, cercando di mostrarsi il più tranquillo possibile.
Ma l’altro non riuscì a mantenere quella sua stessa tranquillità.
Che cosa voleva dire?
Omicidi?
Yuya respirò a fondo, una volta, due volte, tre volte.
Sentiva le chiare avvisaglie di un attacco di panico.
Fece presa con le dita sul tavolo, stringendo fino a che le nocche non divennero bianche.
Kota non avrebbe mai fatto una cosa del genere.
Kota... no, lui non avrebbe mai ucciso nessuno. Lui era sempre così gentile, era...
Yuya si morse un labbro, chiudendo gli occhi.
“Non può essere stato lui. Mio fratello... no, è sicuramente stato quel ragazzo” rispose a Chinen, riportando alla mente le immagini di quel pomeriggio, di Kei che lo aveva sedotto senza sforzo, cercando invano di soffocare la vergogna che provava per se stesso.
“Yuya, Ryosuke è stato rapito quando sono state uccise cinque persone lungo l’autostrada per Tokyo. E se è con tuo fratello e con Kei...” lasciò la frase in sospeso, lasciando ben intendere che cosa significasse quell’informazione.
Ma Yuya non voleva crederci, non poteva crederci.
Si alzò in piedi, lasciando il caffè sul tavolino.
“No. Non Kota. Lui non potrebbe mai fare una cosa del genere” mormorò, facendo per andarsene, con passo svelto.
Sentì Yuri camminargli alle spalle, e pochi attimi dopo questi lo afferrò per un polso.
Si ritrasse a quella presa, quasi come se la sua mano bruciasse, e l’altro parve sorprendersi per quella reazione.
“Mi... mi dispiace, non volevo...” si giustificò, mordendosi un labbro.
“Non ti preoccupare. È a me che non piace essere toccato” rispose il più grande, bruscamente. “Ora devo andare. Se ci dovessero essere novità...”
“Ti telefono, tranquillo” si arrese Yuri, sospirando. “Yuya, io lo so che tuo fratello non è una cattiva persona, ok? Cercheremo... cercheremo di venire a capo della questione senza che nessuno si faccia male” tentò di rassicurarlo.
L’altro annuì brevemente, senza guardarlo in viso.
E poi se ne andò, incamminandosi senza nemmeno sapere di preciso dove stesse andando.
Kota era una brava persona.
Molto migliore di lui, l’aveva sempre saputo.
Glielo diceva anche suo padre. Da quando era bambino continuava a sentirsi ripetere che Kota era il più bravo, che Kota era migliore, che Kota era più disponibile, che...
Yuya aveva voglia di piangere, e sentiva il panico prendere possesso di lui, quella sensazione alla quale era fin troppo abituato.
Avrebbe voluto chiamare il fratello e farsi tranquillizzare da lui, avrebbe voluto tornare piccolo e accoccolarsi fra le sue braccia, sentendo la sua voce ferma e sicura dirgli che sarebbe andato tutto bene.
Ma quel tempo era finito, e Yuya non aveva più alcuna certezza.
Senza che nessuno si faccia male.
Kota non si sarebbe fatto male.
Kota era forte.
***
Si apre la porta.
E il ragazzino sa che dovrebbe almeno cercare di nascondersi, ma non lo fa.
Perché tanto ormai si è rassegnato, perché sa che niente cambierebbe, e che anzi se cercasse di nascondersi la madre crederebbe con ancora più convinzione nelle proprie follie.
Entra nella sua stanza seguita da un uomo.
Non gli piace.
È un prete, lo riconosce bene. Ne ha visti fin troppi da quando era un bambino.
“Tu sei Kei?” gli chiede, e il ragazzino annuisce.
“Padre, si può fare qualcosa?” domanda la donna, ansiosa, appendendosi al braccio dell’uomo di chiesa come se fosse la sua unica ancora di salvezza.
E Kei sa che cosa succederà, perché è già accaduto centinaia di altre volte.
Farà male. Poi sua madre si tranquillizzerà, per qualche giorno.
E poi nella sua mente vedrà qualcosa negli occhi del figlio, e ricomincerà tutto da capo.
Il prete gli dice di togliersi i vestiti, e lo osserva.
Vede le cicatrici, i tagli, le bruciature, le ustioni che gli coprono buona parte della schiena.
Poi chiede alla donna che cosa abbia tentato fin’ora per estirpare il male da quel corpo, e lei inizia ad elencare tutte le torture a cui l’ha sottoposto, e dice che è stanca, che non ne può più, che non avrebbe mai dovuto metterlo al mondo.
Piange, ogni tanto succede anche questo, e dice che non è figlio suo, che è figlio del Diavolo, e che ora il Diavolo è dentro di lui.
Kei sospira, rimanendo in silenzio.
Ha rinunciato a provare a spiegare che non c’è niente che non vada in lui, che quella donna è semplicemente pazza, perché sa che tanto nessuno lo starà a sentire.
L’ha detto agli insegnanti, agli amici, ai vicini di casa, e poi quando qualcuno di loro provava a fare qualcosa si trasferivano, perché la madre era convinta che fosse stato lui a contagiare quelle persone, che le avesse rese maligne, perché il Maligno era dentro di lui.
Alla fine, non l’aveva mandato più a scuola.
Lo teneva rinchiuso in casa, dandogli poco e niente da mangiare e passando tutta la giornata a leggergli la Bibbia, aspettandosi un cambiamento da parte sua.
Kei avrebbe voluto chiederle che cosa si aspettasse da lui e poi fingere che accadesse, ma in fondo sapeva che la madre non sarebbe mai stata soddisfatta, che avrebbe continuato a vederlo come il puro male, che avrebbe continuato a cercare di estirpare da lui qualcosa che non era mai esistito.
E ci provava assiduamente, la donna, e lui ne portava tutti i segni.
Tutte le sere lo faceva mettere nella vasca, apriva l’acqua bollente e lo strofinava con la spugna ruvida, fino a quando quella stessa acqua non si colorava del rosso del suo sangue.
Tutte le sere lo picchiava, utilizzando metodi sempre nuovi per fargli del male, quasi cercasse di rendere quel corpo un involucro inutilizzabile per il Diavolo che a parer suo albergava in lui.
E Kei aveva smesso di sorprendersi o spaventarsi per tutto ciò che gli capitava, perché sapeva che non sarebbe mai finita.
Non reagisce dunque quando il prete comincia a gettargli indosso dell’acqua benedetta, leggendogli la Bibbia, mettendogli un rosario intorno al collo e tirando forte, soffocandolo.
Non è molto più fantasioso di tanti altri.
Resiste bene ormai Kei a questo tipo di attacchi blandi.
Rimane chiuso in quella stanza per delle ore, mentre la madre prega per lui e per la sua anima, e vorrebbe dirle che ormai non ce l’ha più un’anima, che è stata martoriata, mutilata, fatta a pezzi.
Che non era un demonio, fino a quando lei non l’aveva reso tale.
Ma tace, Kei.
Tace, mentre il vento del suo silenzio alimenta il fuoco della pazzia della madre, perché le sue parole sarebbero comunque inascoltate, perché niente di quello che può dire cambierebbe le cose.
Rimane in silenzio e aspetta che anche questa volta passi.
E desidera che ci sia davvero qualcosa in grado di purificarlo, ma non crede più nei miracoli da anni, ormai.
Kei uscì dalla doccia, facendo una smorfia nel guardarsi allo specchio.
Le cicatrici sulla sua schiena non se ne sarebbero mai andate, e per quanto si fosse rassegnato non riusciva comunque a trattenere il proprio disgusto ogni volta che le vedeva.
Quando Kota le guardava, aveva sempre un’espressione triste.
Non gli aveva mai raccontato nel dettaglio che cosa fosse stato a procurargliele, ma il più grande sembrava non necessitare di spiegazioni.
C’erano sere in cui si stendevano a letto e lui passava le mani su tutto il suo corpo, tracciando il contorno delle cicatrici, baciandole, come se in qualche modo sperasse di vederle andare via.
E Kei avrebbe voluto sentire la dolcezza in quei gesti, ma gli anni e il dolore l’avevano reso immune a qualsiasi forma di tenerezza.
Anche sua madre lo amava. Lo amava troppo, e quello stesso amore era stato sul punto di ucciderlo infinite volte.
Fino al punto che Kei era divenuto ostile all’affetto, tanto da non essere più in grado di riconoscerlo.
Sospirò, smettendo di guardare il proprio riflesso e indossando velocemente i vestiti, coprendo quella pelle fatta a pezzi.
Tornò nella stanza, trovando Kota seduto sul limitare del letto a fissare attentamente la televisione, una ruga formatasi al centro della fronte per la propria espressione accigliata.
“Che cosa succede?” gli chiese, guardando poi Ryosuke che osservava lo schermo con altrettanto interesse.
Kota gli fece cenno di fare silenzio, e Kei allora si decise a seguire a propria volta che cosa stesse accadendo.
Quando lesse il titolo del telegiornale, si accigliò.
Parlavano di loro.
Degli omicidi della settimana precedente, di quelli avvenuti prima ancora.
Inoo non era stupito del fatto che li avessero collegati.
La sua preoccupazione tuttavia aumentò quando la giornalista si avvicinò ad un detective, chiedendogli come procedessero le indagini.
Quando comparve in sovrimpressione il nome del ragazzo, Kei assottigliò le labbra in un sorriso.
Andò vicino al letto di Ryosuke, afferrandolo per i capelli e puntando un dito sullo schermo.
“Chi è?” chiese, alzando un sopracciglio.
Kota, una volta appurato che non sapessero troppo sul loro conto, spense la televisione, raggiungendo gli altri due.
“Ha il tuo stesso cognome, ragazzino” disse allora, respirando profondamente.
Ryosuke deglutì, mordendosi un labbro e apparentemente cercando una scusa plausibile, che tuttavia non riuscì a trovare.
“È mio fratello” mormorò piano, con quel tono di voce sommesso e quasi servile che usava da quando Kei aveva costretto Kota a fare sesso con lui.
Inoo si rialzò in piedi, sorridendo più apertamente.
Si diresse verso la scrivania, afferrando il cellulare di Kota e lanciandolo poi al più piccolo.
“Componi il suo numero” ordinò, mentre gli altri due lo fissavano accigliati.
“Cosa... no, mio fratello non...” provò a protestare, respirando velocemente.
“Fallo!”
Kota si mise in disparte, probabilmente deciso a non interferire con quell’ordine tanto diretto.
Ryosuke invece cedette, componendo il numero del fratello e passando poi il cellulare a Kei.
Uno squillo. Due. Tre.
Quando lo sentì rispondere, Kei si passò la lingua sulle labbra, assorto, come un cacciatore che aspetta di avventarsi sulla preda.
“Yaotome-san?” chiese, mellifluo.
“Chi parla?” sentì la voce all’altro capo del telefono, sospettosa come si sarebbe aspettato da un poliziotto.
“Di’ ciao al tuo fratellino, Yaotome” disse allora, ridacchiando lentamente mentre poggiava il telefono all’orecchio di Ryosuke.
“Hikka? Hikka non ti preoccupare, io sto bene, io...” disse velocemente il più piccolo, ma Kei non lasciò che aggiungesse altro.
“Ryo! Ryo?!”
“Hai sentito? Il tuo piccolo fratellino sta bene. Anzi...” passò un dito sul petto del più piccolo, lasciando che il detective all’altro capo del telefono ne sentisse il gemito sommesso. “Direi che sta più che bene” aggiunse, sorridendo.
“Figlio di puttana... prova a fare qualcosa a Ryosuke e giuro che...”
“È stato un piacere, Yaotome-san” disse solo, per poi chiudere la comunicazione.
Diede il telefono a Kota, andando poi a sedersi sulla poltrona, accendendosi una sigaretta.
“Perché l’hai fatto?” domandò Ryosuke, fra le lacrime.
Tanto lui quanto il più grande lo fissavano, con aria d’attesa.
E Kei allora rise.
E rise, e rise, e rise.
“Perché” rispose, quando si fu calmato. “Fa più male pensare che tu sia vivo e che possiamo farti qualsiasi cosa, no Ryo?”
Vide il più piccolo guardarlo con astio, ma non se ne preoccupò più di tanto.
Era felice.
Afferrò le proprie pillole, mandandone giù qualcuna, nonostante non ne sentisse così tanto la necessità.
Aveva ancora in testa la voce di Yaotome, il suono della sua sofferenza per il fratello.
E l’altrui dolore, era la droga migliore che conoscesse.