Titolo: “Kumo no ito” (La tela del ragno)
Fandom: Hey! Say! JUMP
Personaggi: Yabu Kota, Inoo Kei, Takaki Yuya, Chinen Yuri, Yaotome Hikaru, Yamada Ryosuke, Arioka Daiki
Pairing: Inoobu, Takachii, Ariyama, slight!Yamabu, slight!Takanoo
Warnings: Slash, Non-con, Death!Fic, AU, Minor abuse, Violence
Word Count: 23.862
fiumidiparoleRating: NC-17
Prompt: 428. “Bambino sacrificato.”
NdA: Storia scritta per la challenge
bigbangitalia e per la
500themes_ita. Il titolo è tratto dall’omonima canzone di Takaki Yuya.
Questa storia ha ricevuto la bellezza di (s’inchina) due gift, rispettivamente da
el_defe (che potete vedere
Qui, e da
simph8 (che potete scaricare invece
Qui. Sono entrambi bellissimi e ad entrambi va la mia gratitudine *__*
~ Kumo no ito ~
05 - Negai
“Le tue lacrime non saranno mai versate invano.”
[Beat Line, Hey! Say! JUMP]
Hikaru avrebbe voluto trovarsi in tutt’altro luogo.
Sarebbe voluto poter rimanere in centrale, a dare una mano con le indagini, ma Yuri gli aveva quasi ordinato di uscire.
Nessuno dei due ne poteva più, e per quanto comprendesse le ragioni del più piccolo, non poteva fare a meno di agire in un determinato modo.
Continuava a pensare a quella telefonata.
Quella voce non gli piaceva per niente.
Non aveva compreso subito il motivo di tale gesto, e aveva anzi dovuto rimuginarci un po’ su prima di comprendere.
Voleva spaventarlo.
E, per quanto Hikaru non volesse dargli quella soddisfazione, doveva ammettere che c’era riuscito.
Continuava a ripensare alla voce del fratello e a quella del più grande, probabilmente Kei, e si diceva che non sarebbe dovuto andare nel panico, che Ryo almeno era vivo, che stava bene, che...
Per quanto lo sarebbe stato?
Da quel poco che erano riusciti a scoprire su Kota, e quel niente che invece avevano su Kei, Hikaru non poteva essere tranquillo nel credere che non gli avrebbero fatto niente.
Era per questo che aveva vinto ogni sua remora, ed ora si trovava di fronte la porta di casa di Yuya.
Quando l’altro gli era andato ad aprire aveva visto un’ombra sul suo viso, quasi timore nei suoi confronti, e non aveva davvero potuto biasimarlo.
Chinen aveva perorato la causa del più grande per ore prima che lui si convincesse del fatto che non sapeva niente del fratello.
Ora Hikaru era lì per portare a termine quello che la prima volta aveva fallito; se non poteva, cioè, sapere dove si trovassero, almeno voleva capire qualcosa in più sulla psiche di Kota.
Ed era conscio del fatto che probabilmente Yuri sarebbe riuscito meglio in quell’intento, ma era qualcosa che sentiva di dover fare da solo. Voleva recuperare la fiducia sua e di Yuya, a qualunque costo.
“Ti ho già detto che non so dove si trovino” Yuya prevenne la sua domanda, rimanendo in piedi mentre l’altro si accomodava sul divano.
Era un atteggiamento di difesa, ed era intenzione di Yaotome invece portarlo a smontare quella diffidenza.
“Sì, lo so. Non ti preoccupare, ci stiamo adoperando in tal senso” gli disse, eloquente, prima di concedergli un sorriso stentato. “Ma Chinen l’altro giorno ti ha chiesto del passato di tuo fratello, no? Che cosa... che cosa ci puoi dire in merito?” chiese, diretto, ben deciso ad evitare inutili giochi di parole.
E dall’espressione di Yuya comprese che quella era probabilmente la domanda peggiore che gli potesse essere fatta; il ragazzo si sedette adesso, con il dubbio che sopraffece il timore nei confronti di Hikaru.
Si lasciò ricadere con la schiena contro lo schienale della poltrona, riflettendo, portando una mano alla bocca e torturandosi le labbra con le unghie.
Hikaru sospirò silenziosamente, tentando un’altra strategia.
“Quand’è che Kota se n’è andato di casa?”
Forse, pensò, avrebbe risposto meglio a delle domande dirette. E a conti fatti, ebbe ragione.
“Aveva diciotto anni. Me lo ricordo, un giorno ha preso le sue cose e mi ha detto di non preoccuparmi, che sarebbe stato bene e che si sarebbe fatto sentire. Ma non mi ha mai detto dove stesse andando.”
Hikaru annuì.
Avrebbe voluto prendere qualche appunto, ma decise che era meglio cercare di tenere a mente quanto l’altro gli stava dicendo; per non innervosirlo ulteriormente, era meglio lasciarla passare come una chiacchierata, e non un interrogatorio.
“Come mai se n’è andato?” altro silenzio, questa volta più lungo, come se Yuya stesse scegliendo accuratamente le parole da usare.
“Lui non... non andava molto d’accordo con mio padre” mormorò alla fine, e Yaotome comprese che, se non era del tutto una menzogna, lo era almeno in parte.
“Mh. Come mai? Qualche motivo in particolare?”
Vide Yuya respirare sempre più velocemente, e si morse un labbro, domandandosi se la sua fosse stata la mossa più azzeccata.
Il più grande aveva artigliato i cuscini del divano con le unghie, come se volesse strapparli, e sembrava in preda ad un attacco di panico.
“Calmati, per favore. Io...” Yaotome sospirò, protendendosi verso di lui. “Io ti capisco. Capisco l’istinto di voler proteggere un fratello, capisco che cosa voglia dire non sapere se si stia facendo la cosa giusta o meno. Ma Kota si è messo in una situazione più grande lui, e si è trascinato dietro il mio di fratello. Se tu mi dai una mano, possiamo fare qualcosa per entrambi” gli disse, tutto d’un fiato. “Credimi, Yuya. È necessario” mormorò poi, continuando a guardare l’altro, senza perdere nemmeno una delle sue espressioni, sorridendogli appena quando lo vide tranquillizzarsi.
“Mi... mi dispiace. Per tuo fratello, intendo.”
“Non è colpa tua. È stato solo un caso, poteva...” sospirò, piano. “Poteva essere chiunque. Ora l’importante è ritrovarlo” si alzò velocemente, andandosi a sedere di fianco a lui sul divano. “Yuya... perché tuo fratello se n’è andato di casa?” ripeté.
Il più grande tenne lo sguardo fisso sul pavimento, e dopo un po’ prese a parlare.
“Certe... certe cose non le ricordo benissimo, perché ero troppo piccolo. Altre invece mi sono tornate alla mente, ma all’epoca non riuscivo a comprendere bene che cosa accadesse” cominciò, confusamente. Hikaru non chiese chiarimenti, certo che all’altro servisse solo del tempo. “Sentivo nostro padre chiamare Kota. Ad ore diverse e in giorni diversi. Più spesso nei periodi in cui non riusciva a trovare lavoro. Quasi sempre quando era ubriaco, ma” sorrise, mesto “era anche abbastanza raro che fosse sobrio.” si morse un labbro, riprendendo a raccontare. “Kota andava sempre da lui, e io pensavo che avesse uno sguardo strano, ma tutte le volte in cui ho cercato di chiederglielo lui mi diceva che non dovevo preoccuparmi di niente. Che... che a me non sarebbe successo nulla” Hikaru vide gli occhi riempirglisi di lacrime, e stava anche cominciando a capire il perché. Ma non avrebbe osato fermarlo, non in quel momento. “E io allora me ne sono fregato. E ora mi odio per questo, perché magari avrei potuto fare qualcosa, magari se... se lui me l’avesse detto prima...” si fermò prima di agitarsi nuovamente. Chiuse gli occhi brevemente, e poi riprese, con tono più calmo. “Quando se n’è andato di casa, ho creduto al fatto che non andassero d’accordo. Che era vero, perché non facevano altro che litigare. Solo che... avrei dovuto rendermi conto del fatto che non poteva volersene andare solo per quello” sorrise, ancora, più triste di prima. “Ma non ci ho messo molto a capire. A mio padre... ecco, probabilmente gli mancava la presenza di Kota. Un giorno mi sono sentito chiamare esattamente come chiamava lui, con quegli stessi occhi e quello stesso sguardo di superiorità. E... e mi ha...”
Hikaru gli mise una mano sulla gamba, scuotendo la testa.
“Va bene così” mormorò, piano.
Cercava di non guardarlo negli occhi, fingendo di ignorare le sue lacrime, ma sapeva di non poter fare molto altro per lui.
Ora capiva. Capiva il perché della sua ritrosia, capiva quel modo di fare schivo e quei continui attacchi di panico.
Poteva a stento immaginare che cosa quell’uomo potesse avergli fatto e, suo malgrado, non riusciva più a stupirsi del fatto che il fratello fosse diventato quello che era stato.
Ne aveva visti tanti, fin troppi, cercare di sfogare il proprio dolore sulla pelle altrui. Abbastanza da sapere che non serviva mai a molto.
“Tu e Kota ne... ne avete mai parlato?” gli chiese dopo qualche secondo di silenzio, più per dire qualcosa che per una reale utilità.
Il più grande scosse la testa, asciugandosi velocemente gli occhi.
“No. Non gli ho mai detto quello che è successo dopo che lui se ne è andato. Non volevo che si sentisse in colpa, credo” rispose, passandosi la lingua sul labbro inferiore e poi distogliendo lo sguardo dal suo, a disagio.
Hikaru comprese che non gli avrebbe potuto dire molto di più.
Anzi, gli aveva appena rivelato più di quanto non si sarebbe aspettato.
Si alzò in piedi, sospirando e cercando di sorridere.
“Io devo andare adesso. Se ti dovesse servire qualsiasi cosa...” frugò nelle tasche, tirando poi fuori un biglietto da visita e porgendolo all’altro, il quale si era alzato a sua volta per accompagnarlo alla porta.
Non rispose che con un cenno del capo.
Uscendo dalla porta Yaotome avrebbe voluto dirgli qualcosa, qualsiasi cosa.
Ma si rendeva conto che niente l’avrebbe comunque aiutato, che si era arreso al peso di quel passato, e che niente di quello che avrebbe potuto dire o fare avrebbe cambiato le cose.
Una volta fuori dal palazzo invece, rifletté sulle implicazioni di quanto Yuya gli aveva appena detto.
Il suo senso di ansia per Ryosuke non si era affatto placato, anzi.
Prese il cellulare, componendo nervosamente il numero di Yuri.
“Chinen? Sono io. Possiamo vederci da qualche parte? Dobbiamo parlare...”
Yuri non sarebbe stato contento delle novità. Affatto.
***
Non era da molto che Kei lo vedeva lì.
Ma se lo ricordava alla perfezione, forse per la sua espressione, per lo sguardo nei suoi occhi, così maledettamente simile al proprio.
Parlava con la stessa assistente sociale che seguiva la sua famiglia, Takeuchi.
A Kei non era mai piaciuta e dagli occhi dell’altro ragazzo, intuiva che non piaceva nemmeno a lui.
Parlava sempre tanto, si diceva sempre disponibile, eppure negli ultimi mesi Inoo si era reso conto del fatto che non faceva mai niente di concreto.
Aveva parlato a lungo con sua madre, e la donna aveva solo dovuto recitare un po’ per convincerla del fatto che andava tutto bene, che il figlio era solo sbadato, che era una casualità se era sempre ricoperto di ferite.
E Takeuchi-san allora si improvvisava psicologa, e lo trattava come se fosse lui il problema, come se lavorasse troppo di fantasia.
Kei aveva imparato ad odiarla.
Non appena vide il ragazzo, Kota gli sembrava di averlo sentito chiamare, uscire dall’ufficio della donna, si alzò in piedi e gli si avvicinò.
“È inutile, non è vero?” gli disse, con un sorriso sarcastico.
Kota scrollò le spalle, mordendosi un labbro.
“Già. Ma sempre meglio stare qui che a casa, anche se alla fine non faranno niente per me” rispose, spostando il peso da un piede all’altro, come incerto se congedarsi o aspettare una risposta dal più piccolo.
Kei gli avrebbe voluto chiedere come mai si trovasse lì, ma desistette quasi subito; lui per primo non avrebbe risposto ad una simile domanda, ragion per cui non reputava corretto porgergliela.
“Ti va di andare a bere qualcosa?” gli domandò allora, con espressione innocente, quasi sorprendendosi quando l’altro accettò.
Fu così che cominciò, con quel blando interesse di Kei nei confronti del più grande che non aveva tardato a divenire morboso, perché in lui vedeva come una sorta di ancora di salvezza, come qualcuno che l’avrebbe potuto aiutare, come qualcuno che potesse strapparlo via a quella quotidianità di orrori che era costretto a subire.
Kei non aveva mai parlato con nessuno della madre; un po’ perché se ne vergognava, e un po’ perché sapeva che nessuno avrebbe mai potuto capire che cosa volesse dire sentirsi traditi da quella stessa persona che l’aveva messo al mondo.
Kota era diverso. Kota conosceva bene quella sensazione, Kota lo poteva davvero capire.
Era un bambino sacrificato dalla follia di chi l’aveva messo al mondo, esattamente come lui.
Non era più bambino da un pezzo, e come lui non lo era mai stato davvero.
Non aveva avuto vergogna nel parlargli, ed era stato questo che l’aveva per prima cosa attratto in lui.
Si erano raccontati l’un l’altro, e l’un l’altro si erano confortati in un certo modo, e tornare a casa era sempre un po’ meno doloroso quando sapevano che si sarebbero rivisti il giorno dopo.
Fu così che cominciò.
E quando un giorno, mesi dopo il loro primo incontro, Kei gli chiese di scappare via con lui, si sarebbe aspettato che l’altro accettasse con un po’ più di semplicità quella proposta.
“Io... c’è Yuya a casa. Come faccio a lasciarlo da solo?”
A quel commento, Inoo si era irritato.
Non gli piaceva sentirlo parlare del fratello; gli ricordava che lui, al contrario, non aveva nessuno da lasciarsi alle spalle.
“Che importa, Kota? Perché devi continuare a subire quest’inferno per lui, che nemmeno sa che cosa passi tutti i giorni? Lui starà bene anche senza di te. Non puoi restare lì, lo capisci?”
Kota aveva tentennato, ancora.
Kei allora l’aveva baciato, a lungo, lasciandosi toccare e stringere, lasciando che il più grande passasse le dita su ognuna delle sue cicatrici, che le guardasse, che ne saggiasse la consistenza liscia e regolare.
“Portami via da lì, Ko” aveva mormorato allora, con gli occhi lucidi.
Ed era stato allora che l’altro aveva ceduto, che Inoo aveva vinto.
Aveva mostrato a se stesso che c’era qualcuno che lo amasse più di ogni altra cosa, qualcuno disposto a sacrificare tutto per lui.
Gli piacque quella sensazione.
Così tanto che l’aveva sempre vista come la sua prima droga.
***
“Ko, devo farlo... pensa a quello che mi ha fatto, pensa a quanto ho sofferto. È necessario. È da quando sono bambino che non sogno altro, e ora ne ho la possibilità. Ti prego.”
“Sono... sono certo che si sia un altro modo, Kei. In fondo non la vedi più da quasi un anno, e sono certo che fra un po’ di tempo non ci penserai più e...”
Il più piccolo aveva urlato, togliendosi la maglietta e voltandosi, lasciandogli una panoramica della propria schiena, disseminata di cicatrici.
Era rimasto immobile qualche secondo, poi si era rivestito e l’aveva guardato con espressione severa.
“Tu dimenticherai, Ko?” mormorò, in lacrime. “Tu dimenticherai quello che ti ha fatto? Perché io non posso.” aveva detto soltanto.
Kota si era morso un labbro, aggrottando le sopracciglia.
“D’accordo, Kei. Se ti farà finalmente stare bene, allora ti aiuterò.”
Inoo gli aveva sorriso e l’aveva abbracciato.
Il calore di quelle mani addosso e il pensiero che quelle stesse mani avrebbero di lì a poco ucciso i suoi incubi, lo faceva sentire bene come non stava da anni.
Era arrivato il momento in cui i bambini sacrificati, abbandonati, lacerati, cominciassero a rendere il male che era stato loro fatto.