Titolo: Tentazione
Autore:
theslashqueen Fandom: nessuno, è ORIGINALE
Genere: introspettivo, un po' angst e non dico altro
Rating: per tutti
Warning: slashhhhhhhh
Numero di Parole: 900 e qualcosa
Trama: a sorpresa...
Disclaimers: i personaggi, volutamente senza nome, sono miei ahahah
Note: ho scritto tutto ciò in un impeto di follia alle 23.30 XD era da tanto che volevo farlo e me la sono goduta fino all'ultimo ahahah Ma seriamente.. dalla terza persona sono passata alla seconda, circa a metà, come a volte avviene nei pensieri: si cerca inizialmente di mantenersi distaccati, ma si finisce sempre con lo sprofondare nell’idea dell’altro. E allora ciò che non è si intreccia con ciò che potrebbe essere, e l’essere si genera.
Ricordate che alla fine tutto sarà chiaro..
Non aggiungo altro, non voglio rovinare la sorpresa..
Tentazione
Certe volte il fiato mi viene meno.
È come se fosse un pomeriggio di inizio agosto: l’umidità è tale da penetrare nelle ossa e l’ombra brucia.
In quei momenti mi manca il fresco di quel posto, quei profumi intensi e il suo silenzio, che a volte i passi profanavano, alternati da sussurri reverenti; tuttavia vi era sempre pace, ma essa non sempre mi bastava.
Una parte di me, troppo a lungo costretta a un silenzio forzato, prendeva a scalpitare e non riuscivo a frenarla, a soffocarla. Perciò mi cambiavo d’abito ed ero costretto ad allontanarmi di nascosto, come un fuggiasco, credendo di poter veramente fuggire dal mio apparire.
Vagavo solo, amando ed odiando l’idea di non avere qualcuno accanto, finivo in un bar, senza neanche accorgermene, e, seduto al bancone, bevevo.
Neanche sapevo cosa, in realtà. Bastava fosse forte. E non fosse rosso.
Ogni tanto una ragazza mi si faceva vicina, ma la allontanavo come tutte (erano troppo alte, troppo basse, troppo more, troppo bionde). Cielo, che assurdità. Di una disprezzavo sin il vestito nero. Mi pareva così ordinario.
Ogni cosa, difatti, iniziava ad apparirmi ordinaria.
Eccetto lui.
Per lui avrei liberato me stesso da quella volontaria prigionia.
Non avrei mai pensato di venir trascinato in quell’inferno da un angelo dagli occhi azzurri.
Quando il giorno giungeva, lui si sedeva di fronte a me, mentre parlavo, e mi sorrideva. Un po’ sfrontato ad essere sinceri. Perché lui lo sapeva. Forse me lo leggeva in faccia. Eppure, quando il fatto accadde, fu per tutti una sorpresa sconvolgente.
Ma torniamo a lui. L’angelo.
Ogni notte mi veniva a trovare nei sogni e in ogni modo mi tentava.
Io cedevo. Sempre.
Proprio io.
Chi l’avrebbe mai detto?
Mi piombava addosso e mi spogliava dei miei vestiti, della mia apparenza, a brandelli faceva la mia corazza.
Io neanche tentavo di fermarlo, anzi, lo aiutavo.
Così, quando l’avevo dinanzi e cercavo di credere in quello che professavo, arrossivo all’improvviso e perdevo il filo. Tentavo allora di ricompormi, di respirare a fondo, tentavo più che altro di non guardarlo, di non pensare a quanto avrei desiderato scendere gli scalini, avvicinarmi e attirarlo a me, stringendo tra le mani la sua cravatta.
E baciarlo.
Davanti a tutti.
Io.
Alla sola idea il colletto mi fasciava ancor più stretto, cercavo con le dita di allentarlo, ma, bianco, era come una catena.
Egli poi mi veniva a parlare, cercava consiglio, mi diceva che si sentiva confuso, non capiva. Era tutto così strano, diverso. E voleva che io lo aiutassi a trovare la via. Una pecorella smarrita, si definiva.
Potevo forse essere io il suo pastore?
Me lo sarei mangiato all’istante. Proprio mentre se ne stava in ginocchio.
Maledetto angelo. Ero così felice prima del tuo arrivo. Vivevo nella luce, mi crogiolavo nel suo calore, parlavo solo con Lui, gli aprivo il mio cuore che ancora credeva di essere puro; poi sei arrivato tu e mi hai rovinato.
Ma un giorno non ce l’ho più fatta.
Era domenica mattina e la sala era colma di anime, tutte lì ad aspettarmi, ansiose di pendere dalle mie labbra, di udire le mie parole che, a dispetto della verde età, erano sagge, centenarie.
Il brusio era snervante. Ero in ritardo, non riuscivo ad uscire dalla mia stanzetta. I vestiti mi schiacciavano a terra, l’aria mi mancava e non riuscivo a smettere di pensare a te, angelo.
E tu sei entrato, come richiamato dal mio pensiero martellante, ormai solo a te rivolto, non più a Lui.
«La stanno aspettando, sono preoccupati» mi hai detto con la tua voce dolce da giovane uomo.
Io però non ti ho risposto, ero troppo intento ad allentarmi ancora una volta il colletto.
«Sono preoccupato per lei». Hai aggiunto facendo un passo verso di me, catturando la mia attenzione.
«Non devi preoccuparti, sto benissimo. Torna di là, tra poco ti raggiungerò».
Da quando mi era diventato così facile mentire?
«Lo vedo dai tuoi occhi che non è così. Puoi confessarmi le tue preoccupazioni, se vuoi. Sono bravo a mantenere i segreti».
E il tuo solito sorriso era pronto a schermirmi.
E non ho più saputo resistere.
Ho tentato di rimanere dov’ero, di continuare a stringere il bordo del tavolo contro cui mi ero appoggiato, ma le dita hanno mollato la presa e io mi sono avvicinato a te, ti ho cinto la vita con le mie braccia di uomo e ti ho strappato via dalle labbra quel sciocco sorriso.
Era così dolce contro le mie. Il tuo sapore era più ardito di quello della mela rubente.
Mi sono poi allontanato di scatto, chiedendomi quando sarebbe giunto il rimorso, il pentimento.
Ma invano l’ho atteso.
Allora mi sono levato da sopra le spalle la stoffa purpurea, con cura l’ho piegata e appesa nell’armadio spoglio. Poi ho infilato le dita tra il collo e il colletto, come quelle tante volte in cui mi toglievi il fiato, e ho sfilato la mia fascetta bianca, quel simbolo di castità e devozione nei Suoi confronti.
L’ho lasciata sul tavolo e ho seguito te, fuori da quella stanzetta, fuori da quella chiesa.
Me l’aveva sempre detto mio padre che l’abito non fa il monaco, ma io ogni volta avevo scrollato le spalle, non dandomi pensiero per le sue parole.
Ancora oggi qualche volte capita che mi svegli di notte privo di fiato; ma mi basta allungare un braccio per trovarti, e l’animo mio si placa.
Alla fine ero io ad essere la pecorella smarrita e tu il mio pastore.