Original; Cow-t; The winner takes it all 2/2

May 01, 2011 23:23


Ferelen riapparve nella città degli angeli con grazia, lasciando finalmente che le sue ali si sgranchissero dopo aver passato ore chiuse o tese per l’irritazione (uomini, lo mandavano sempre in bestia).

Ora che si trovava a casa, ora che quel mondo era finalmente dietro di loro, si sentiva incredibilmente meglio. Il cielo sopra di loro era azzurro come il mare e Ferelen alzò la testa per guardarlo meglio.

Si sentiva calmo e rilassato, la loro città gli dava sempre quella sensazione, con l’erba e la leggera brezza (il tocco del loro Signore, la Sua benedizione).

Ilen non era della stessa sua idea, evidentemente «Puoi credere alla loro sfacciataggine? Chi si credono di essere quelle scimmie?» stava sibilando l’angelo, le piume che tremavano per la rabbia. Ferelen avrebbe voluto ordinarle di calmarsi, ma non spettava a lui.

Ilen aveva visto molte più lune di quante Ferelen potesse anche solo immaginare, anche il solo pensiero di parlarle in un tono che esprimesse altro che sottomissione lo ripugnava.

Era questo che li rendeva diversi dagli uomini e dai vampiri. Gli angeli non erano buoni, non erano carini e molto probabilmente non erano simpatici. Però gli angeli erano giusti.

Il loro senso di giustizia e onore superava persino quello dei cavalieri - che si fregiavano di essere portatori di entrambe le virtù senza conoscerne davvero il significato.

Non v’erano invidie tra gli angeli, non v’era cupidigia. Gli angeli erano tutti uguali, secondi solo al loro Padre. Con il passare del tempo le loro ali diventavano più forti, le loro anime più vicine al loro Signore, la loro spada più tagliente.

Perché gli angeli non erano altro che la giustizia di Dio, le spade che portavano la sua decisione ai suoi giovani e stolti figli.

Eppure… quello che aveva detto Sir Claus (quel piccolo pomposo) non era totalmente falso: non erano stati in grado di respingere l’offensiva dei vampiri, non bene come avrebbero dovuto.

Le loro lame li avevano traditi, i loro numeri si erano rivelati inferiori a quelli dei nemici. E tutto perché…

Nessuno ne parlava, ma ogni volta che Ferelen alzava gli occhi al grande oracolo non poteva fare a meno di venire investito dallo sconforto. La pietra divina non aveva brillato quella settimana, né quella prima e nemmeno quella prima ancora.

La luce Divina che era il perno di quella città, la base stessa della loro razza, non brillava più da un mese.

Che il loro Padre li avesse abbandonati? Perché mai avrebbe dovuto farlo? Cosa avevano fatto di sbagliato?

«Non accetteremo mai la loro proposta,» sbottò Ilen, infuriata, e Ferelen si apprestò ad avvertirla di non prendere una decisione così affrettata (frase che gli sarebbe costata molto, lo sapeva) quando Jeremiah, fortunatamente, lo precedette.

«Non essere così emotiva, Ilen,» la redarguì, noia nella sua voce «hai l’aspetto di una donna umana, ma questo non vuol dire che ti devi comportare come tale. »

Jeremiah era più giovane di Ilen - ma non di molto, giusto qualche anno (che, parlando di età celestiale, venivano considerati come pochi giorni umani) - eppure l’altro angelo ascoltava la sua opinione. Si fidava di lui come con pochi altri.

Come previsto la rabbia di Ilen scemò velocemente e le sue ali smisero di vibrare, Ferelen emise un sospiro di sollievo.

«Hai ovviamente ragione tu, Jeremiah, noi siamo superiori a loro,» ragionò, cominciando a camminare verso il tempio «ragioneremo sulla questione e decideremo quale opzione ci conviene maggiormente. Ferelen, puoi anche andare, grazie di averci accompagnato,» e poi lei e Jeremiah erano spariti in un battito di piume.

Ferelen non aveva ancora l’età necessaria ad entrare nel tempio dove tutta la storia celestiale era stata scritta, ma era l’angelo più potente della sua generazione. Le sue ali avevano le piume più candide di tutte quelle dei suoi coetanei e i suoi poteri raggiungevano i livelli di angeli con un secolo in più di lui. Non poteva entrare nel tempio, ma la sua opinione era quantomeno rispettata all’interno del consiglio, cosa di cui molti altri angeli della sua età non si potevano vantare.

Era cresciuto sapendo che era destinato a qualcosa di grandioso, ma non aveva mai saputo cosa. Forse quella guerra era esattamente l’occasione che aspettava: forse era nato per portare gli angeli vittoriosi in quella occasione.

Il suo istruttore l’aveva sempre messo in guardia dai quei pensieri. Non erano adatti ad un angelo, avrebbe dovuto nasconderli dentro di lui e scacciarli più in fondo possibile. A volte Ferelen ci riusciva e dimenticava la sensazione del potere divino che gli scorreva per le mani, del modo in cui le sue ali splendessero di mille colori sotto il sole del mattino.

Altre volte la consapevolezza tornava a tutta forza e gli toglieva il respiro. E non riusciva nemmeno a ricordarsi perché fosse una brutta cosa.

Ferelen non aveva voglia di tornare a casa, quindi si diresse verso il Giardino della Vita. La compagnia degli alberi lo rilassava, sedersi all’ombra di un salice, sentire i raggi del sole accarezzargli le ali da sotto gli spiragli lasciati liberi dalle foglie… era una sensazione che nessun’altro se non loro avrebbero mai potuto provare. Era una sensazione per cui valeva la pena lottare.

Superò un gruppo di angeli raccolti in preghiera e si diresse in un punto del giardino isolato, dove avrebbe potuto avere la solitudine che ricercava. Ferelen non aveva un compagno e non aveva amici intimi (anche se questo era un tratto comune ad ogni essere angelico che non era certo una razza incline ad aprire il suo cuore e supportarsi a vicenda) e passava la maggior parte del tempo in preghiera da solo. Lo trovava più facile, lo faceva sentire maggiormente in contatto con il loro Padre.

Si sedette sull’erba dunque, lasciando che le sue ali si rilassassero e poi chiuse gli occhi.

Eppure nessuna parola e nessuna preghiera gli toccava la mente, non in quel minuto, non mentre aveva ancora in mente le parole della riunione, non mentre poteva sentire i canini dei vampiri attanagliare la loro città.

Alzò lo sguardo al cielo chiedendosi, ancora una volta, come potessero i vampiri sopportare di vivere in un mondo senza sole. Come potevano vivere senza il profumo dell’erba o il tiepido calore del mattino? Quale vita poteva mai essere la loro persa nella cupidigia e nel vizio, incapaci di liberarsi dalle catene della loro stessa depravazione?

Pur di sconfiggerli, pur di proteggere il cielo che tanto bene conosceva dalle grinfie di quegli esseri oscuri si sarebbe persino abbassato ad unirsi con gli uomini (se la decisione fosse stata solo sua, avrebbero firmato quello stesso pomeriggio).

Per anni ed anni avevano provato a convivere tutti in uno stesso mondo (angeli, vampiri, cavalieri e maghi) dividendo i confini e cercando di interagire tra di loro il meno possibile. Non era mai bastato.

Gli angeli potevano sentire la vita dissoluta dei vampiri, ogni loro lussuria ed ingordigia. Erano stati creati per combattere tutto ciò che erano i vampiri, erano stati creati per infilzarli con le loro spade.

Quasi a quel solo pensiero la sua Ilumen si fosse risvegliata, un calore conosciuto gli si irradiò dal petto.

Anche in questo gli angeli erano differenti dal resto delle altre fazioni: le loro armi non erano a loro estranee, ma risiedevano dentro di loro fin dalla nascita. Le loro spade erano la loro vita, la fiamma della giustizia che albergava in loro, dono del loro Dio. Per anni ed anni dopo la nascita la spada rimaneva una normale arma, priva di qualsiasi caratteristica divina, quando l’angelo raggiungeva la maturità necessaria essa veniva circondata da lingue di fuoco il cui colore dipendeva interamente dal carattere dell’angelo.

Ilumen aveva fiamme color rame che gli ricordavano il colore della collana che sua madre portava prima che fosse uccisa. Ferelen aveva sempre pensato che fosse un colore particolarmente calzante.

«Sapevo ti avrei trovato qui,» disse qualcuno, apparendo accanto a lui. Jeremiah.

Ferelen si alzò in piedi, sorpreso dalla visita. Si erano lasciati poco più di trenta minuti prima, cosa mai avrebbe potuto volere da lui ancora?

«Desiderate qualcosa, Jeremiah?»  chiese, inchinandosi leggermente - era pur sempre un suo superiore. L’altro angelo aveva i capelli rossi come il fuoco, ma gli occhi verdi come il prato. Era uno strano miscuglio, ma su di lui aveva un effetto calmante.

Jeremiah si voltò verso l’oracolo e non rispose immediatamente «Cosa pensi di questa guerra, Ferelen?» la sua voce era bassa e leggera e per un attimo Ferelen si chiese se avesse sentito bene.

«Come? » chiese dunque, confuso e Jeremiah rise, ripetendo la domanda.

«Cosa ne pensi di questa guerra? Credi sia giusta? Credi che la Veggente avesse ragione? » Ferelen sbattè le palpebre tre volte, cercando di comprendere cosa stesse cercando di fargli capire l’altro (perché doveva esserci qualcosa, no? Doveva esserci un significato nascosto che Ferelen non riusciva a comprendere, perché quelle domande erano semplicemente assurde).

«La Veggente non può sbagliare, Jeremiah,» sibilò, sentendo la tensione ritornare ad arruffargli le piume. Oltre la luce divina la veggente era l’unica loro via diretta verso Dio, nelle leggende essa era riportata come una Dea stessa, o comunque un essere che vi si avvicinava pericolosamente. Mettere in dubbio la parola della Veggente era… era eresia.

«Eppure sai da quando il cristallo non ha più brillato?» la sua voce sembrava lontana, come se non stesse veramente parlando a Ferelen, come se avesse ripetuto quelle parole nella sua testa milioni e milioni di volte. Quanto ci aveva pensato? Da quanto aveva questa convinzione? Perché lo stava mettendo a conoscenza? «Dalla notte in cui è stata presa la decisione di andare a consultare la veggente. Io non credo che nostro Padre ci voglia vedere combattere, sai Ferelen?»

Si zittì dopo quella parola, passandosi una mano sulle lunghe ciocche rosse. Aveva sorriso per tutto il tempo, un sorriso un po’ mesto, calmo. Non gli era mai sembrato così lontano come in quel minuto.

Lui e Jeremiah non si erano mai parlati molto, impegnati ognuno con le proprie vite (lui impegnato a tenere a freno Ilen e la sua pazzia), ma Ferelen era certo che quella fosse la prima volta che l’altro suonasse così… così sconfitto.

«Io non credo che nostro Padre voglia vedere i suoi figli che si combattano così,» ripetè Jeremiah e Ferelen scosse la testa.

«I vampiri non sono più figli di dio, Jeremiah,» lo contraddisse, perché era uno dei più basilari insegnamenti, una delle prime cose che veniva loro insegnata in accademia. «Hanno perso l’anima durante la loro trasformazione, tutto ciò che li rendeva nostri fratelli è scomparso con essa. »

Jeremiah rise e questa volta Ferelen vi sentì rabbia, acidità «Hai studiato il nostro manuale bene, vedo…»

Ferelen rimase in silenzio, incapace di capire come avrebbe dovuto rispondere; cosa mai avrebbe potuto volere da lui Jeremiah; perché stessero avendo quella conversazione in primo luogo.

«Dimentica quello che ti ho detto,» sbottò improvvisamente l’altro, incrociando le mani al petto «sono venuto a riportarti la decisione del consiglio…»

Non sembrava particolarmente felice (se della decisione o della loro conversazione Ferelen non era certo), ma lui non aveva tempo di preoccuparsene.

«Hanno già vociferato?» chiese sorpreso, avevano preso una decisione simile in soli trenta minuti? Erano folli? O forse il rifiuto ad unirsi ai loro fratelli minori era stato così forte da non lasciare nemmeno adito ad una discussione… conoscendo la sua razza era possibile.

Jeremiah scosse la testa però, ritrovando un poco di buon umore «Non su quello che pensi tu, non hanno nemmeno ancora portato avanti l’argomento,» poi si avvicinò a lui e gli mise una mano sulla spalla. Questo improvviso cambio di atteggiamento lasciò Ferelen estremamente confuso. «Ti sei comportato bene oggi,» gli disse Jeremiah.

Ferelen sapeva che era un complimento grosso e sentì il suo orgoglio fare un piccolo balzo per la felicità. «Il consiglio,» continuò poi Jeremiah «ha deciso di permetterti l’ingresso al tempio in anticipo…»

Per un secondo Ferelen aprì la bocca, incapace di comprendere cosa gli stesse dicendo l’altro fino a che si rese conto che davvero non c’era modo di interpretare male quelle parole e… oddio.

Improvvisamente sentiva il bisogno di sistemarsi i vestiti, di stare con la schiena dritta, di rendersi il più presentabile possibile. Aveva accesso al consiglio, aveva accesso al consiglio.

Jeremiah rise, di nuovo, evidentemente conscio di quello che stava succedendo dentro la sua testa - erano capaci, con concentrazione, di leggere nella mente delle persone, ma Jeremiah non aveva certo bisogno di utilizzare il loro potere su di lui per capire cosa stesse pensando, probabilmente tutto il suo nervosismo era chiarissimo nel suo viso.

«Quando ti sarai ripreso,» disse improvvisamente l’angelo più anziano, «dobbiamo andare, ci stanno aspettando. E abbiamo molto in questo secondo, Ferelen, ma il tempo temo sia l’unica cosa che realmente ci manchi…»

Ripreso? No, non si era ripreso per nulla, ma avrebbe avuto tempo per quello. Annuì all’altro, cercando di riacquistare almeno un poco di compostezza.

«Hai ragione, andiamo.» Jeremiah annuì e improvvisamente gli prese il braccio, teletrasportando entrambi.

La sala del consiglio era incredibilmente semplice. Ferelen si sarebbe aspettato, guardando anche l’arredamento del resto del tempio, un qualcosa di più raffinato. La sala era circolare, con delle sedie disposte a circolo e dei cristalli viola che illuminavano la sala. Nient’altro.

Ilen fu la prima ad alzarsi quando apparirono, ma Ferelen la ignorò, cercando di registrare quanti più dettagli gli fosse possibile.

Conosceva, almeno di fama, praticamente tutti gli angeli presenti in quella sessione, ma una cosa era vederli da lontano camminare con le loro ali di platino, un’altra cosa era essere lì, con loro. Ancora non riusciva a crederci, non davvero.

«Ferelen,» parlò Shenelei, alzandosi in piedi. Shenelei era l’angelo più antico ancora in vita, aveva partecipato alle due prime grandi guerre avvenute più di millenni prima, preferiva la sua forma femminile e Ferelen la guardò con ammirazione mentre si spostava delle ciocche castane dietro le orecchie «ti diamo il benvenuto tra di noi, per le tue capacità e la tua saggezza sei stato ammesso in consiglio prima del tempo. Purtroppo ci ritroviamo in un momento buio,» e improvvisamente non stava parlando più solo a lui, ma all’intera sala, le sue ali che si estendevano come ad attirare su di loro l’attenzione generale. Stava funzionando «l’ombra della guerra ci rende più deboli, ci trascina sempre di più verso le tenebre e i vampiri diventano più forti, nutrendosi dell’oscurità che alberga in questo mondo. Non possiamo permetterlo,»  e poi fece a tutti cenno di sedersi e Ferelen si rese conto che non sapeva dove si sarebbe dovuto sedere. O se aveva un posto tutto suo o se…. E poi improvvisamente una sedia (o meglio un trono) come quello in cui tutti gli altri sedevano apparve dietro di lui.

Ferelen si sedette cercando di abituarsi, sentendo il materiale freddo contro i palmi delle sue mani.

«Dobbiamo prendere una decisione,» continuò Shenelei, «dichiaro la sessione aperta.»

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Enja aveva passato i primi due giorni a recuperare le ore di lavoro che aveva ignorato per la riunione (anche se era praticamente certo che il maestro avesse aumentato la mole di lavoro semplicemente per fargli un dispetto o qualcosa di simile perché non credeva possibile che in sette ore si fossero realmente accumulate davvero così tante pozioni da bollire).

Cominciava a lavorare non appena il sole si alzava in cielo e finiva quando ormai era tramontato da tempo. Arrivava in camera sua distrutto, ma non ancora pronto per addormentarsi e semplicemente rimaneva in uno stato di dormiveglia a ricordarsi della strana sensazione che aveva provato quando aveva provato a predire le decisioni dei cavalieri e degli angeli. Nel minuto quella sensazione di paura si era mischiata alle tante altre che gli avevano attraversato le ossa, eppure ora era l’unica cosa che ricordava.

Perché aveva provato quella paura totalizzante? Cosa ne era stata la causa? La possibile risposta degli angeli? No. No era  un qualcosa che, ormai, sarebbe avvenuto a prescindere da una qualsiasi decisione.

Si portò le mani al viso, stropicciandosi gli occhi e fermandosi a giocherellare con i suoi capelli cercando di rilassarsi. Non aveva comunque senso pensarci ora, non c’era nulla che potesse fare.

E, probabilmente, era stato semplicemente un errore, non era mai stato realmente bravo a controllare quel potere.

Finalmente si rilassò, sentì il suo corpo rilassarsi tra le coperte e finalmente si addormentò.

La prima pozione su cui doveva lavorare quel giorno era abbastanza facile (doveva aggiungere un po’ di polvere di vento, due piume di pavone e…) ed Enja si concentrò semplicemente sul tagliare le spezie, sbriciolare la pietra e davvero, aveva fatto tutto quello almeno mille volte nella sua vita, i movimenti gli risultavano facili e ripetitivi.

Avrebbe dovuto spazzare in cortile poi, riordinare le stanze del maestro, leggere quattro libri di incantesimi… poi sarebbe potuto andare a raccogliere delle erbe nel bosco, avrebbe chiesto a Mel di andare con lui (Mel era l’apprendista di un amico del maestro, abitava nella villa accanto alla loro e spesso e volentieri andavano insieme a raccogliere gli ingredienti, giusto per sicurezza). Tutto sommato non era nemmeno una delle giornate più piene che aveva avuto nell’ultimo mese ed Enja stava fischiettando, muovendosi fra le varie ampolle con attenzione.

Poi, improvvisamente (e davvero, Enja avrebbe apprezzato un qualche avvertimento, anche solo un campanello d’allarme, una voce che gli suggeriva di sedersi) le sue gambe cedettero sotto il suo peso e le forze cominciarono a venirgli meni. Si strinse l’ampolla al petto, cercando di proteggerla, mentre rovinava a terra, la testa che gli girava.

Che cosa stava succedendo? Avrebbe voluto urlare (possibilmente il maestro o uno dei servitori l’avrebbe sentito e sarebbe corso in sui aiuto), ma non riusciva a parlare, nemmeno un suono usciva dalla sua bocca, non importa quanto ci provasse.

Si portò una mano alla gola e poi alla testa, che aveva cominciato a pulsagli dolorosamente. Poteva sentire un rumore acuto, come quello di una trombetta che gli trapassava i timpani senza sosta, gli impediva di pensare, gli impediva di fare qualsiasi cosa.

Per Dio, fatelo smettere, pensò, incapace di muoversi, di parlare. Chiuse gli occhi, cercando di trovare un poco di pace, ma non servì a nulla (ovviamente non servì a nulla, ma valeva la pena provare), ma quando li riaprì davanti a lui tutto era diventato arancione.

Possibile che avesse sbagliato con una pozione e ora ne stesse subendo gli effetti negativi? Era forse stata tutta colpa della sua sbadataggine? Eppure quale ingrediente avrebbe mai procurato questo genere di controindicazioni? Cercò di ricordarsi cosa avesse letto a riguardo sul libro, ma la sua testa gli faceva troppo male.

Li richiuse immediatamente, sentendo un conato di vomito risalirgli la gola. Dio, non era mai stato così male in tutta la sua vita, nemmeno quella volta che Mel gli aveva accidentalmente fatto ingerire una pozione velenosa. E quella volta era stato parecchio male.

Si rese conto che c’era qualcosa, in fondo alla sua mente, che stava pressando per farsi ascoltare, come se stesse urlando a tutta forza. Enja era troppo stanco e troppo dolorante per chiedersi che cosa fosse e la lasciò andare.

Vide uno dei tre angeli che aveva visto alla riunione e un’alabarda argentata che riluceva alla luce della luna, vide Claus e i suoi capelli biondi e così tanto sangue. Vide visi che non conosceva e luoghi che non ricordava di aver mai visitato. Vide capelli neri come la notte e occhi rossi come il demonio e poi vide mani che si univano in alleanza e qualcosa che si rompeva in mille pezzi.

Quando riuscì ad uscire da quella visione annaspò in cerca di aria, come se non respirasse da anni ed anni, come se fosse morto e poi ritornato in vita. Le immagini erano confuse e più cercava di dare loro un senso più gli sfuggivano tra le dita.

C’era solo una cosa che gli era chiara a quel punto…

La porta del laboratorio si spalancò mentre due servi e il maestro Avorus entrarono di tutta fretta. Si rese conto che la gola aveva ricominciato a fargli male, ma per un altro motivo: aveva urlato, aveva urlato così tanto che ora il solo pensiero di parlare di nuovo lo faceva sentire male. Non credeva di avere ancora della voce nei polmoni.

«Enja, stai bene?» chiese Avorus, appoggiandosi al bastone per piegarsi su di lui. No, era quello che avrebbe voluto rispondere (perché non stava bene, non stava bene per niente e aveva bisogno di vomitare) ma si trattenne.

Inspirò ed espirò un paio di volte e quando fu abbastanza certo di riuscire a mettersi a sedere senza vomitare lo fece, premendo forza sulle braccia. I due ragazzi gli furono immediatamente accanto, impedendogli di ricadere.

«Gli angeli hanno preso la loro decisione,» gracchiò, la sua voce fin troppo roca persino alle sue orecchie. Era l’unica cosa chiara in tutta quella serie di immagini che continuavano a balenargli in testa a loro piacimento.

Ricordava le ali di quell’angelo che non aveva mai visto (ali che, se fossero state dispiegate completamente, sarebbe state grandi come oceani) che proclamavano la loro decisione. Aveva visto le mani di Honvar  e di Ilen stringersi, sicure. E aveva visto…

«Quindi tocca solo a noi fare la nostra scelta…» mormorò Avorus, aiutandolo ad alzarsi. Enja scosse la testa. No, no, aveva visto anche quello.

Aveva visto lo sguardo sicuro di Avorus mentre si univa agli altri due, mentre creavano un’alleanza in cui nessuno dei tre credeva veramente. Dirglielo avrebbe cambiato qualcosa?

Se ora gli avesse detto che sapeva già che decisione avrebbero preso, se gli avesse detto che, probabilmente, aveva visto tutto quello che sarebbe successo da lì in avanti, avrebbe cambiato il futuro che gli era sembrato di vedere? La paura che continuava a stringerlo?

Il problema era che no, non l’avrebbe cambiato. Non era certo di come lo sapesse, c’era solo questa cruda consapevolezza dentro di lui e quindi abbassò la testa.

«Dovresti andare a stenderti, Enja,» disse improvvisamente Avorus, accarezzandogli un braccio. Erano rare le volte in cui il suo maestro si comportava dolcemente verso di lui, Enja si chiese che faccia dovesse avere. Perché se il suo viso rispecchiava anche solo metà di quello che sentiva il comportamento del suo maestro non sembrava così strano.

«Sì, credo sia meglio, maestro,» mormorò, scusandosi e cominciando a camminare verso la sua camera. Si gettò a letto, affondando il viso nel cuscino e cercando di calmare il suo cuore impazzito.

Era terrorizzato. Era terrorizzato dal suo potere, da quello che gli era sembrato di vedere (ma che ancora non capiva, che gli appariva semplicemente come immagini senza senso) e in generale da tutto quello che lo circondava.

Non voleva uscire dalla sua stanza, non capiva perché mai avrebbe dovuto. Chiuse gli occhi e si addormentò quasi subito, stremato.

Tre giorni dopo Avorus gli disse che la decisione del consiglio era stata presa. Enja cercò di mostrarsi sorpreso, cercò di non far comprendere al suo maestro che lo sapeva già, non sapeva se ci fosse riuscito. Gli piaceva pensare di sì.

«I cavalieri ci hanno mandato un messaggio, la prossima riunione si terrà dopodomani, nella solita catapecchia,» continuò, cominciando a camminare, Enja che lo seguiva diligentemente. Aveva visto anche quello ovviamente, ma aveva deciso che non avrebbe interferito, non ancora, non mentre non aveva alcuna importanza.

Qualsiasi cosa avesse fatto la storia si sarebbe svolta in una certa maniera, era frustrante e, probabilmente, nessuno sarebbe mai riuscito a capire perché.

Nessuno provava quel prurito sottopelle, quella voglia di fare qualcosa, di aggiustare quel mondo in pezzi ed avere la consapevolezza che sarebbe stato inutile.

Era peggio di qualsiasi cosa avesse mai provato.

«Tu verrai con me, Enja,» continuò Avorus, ignaro dei pensieri del suo apprendista. Enja se lo era aspettato e annuì. In quei tre giorni le sue mansioni erano state molto blande, si era limitato a completare le pozioni che aveva cominciato quel giorno, prima di sentirsi male (avere quelle visioni) e leggere i libri di incantesimi. Da un lato era stata una vera benedizione (non si sentiva ancora perfettamente bene e, a volte, quando si muoveva troppo velocemente la sua testa cominciava a girare troppo in fretta per essere normale) dall’altro lato tutto quel tempo libero gli dava la possibilità di pensare a cose che avrebbe voluto lontane dalla sua mente.

«Credi che stiamo prendendo la decisione giusta?» la domanda del suo maestro lo prese di sorpresa. Non sembrava esattamente insicuro (non sarebbe stato degno dell’uomo che aveva davanti), suonava semplicemente curioso.

Se Enja credesse stessero prendendo la giusta decisione? Per qualche secondo rimase in silenzio, lo sguardo rivolto a terra. Onestamente? Non lo sapeva.

«Credo stiate prendendo l’unica possibile,» rispose quindi, perché di questo era certo. E che fosse sbagliata o giusta era destino che fosse presa.

Non sapeva se la Veggente avesse sempre saputo di quello, se avesse dato quella profezia sapendo che questo sarebbe accaduto. Sperava di sì, perché in quel caso avrebbe voluto dire che qualcuno, almeno qualcuno, sapesse cosa diamine sarebbe successo da allora in avanti.

Non ne era sicuro però.

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Il messaggio degli angeli era arrivato inaspettato, ma a corte era stato accolto con gran gioia. Sembrava un inizio promettente, dopotutto, e Damien aveva bisogno di inizi promettenti. Damien aveva bisogno di tante cose.

Sospirò, lasciando cadere la testa da un lato, come se fosse troppo stanco per mantenerla eretta. Non aveva le forze di mantenere sé stesso e quel regno in piedi, doveva sacrificare uno dei due. Aveva ovviamente scelto sé stesso.

Sir Honvar e suo cugino, Sir Claus, entrarono nella sala del trono in quel preciso istante, inchinandosi al suo cospetto. Damien fece segno loro di alzarsi e una delle tante guardie passò loro la lettera.

«Abbiamo già mandato conferma ai maghi,» spiegò, annuendo verso di loro «qualsiasi cosa abbiate detto alla scorsa riunione sembra abbia funzionato.»

Non c’erano dubbi che gli angeli avessero deciso di accettare, se si fosse trattato di un rifiuto non si sarebbero disturbati a richiedere un altro incontro. Sarebbero rimasti nascosti nella loro maledetta città eterna.

Forse avevano davvero una possibilità di farcela, maledizione. L’avanzata dei vampiri nel settore orientale stava diventando insostenibile per le truppe stanche dei cavalieri e sapeva perfettamente che anche il resto delle fazioni stava soffrendo come loro.

Non sapeva come fossero riusciti i vampiri a nascondere una tale potenza bellica, ma li avrebbe distrutti - era diventata una questione di onore a questo punto, prima di qualsiasi altra cosa.

«Quindi il nuovo incontro si terrà in due giorni di tempo umani?» chiese Honvar, esaminando la lettera. Damien annuì, grato di sentire la voce amica di Honvar.

«Beh, ovviamente hanno capito che non avevano chance da soli, quei maledetti pennuti,» se Honvar sapeva adattarsi a qualsiasi situazione, mimetizzarsi con l’ambiente, Claus era tutto il contrario. Troppo rumoroso, troppo arrogante, troppo permaloso. Eppure era uno dei migliori cavalieri di cui Damien disponesse, una volta sul campo di battaglia ovviamente.

Quando li aveva mandati assieme aveva sperato che i loro caratteri dissimili avrebbero lasciato un poco perplessi i suoi avversari, dando loro almeno un leggero vantaggio psicologico. Non sapeva se aveva realmente funzionato, ma ora che aveva avuto quello che voleva non importava.

«Questo è tutto,» li congedò improvvisamente, facendo segno alle guardie di aprire le porte della sala per permettere ai due cavalieri di uscire. «Mi racconterete esattamente gli eventi dell’incontro al vostro ritorno. Se tutto andrà bene penso sarà ora per me di incontrare i capi delle altre fazioni,» non era esattamente al settimo cielo al pensiero, ma sapeva che era qualcosa che doveva essere fatto.

Fino a quel minuto avevano lasciato che fossero dei messaggeri a riportare le loro parole (tutti loro), ma presto non sarebbe più stato possibile.

Presto tutto sarebbe diventato incredibilmente più reale di quanto già non fosse. Damien ne era spaventato a volte.

Claus si inchinò, uscendo senza voltarsi, mentre Honvar rimase fermo a guardarlo. Damien gli sorrise, divertito. Honvar era troppo diretto, troppo buono in un certo senso. Poteva vederla nei suoi occhi, la preoccupazione. La preoccupazione per il suo amico d’infanzia diventato Re troppo presto, eppure era quello che era e bisognava che i suoi sudditi (tutti i suoi sudditi, anche Sir Honvar di Camburry) si rendessero conto che, nonostante la sua giovane età, era pronto a svolgere il suo compito.

Fino alla fine dei suoi giorni.

«C’era qualcos’altro, Sir Honvar?» chiese, guardandolo dritto negli occhi. No, ovviamente no, sapeva che dopo quella domanda ad Honvar non sarebbe rimasto altro che andarsene  e Damien l’aveva fatto di proposito.

«Solo… spero che questa buona nuova risollevi lo spirito della corte, maestà,» borbottò il cavaliere prima di inchinarsi e andarsene via. Damien a volte avrebbe voluto odiare Honvar e il modo in cui sembrava guardarlo come se fosse ancora Damien-ginocchia-sbucciate e non Damien III, il suo Re.

Eppure trovava il suo sguardo rinfrescante. Confortante.

Quella sera Damien non andò a dormire fino alle tre, cercando di inventarsi nuove strategie, di trovare dal nulla nuovi uomini e nuove armi. Nuovi soldi con cui rimpinguare le casse dello stato.

Niente sembrava funzionare, la sua mente non sembrava funzionare a dovere e nemmeno la bevanda calda che si era fatto portare sembrava alleviare il peso nella sua mente.

Chiuse gli occhi, stringendoli più del necessario, fino a vedere dei piccoli pallini bianchi nel mezzo di tutto quel nero.

A volte avrebbe voluto che la Veggente non fosse mai esistita, che non avesse mai detto quelle maledette parole, che li avesse lasciati in pace. Damien odiava la guerra, odiava la battaglia (suo padre l’aveva sempre guardato con disapprovazione le poche volte in cui aveva detto quelle parole ad alta voce, perché i cavalieri erano nati per combattere, ovviamente).

Il suo popolo stava morendo e se non in battaglia, per la fame che li distruggeva dall’interno. Non c’era nessuno che si salvasse: né i bambini, né le donne, né i vecchi.

Come poteva qualcuno trovare qualcosa di divertente in tutto ciò? Ogni parte del suo essere la trovava ripugnante. Nauseante.

Ogni morto, ogni ferita, ogni villaggio distrutto la bile gli saliva in gola con prepotenza e aveva solo voglia di dire basta, Dio basta.

Eppure era il Re di un popolo di combattenti, di cavalieri attaccati più alle loro spade che alle loro dame. Doveva farsi forza ed essere il Re di cui quel popolo aveva bisogno, il Re che loro avrebbero voluto che fosse.

Avrebbe dovuto trovare una regina, però. Qualcuno che avrebbe tenuto sulle sue spalle almeno una parte delle sue preoccupazioni. Aveva bisogno di qualcuno al suo fianco e pensò che, probabilmente, la notizia della riunione era un motivo abbastanza importante per fare un piccolo ballo a corte.

Quando finalmente spense la candela e si diresse a letto il sole stava quasi per sorgere. Si sarebbe dovuto svegliare in poche ore per ricevere dei nobili e per un secondo pensò di non mettersi a dormire, di continuare per inerzia come tante volte aveva già fatto nel corso della sua vita.

Eppure ora era stanco, non solo fisicamente, ma anche mentalmente e temeva cosa avrebbe potuto fare in una giornata senza nemmeno quelle mandatorie quattro ore di sonno. Si lasciò andare contro le coperte di seta con uno sbuffo e, prima ancora che se ne rendesse conto, stava dormendo.

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Ilen guardò Ferelen con un misto di rabbia ed orgoglio. Quel ragazzino avrebbe fatto grandi cose, lo sapeva, più grandi di lei e Jeremiah messi assieme.

Se Dio fosse stato ancora al loro fianco avrebbe provato a chiedergli cosa avesse in servo per quell’angelo così piccolo, ma così promettente.

Ilen si sentiva sola a volte, quando guardava verso l’oracolo e non avvertiva il calore divino invaderla. Era abituata a guardare verso di esso e sentire l’amore divino dentro di lei, che l’abbracciava. Da un mese a quella parte non sentiva che freddo (gelido e ruvido e così doloroso). Eppure aveva provato ad andare avanti, aveva provato a mostrarsi più forte di tutti gli altri. Aveva provato a continuare come se nulla fosse successo.

A volte non ci riusciva così bene.

Jeremiah le baciò un ala delicatamente, con una riverenza che si riservava solo al proprio compagno di millenni. Si erano amati così tante volte nel corso delle loro vite immortali, dando sfogo a quelle voglie mortali che il loro Signore aveva deciso di dare loro per cercare di avvicinare i suoi figli. Ilen non ne aveva mai capito la ragione, ma se quella era la decisione di Dio vi ci sarebbe adeguata con piacere.

«Sei pronta?» chiese, accarezzandole i capelli. No, non lo era. Non lo sarebbe mai stata probabilmente.

Sì, rispose invece, mentre si staccava dall’abbraccio dell’altro e si metteva al fianco di Ferelen.

Avevano ritenuto semplicemente cortese continuare con la stesa formazione della prima volta, meno intimidatorio e, comunque, probabilmente anche le altre tre fazioni avevano pensato di fare la stessa cosa.

Non aveva voglia di rivedere quel cavalieri biondo o anche quel vecchio arrogante di un mago, ma la sopravvivenza della loro razza era più importante di queste frivolezze, era più importante di qualsiasi altra cosa.

Si teletrasportarono nella stanza dove si era tenuta la prima riunione come se niente fosse, rendendosi conto di essere gli ultimi.

Ilen sospirò.

«Comprendo che siete arrivati ad una conclusione,» disse Claus, suonando assolutamente insopportabile alle sue orecchie. Sentì ogni muscolo del suo corpo tendersi dalla rabbia, ma si trattenne.

«Sì, infatti,» disse, porgendo all’altro la sua mano. «Accettiamo,» e ovviamente avrebbero dovuto parlare di contratti e decisioni e responsabilità, ma l’importante era che ora quelle persone che, fino a pochi secondi prima, erano state i suoi nemici mortali ora erano i loro alleati.

Seppur per poco tempo.

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