Inception; COW-T; fem!Arthur/Eames; A thousand shades

Apr 04, 2011 23:03

Titolo: A thousand shades
Autore: chibi_saru11 
Beta: meggie87 
Personaggi: fem!Arthur, Eames (menzione di Mal e Cobb)
Pairing: fem!Arthur/Eames
Word Count: 3803(Fidipù)
Rating: PG15
Warning: Genderswap (TRIPLO TIPO); 
Riassunto: Una volta aveva provato a chiederle il perché del nome Arthur. Eames non era un sessista e non aveva alcun problema a riconoscere che, nonostante la loro differenza di stazza, Arthur avrebbe probabilmente rischiato di vincere in un loro qualsiasi ipotetico scontro, ma la decisione dell’altra di utilizzare un nome maschile era un mistero così interessante per Eames.
Disclaimer: Inception non è mio, SMETTETELA DI GUARDARMI COSI'.
Note:
1. THIS IS A MOTHER-FUCKING GENDERSWAP INSIDE A GENDERSWAP. Sì, volevo semplicemente dirlo. E divertirmi a pensarlo.
2. Scritta per il prompt Genderswap per il COW-T @ maridichallenge


La prima volta che si erano incontrati, Eames aveva pensato che avesse dei lineamenti troppo spigolosi, che i suoi capelli neri - legati in una coda sopra la testa - non esaltassero il suo viso in maniera adeguata e che la mancanza di anche un singolo velo di trucco non permetteva al suo viso di risplendere nella giusta maniera. Aveva pensato a quant’era interessante quel viso e ne era rimasto affascinato.

Eames aveva passato tutta la sua esistenza a leggere e scoprire i volti delle altre persone, a cercare di comprenderne ogni linea e ogni espressione.

Alcuni erano facili da leggere, si aprivano sotto i suoi occhi come libri ben scritti e le loro pagine volavano sotto le sue abili dita con leggerezza. Poi c’erano quelli più oscuri, che nascondevano mille sfaccettature e che attiravano Eames come un cane viene attirato da un osso.

Il viso di Arthur (e non era il suo vero nome, ovviamente, ma nemmeno Eames era un nome reale, quindi non aveva importanza) apparteneva al secondo tipo. Eames se ne era reso conto immediatamente ed aveva avuto quasi il bisogno fisico di sporgersi in avanti e toccarle gli zigomi, saggiare la sua pelle e le sue ossa per cercare di comprendere cosa vi si celasse all’interno.

Però erano lì per un lavoro ed Eames, nonostante tutto, non era così poco professionale da cercare di minare una delle migliori opportunità  che gli erano capitate negli ultimi anni (niente lavoretti da principianti, niente datori di lavoro rompiscatole, finalmente qualcosa di interessante. Uno spionaggio industriale di quelli che non si vedono da nessuna parte se non nei film di James Bond. O nei sogni).

Arthur indossava un tailleur firmato e andava in giro con tacchi troppo alti (Eames sapeva per esperienza che non erano per nulla comodi) ed Eames si chiese come avrebbe mai potuto tenere a bada le proiezioni con quel tipo di vestiario scomodo e poco pratico (presto avrebbe scoperto che Arthur, apparentemente, era una specie di robot incapace di provare dolore e che, datele in mano una pistola, diventava probabilmente una delle persone più pericolose che Eames avesse mai conosciuto - chiunque potesse uccidere almeno una trentina di proiezioni su quei tacchi non poteva che essere letale).

Non era solo per questo però che Dom Cobb e Mal Cobb (due dei nomi più noti nel loro mestiere) avevano scelto di prendere Arthur (un po’ troppo piccola, un po’ troppo snella e un po’ troppo fragile all’apparenza) nel loro gruppo: Arthur era la migliore.

Eames fu certo di questo fatto nel minuto in cui gli fu presentata la documentazione del caso e lui non riuscì a trovare nemmeno una domanda da fare - qualsiasi informazione di cui avrebbe avuto bisogno si trovava davanti a lui, scritta nero su bianco in un inglese assolutamente perfetto. Eames era impressionato, Dom era soddisfatto e Mal era fiera.

Se un giorno Arthur avesse imparato a valorizzare il suo aspetto esteriore, Eames temeva per l’intero genere maschile, perché ovviamente nessuno avrebbe avuto più alcuna chance.

Il fatto che Eames fosse letteralmente affascinato da Arthur (dal suo nome falso prettamente maschile, dai suoi vestiti, dai suoi movimenti) non voleva dire che ad Eames piacesse Arthur, tutto il contrario.

Era la persona più competente che gli fosse mai capitato di incontrare, sicuramente, ma era anche la più insopportabile figlia di puttana che esistesse al mondo.

I primi mesi della loro collaborazione, spinto dalla sua fascinazione e dalla sua curiosità, Eames aveva provato a rendersi Arthur amica (non avrebbe mai fatto male, comunque, essere nelle grazie della versione femminile di Arnold Schwarzenegger) ma per ogni suo commento scherzoso, per ogni sua parola, Arthur non aveva che uno sguardo tagliente in risposta o una frecciatina così acida da far quasi venire voglia ad Eames di chiederle se fosse perennemente in quel periodo del mese.

Con il passare del tempo Eames aveva smesso di provarci e aveva cominciato, invece, a stuzzicare Arthur a sua volta. A cercare di calibrare ogni sua frase, ogni suo sguardo, ogni suo movimento al(per) fare irritare quella donna in tailleur che si credeva migliore di lui.

Ed ogni volta che Arthur reagiva, che  cominciava a giocare con la sua coda in un atto di evidente irritazione, Eames si sentiva soddisfatto. Far scattare Arthur, farle perdere la sua compostezza, vedere i suoi occhi illuminati dall’irritazione gli dava una sensazione che Eames non avrebbe mai creduto di poter provare. E nel momento stesso in cui si era reso conto del modo in cui, quando lavoravano assieme, Eames plasmava la sua intera esistenza su di lei (come faceva quando doveva diventare qualcun altro nel sogno) aveva realizzato che era irrimediabilmente ed incredibilmente fottuto. Mal aveva riso per ore quando gliel’aveva detto.

«Oh, tesoro,» aveva detto tra le risate «te ne sei reso conto solo ora?» come se il fatto che Eames fosse incredibilmente attratto da quella maledetta di Arthur fosse dominio pubblico (e probabilmente lo era, perché, e questo poteva anche riconoscerlo, Eames non era stato esattamente subdolo nel suo corteggiamento - perché oddio sì, di questo si trattava).

«Certo, ridi delle mie disgrazie,» sbuffò, poggiando i piedi sulla scrivania in un gesto abbastanza melodrammatico. Non gli importava realmente della reazione dell’altra, ma Eames amava essere un poco teatrale, era una delle cose che irritavano Arthur oltre misura.

«Mi dispiace,» Mal si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e per un secondo Eames si rese conto di non aver mai visto Arthur con i capelli sciolti e si chiese perché «ma eri stato così ovvio. Penso che l’unica che non si sia resa conto di nulla sia Arthur. Ma lei ha qualche problema a rendersi conto di quando un uomo è interessato a lei.»

Eames sentì un ghigno farsi largo sul suo viso, perché tutto nella vita gli era sempre venuto così dannatamente facile (aveva cominciato a rubare da adolescente, sentendo le sue mani muoversi da sole, come se fossero nate per questo e poi aveva scoperto il PASIV ed aveva cominciato a trasformarsi come un camaleonte, cambiando pelle perché la sua gli era sempre stata un po’ troppo stretta - ma era sempre stato tutto immediato, facile) e ora invece aveva davanti Arthur, i suoi tacchi troppo alti e la sua coda di cavallo e non c’era nulla di facile in tutta quella situazione. Eames si sentiva così vivo.

«Mi sono scelto una lotta dura, eh?» ma Mal poteva sentire il calore nella sua voce, l’eccitazione della caccia.

Mal aveva riso, accavallando le gambe ed era tornata a lavorare.

Una volta aveva provato a chiederle il perché del nome Arthur. Eames non era un sessista e non aveva alcun problema a riconoscere che, nonostante la loro differenza di stazza, Arthur avrebbe probabilmente rischiato di vincere in un loro qualsiasi ipotetico scontro, ma la decisione dell’altra di utilizzare un nome maschile era un mistero così interessante per Eames.

All’inizio aveva pensato che fosse  per una qualche voglia di mostrarsi più forte agli occhi degli altri, per mostrare al mondo esterno che trattarla come se fosse un’inoffensiva bambolina sarebbe stato un grosso errore. E forse una parte della spiegazione era quella perché  aveva visto il modo in cui a volte le altre persone la guardavano, come se Arthur non fosse un pericolo, quasi ridendole in faccia (come se Arthur non fosse capace di rompere ogni singolo osso dentro il loro corpo con il suo mignolo, probabilmente. Come se Eames non l’avesse vista mentre tagliava la gola di una proiezione con un’angolazione pressoché perfetta).

Eppure non sembrava essere tutto lì il motivo, ma per quanto l’osservasse, per quanto cercasse di capirla - di entrare dentro la sua mente e, finalmente, srotolare quel mistero che era Arthur - sentiva sempre che c’era qualcosa che mancava, che gli sfuggiva dalle mani.

Eames odiava quella sensazione, ma l’amava al tempo stesso. Era quella sensazione che non lasciava che il suo interesse e il suo desiderio per Arthur scemassero. Era quella sensazione che lo costringeva quasi ad osservare la linea delle sue spalle, la sua nuca, i suoi occhi e le sue mani. A non toglierle mai gli occhi di dosso per paura di perdersi anche una sola singola espressione, la chiave per risolvere finalmente quel puzzle.

Ed era per quella sensazione che spesso e volentieri Eames si trovava con la mano nei pantaloni pensando a tailleur firmati e scarpe col tacco e quella sua maledettissima coda. E al modo in cui lui sarebbe entrato dentro di lei, spingendo fino in profondità, cercando di toccare quella parte di lei che teneva nascosta e che Eames era riuscito a vedere così poche volte. A pensare a come lei si sarebbe inarcata, a come sarebbero suonati i suoi gemiti e i suoi ansiti.

A pensare alla sua bocca - soffice, calda, perfetta - stretta attorno al suo cazzo e Dio, Dio Dio, era così fottuto.

Alla conclusione del loro primo lavoro assieme, quando ancora Eames non aveva capito di volersela portare a letto e sperava ancora di poterla comprendere per osmosi, semplicemente passando abbastanza tempo con lei da assorbire ogni suo singolo gesto e renderlo proprio (come con qualsiasi altro bersaglio) l’aveva invitata a cena fuori.

La parte più sorprendente era che lei avesse accettato.

Erano andati in un ristorante appena fuori città, elegante ma non troppo, dove i vestiti di Eames non avrebbero offeso nessuno (tranne forse Arthur) e dove il vestito di lei - che, Eames doveva ammetterlo, era assolutamente straordinario - non sarebbe sembrato minimamente fuori posto.

Il vestito era ovviamente opera di Mal che, però, non era riuscita a convincere Arthur a sciogliersi i capelli, un vero peccato, quel vestito sarebbe stato incredibilmente valorizzato se i suoi capelli fossero stati liberi di scenderle sulle spalle.

Le aveva detto esattamente quello, perché Eames non era una persona che utilizzava molti filtri quando non era strettamente necessario (a lavoro) o quando non si trattava di una questione di vita o di morte (sempre lavoro). Ora non stavano lavorando, ora Eames si stava divertendo, come un predatore che accerchia la sua preda.

Arthur si era stretta la coda tra le mani, nervosamente, in un atto di così plateale imbarazzo che Eames era stato costretto a fermare, anche allora, l’ondata di affetto per quella donna evidentemente troppo qualificata per esistere e comunque così insopportabile.

«Non… non mi piacciono i capelli lunghi,»  aveva detto, secca, lasciandosi la coda di botto e prendendo il menù.

«Perché li porti lunghi, allora?» aveva chiesto, sinceramente curioso. Arthur sarebbe stata bene con dei capelli cortissimi, stava pensando intanto perché per quanto fosse ovvio che Arthur avesse dei lineamenti particolari e non esattamente belli (non nel senso canonico di bello, comunque), era anche palese quanto fossero particolari e intriganti.

Arthur aveva sbuffato «Mal,» si era limitata a rispondere, come se questo spiegasse tutto. Non lo faceva, ovviamente, ma poi aveva chiesto a Mal, il giorno dopo, e lei gli aveva spiegato di come avesse costretto Arthur a farsi crescere i capelli minacciandola con la perdita del posto. Eames aveva riso per ore pensando alla faccia annoiata della point man.

Il punto era, comunque, che dopo quella cena - che era andata molto meglio di quanti entrambi si sarebbero mai aspettati - uscire assieme dopo un lavoro era diventata una specie di tradizione per entrambi. Erano caduti in questa  abitudine facilmente e, a poco a poco, quelle cene erano diventate la sua parte preferita del lavoro.

Mal costringeva Arthur a mettersi un vestito elegante (sempre diverso: una volta verde, una volta blu, poi corto, poi lungo) e sebbene continuasse a lamentarsi, Arthur si presentava ogni volta senza ritardare nemmeno di un secondo.

Parlavano poco, più che altro si lanciavano frecciatine senza nemmeno rendersene conto e a volte Eames si accorgeva che nessuno aveva mai flirtato così tanto con lui (perché non c’era altro modo di definire i loro scambi, davvero) senza esserne consapevole. Era sconcertante.

Arthur, per tutta la sua intelligenza, sembrava essere davvero completamente all’oscuro delle avances di Eames - e, a dire il vero, stava cominciando a diventare anche un poco deprimente.

Per ogni apprezzamento di Eames, per ogni tesoro o cara o cucciola (e okay, Eames si era meritato il pugno che aveva accompagnato l’utilizzo dell’ultimo soprannome), Arthur sembrava diventare sempre più gelida. Eames non riusciva a comprendere.

Poi alla fine di quell’ultima cena, dopo un lavoro che era stato fin troppo sotto le loro possibilità da farli quasi annoiare, Arthur l’aveva sbattuto contro il muro di un vicolo qualunque e l’aveva baciato.

Eames si vantava delle sue doti amatorie come di qualsiasi altra cosa - perché non aveva mai, in tutta la sua vita, ricevuto alcun commento negativo - ma Arthur baciava in una maniera tale che persino Eames doveva ammettere di non poter competere.

Baciava con metodologia, come se avesse ricercato tutti i modi in cui farlo impazzire e poi li avesse imparati a memoria e con passione allo stesso tempo, portandolo di più verso di sé e stringendolo troppo alla nuca.

Ed era meglio di qualsiasi cosa si fosse mai immaginato ed Eames le strinse i fianchi con forza, perché non l’avrebbe lasciata andare via, non ora che aveva la sua bocca premuta contro il suo collo e le sue mani che oh.

Non ricordava nemmeno come fossero tornati nella sua camera d’albergo (e grazie al cielo quella volta aveva preso una suite, ne era valsa la pena solo per l’occhiata di apprezzamento che Arthur aveva rivolto al letto) ma riusciva a concentrarsi solo sui capelli di Arthur, sciolti sul letto e ai suoi seni - non troppo grandi, che entravano perfettamente dentro la sua mano e che erano esattamente come piacevano a lui - e al modo in cui i gemiti di Arthur erano così diversi da quelli che si era sempre immaginato perché erano molto, ma molto meglio di qualsiasi cosa lui avrebbe mai potuto pensare.

Le passò una mano sui fianchi, stretti, passando a stringerle una natica perché poteva, perché gli era concesso e l’aveva immaginato così tante volte.

E Arthur gli stava mordendo il collo - ed era sicuro che domani in quel punto ci sarebbe stato il succhiotto più grande della storia e non poteva che sentirsi orgoglioso di poterlo portare - ed Eames non riusciva a pensare a niente che non fosse il corpo sotto il suo e i suoi capelli neri e Dio.

Entrò in lei velocemente, senza preoccuparsi di farle male - perché quella sotto di lui era Arthur e non riusciva davvero a pensare a cose come la cavalleria quando aveva passato la mattinata ad uccidere proiezioni con lei a coprirgli le spalle, più pericolosa ed eccitante di quanto l’avesse mai vista - e Arthur non urlò, ma si strinse a lui con foga, come se l’aria che li separava le facesse fisicamente male e Eames dovette soffocare tante di quelle parole (“Dio quanto sei bella” o “sai quanto ti ho desiderato mentre facevi esplodere il cervello di quel tipo oggi?” o “ti amo” o “non lasciarmi mai”) perché apparentemente, e grazie al cielo, Eames aveva un filtro anche quando scopava la prima persona di cui si fosse mai innamorato.

Quando si svegliò la mattina dopo allungò una mano aspettandosi di trovare il letto vuoto, Arthur già dall’altra parte del continente. Lei, invece, era ancora lì ed Eames dovette trattenere il respiro per un secondo per non fare qualcosa di stupido come abbracciarla e non lasciarla andare mai più.

Si sporse in avanti invece, baciandole prima il collo e poi la mandibola, prendendo una ciocca dei suoi lunghi capelli tra le dita (avrebbe ringraziato Mal così tanto un giorno) e salendo sopra di lei.

E se la sera prima Eames era stato troppo sopraffatto dalle sensazioni (dalla consapevolezza che stava davvero succedendo, che non si stava immaginando tutto) ora era sveglio e attento e impegnato a memorizzare ogni singolo suono, ogni singolo movimento. Non sapeva per quanto ancora avrebbe avuto tutto quello - se per caso non sarebbe finito tutto dopo quella sera, ma voleva essere sicuro di avere qualcosa da ricordare, un modo per rivivere tutto di nuovo, anche se solo nella sua mente.

Solo che Arthur non se ne andò e quando Eames le disse che voleva andare in Australia (e poi qualche mese dopo in Germania, in Africa, in Giappone, e poi ancora i luoghi più assurdi a cui potesse pensare) lei non disse nulla ma prenotò due biglietti ed Eames non riusciva ancora a crederci a volte.

Arthur lo guardava mentre cambiava aspetto con uno sguardo strano - all’inizio non ci aveva fatto troppo caso, in molti lo guardavano cambiare con curiosità ed eccitazione le prime volte, prima che tutto diventasse normale. Lo sguardo di Arthur conteneva invidia e tristezza e orgoglio, Eames non era mai riuscito a capirlo (come tante altre cose di Arthur, a dire il vero, ormai ci stava facendo l’abitudine).

E lei non parlava mai di sé, non diceva mai cosa pensava - non delle cose realmente importanti comunque - ed Eames si era abituato a dover leggere tra le righe, dover comprendere il suo stato d’animo dal modo in cui muoveva le mani o se qualcosa la infastidisse dal suo sguardo, quindi si era rassegnato alla consapevolezza che avrebbe dovuto dedurre qualsiasi parte della vita di Arthur, quando, come al solito, lei aveva preso le sue convinzioni e aveva dimostrato come fossero completamente pazze.

Erano seduti nel terrazzino di una casa che Arthur aveva affittato a Venezia, il sole che non era troppo fastidioso e lasciava un leggero tepore sulla pelle.

Arthur stava bevendo del caffè leggendo il giornale (perché ovviamente Arthur conosceva l’italiano - e okay, anche Eames lo conosceva, ma non così bene) ed Eames stava leggendo un libro che avevano preso qualche giorno prima al confine con la Francia e si stavano rilassando, crogiolandosi in quel silenzio che non aveva davvero bisogno di parole quando Arthur, senza nemmeno alzare lo sguardo, aveva cominciato a parlare.

«Mio padre ha sempre voluto un figlio maschio,» la sua voce era calma e controllata ed Eames era ancora completamente sconvolto «non mi ha mai spinto o altro ma… ho sempre pensato di non essere abbastanza per lui. Sono orgogliosa di essere una donna,» si affrettò a specificare, accavallando le gambe dove, come al solito, spiccavano delle scarpe con un tacco decisamente esagerato «ma immagino che quando ho deciso per il nome Arthur ho pensato…»

«Che se non potevi essere un maschio almeno potessi averne il nome,» concluse lui, sentendo il bisogno di toccare Arthur perché… perché si sentiva come se fosse appena successo qualcosa di importante che non avrebbe mai capito appieno - come Arthur, come tutto quello che c’era di importante nella sua vita. Quindi si alzò e andò a baciare Arthur, giusto perché poteva.

«Saresti stato un uomo perfetto,» disse, perché era vero. Era dannatamente vero e lui si sarebbe innamorato comunque.

Arthur non era portata per il ruolo di Eames, non riusciva a lasciarsi andare abbastanza, ad entrare in sintonia con i sentimenti degli altri, lo sapevano entrambi ed andava bene. Però… però Eames non riusciva a togliersi dalla testa quell’idea, da quando l’aveva detto non era più riuscito a toglierselo dalla testa e ora doveva vedere, semplicemente.

Quindi aveva convinto Arthur ad usare il PASIV con una scusa, pensando che comunque era sopravvissuto a milioni di assassini, sarebbe sopravvissuto pure a lei se fosse andata male (e non era vero perché se Arthur si fosse messa davvero in testa di volerlo uccidere, Eames non avrebbe avuto alcuna chance, che era anche uno dei motivi per cui l’amava, davvero) e se fosse andata bene… beh.

Quindi Eames l’aveva convinta ad addormentarsi e l’aveva portata in una spiaggia che avevano visto vicino a Città del Messico, una volta. C’erano posti più belli nel mondo, certo, ma ad Eames piaceva il caldo e il colore della sabbia di quella spiaggia e il modo in cui Arthur aveva riso quando un bambino gli era caduto addosso.

E poi le aveva detto «Prova a diventare uomo,» con una voce bassa e roca, ma sicura. Arthur l’aveva guardato per qualche secondo confusa, prima di passare ad  incredibilmente arrabbiata ed Eames le aveva posato le mani sulle spalle, velocemente.

«No, ascoltarmi Arthur! Puoi… si può fare, okay? Anche chi non è particolarmente portato ha… ha una parte di sé più femminile o più mascolina che può richiamare con più facilità,» anche lui, la prima volta che aveva cambiato forma, aveva scelto di diventare la parte più femminile di lui, quella che ogni uomo aveva, ma che usciva in diversi momenti e con diversa intensità.

Arthur l’aveva guardato come se avesse voluto ucciderlo - ma Eames poteva vedere l’incertezza e la curiosità dentro i suoi occhi ed Eames non voleva fare altro che regalarle quello che aveva sempre voluto. E vedere l’uomo di cui si sarebbe innamorato.

E poi lei aveva chiuso gli occhi e si era lasciata andare e lui aveva cominciato a mormorare istruzioni sotto voce, come se Arthur fosse un animale spaventato e dovesse stare attento a non esagerare, a non farla andare via.

Più Arthur ci provava, però, più sembrava allontanarsi da quella parte di lei che doveva raggiungere e cominciava ad agitarsi e perdere concentrazione. Eames le disse “concentrati” e lei rispose “non ci riesco!” e poi entrambi chiusero gli occhi, stanchi e irritati e pronti a lasciar perdere.

E quando Eames aprì gli occhi davanti a lui c’era un uomo, più robusto di Arthur, con i capelli corti e un completo così elegante che Eames quasi rise.

Eppure aveva così tanto di Arthur - i suoi occhi, i suoi lineamenti (più mascolini, certo, ma sicuramente di Arthur) - e lui non poté fare a meno di allungare il braccio e sfiorare quel viso che conosceva e gli era completamente nuovo allo stesso tempo.

«Come ho già detto, sei un uomo perfetto, tesoro,» scherzò - anche se era assolutamente vero perché Arthur era splendido così, come lo era anche con i capelli lunghi liberi sul cuscino.

Lui si era toccato il viso e poi i capelli e i suoi movimenti erano uguali a quelli che Arthur avrebbe fatto ed Eames aveva voglia di ridere.

«Meglio o peggio di quando sono donna? » anche la sua voce era diversa - più bassa, più roca - ma le parole e il tono erano quelli che aveva imparato a conoscere così bene. E c’erano milioni di modi in cui Eames avrebbe potuto rispondere a quella domanda, ma suonavano tutti un po’ troppo come variazioni di ti amo e sebbene ormai lo pensasse così spesso non era ancora pronto a dirlo. Forse non lo sarebbe stato mai.

E quindi rimase in silenzio perché non poteva dire “Sei perfetta in ogni caso” o “Non importa, vai bene in entrambi i modi” e si limitò a baciarla, baciarlo, e la sua pelle era più dura, con un sentore di barba e ad Eames non importava sul serio.

Perché era Arthur e qualsiasi fosse il suo aspetto, qualsiasi fosse il suo nome, Eames si sarebbe innamorato di lei in ogni caso - uomo, donna, transessuale - e quella era una certezza che Arthur non avrebbe mai potuto minare.

character: eames, !fanfiction, fandom: inception, *cow-t, paring: arthur/eames, character: arthur (inception)

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