Gaius l’aveva saputo subito, ma Gaius sapeva leggerlo come un libro aperto e Merlin aveva cercato di ignorare gli sguardi che l’altro gli lanciava. Conosceva quegli sguardi e non gli piacevano, non gli erano mai piaciuti.
Sapeva di stare facendo la follia più assurda da quando, a sette anni, aveva deciso di essere un mago e aveva quasi incendiato la casa (un episodio di cui nessuno avrebbe mai più parlato, ecco) e non aveva davvero bisogno che l’uomo glielo ricordasse. Stava facendo una pazzia, ma non avrebbe smesso.
«Lo so,» fu l’unica risposta di Gaius quando glielo disse. La sua voce suonava stanca e preoccupata e incredibilmente triste.
Arthur mangiava la carne al sangue, Merlin la preferiva cotta e ogni volta giocavano a carta, forbici e sasso per decidere come l’avrebbero (e questo era evidentemente un pluralis maiestatis per Merlin, perché Gwen non esagerava quando diceva di non volere Arthur a dieci passi dalla cucina) e quando Arthur perdeva metteva il broncio per tutta la serata.
Merlin rideva, quando succedeva, incapace di contenere l’adorabilità di Arthur Pendragon che metteva il broncio come un bambino di tre anni, e di solito la loro serata finiva con Arthur che entrava dentro di lui, forte e deciso e gli chiedeva “Ora ti sembro ancora adorabile?” al quale, davvero, non c’era risposta.
Alle volte invece era Arthur a vincere e questo lo metteva di buon umore, incredibilmente di buon umore, persino troppo di buon umore.
«Sei un fottuto idiota,» a volte sbottava Merlin, all’ennesimo balletto vittorioso (e davvero, come riusciva a inventarsi sempre dei nuovi balletti idioti? Come ci riusciva?) e Arthur rideva e se lo stringeva addosso.
«Ma tu mi ami lo stesso,» era la sua solita risposta (quando era di fottutissimo ottimo umore) e Merlin aveva sempre la risposta pronta in gola, qualcosa come “nei tuoi sogni” o “ti odio” o “come un cancro, guarda” ma non riusciva mai a dire nulla.
Erano i momenti domestici come quelli, quando Arthur si addormentava sul divano e russava come un camionista o quando Merlin si perdeva nei suoi pensieri e Arthur gli cominciava a passare pigramente le dita tra i capelli, che rendevano gli altri giorni sopportabili.
I giorni in cui Gwen non partiva, non aveva impegni e Merlin si ritrovava a casa da solo, immaginando tutto quello che Arthur e sua moglie (sua moglie, Dio) stavano facendo in quel secondo. Erano i giorni che gli facevano voglia di mettere canzoni emo alla radio e affogare nella sua depressione.
Invece si metteva sul divano e guardava un qualsiasi film horror e immaginava che ogni persona che veniva uccisa fosse Arthur e improvvisamente si sentiva incredibilmente meglio. E poi passava a vedere Love Actually (e okay, sì, aveva un po’ un’ossessione) o Sliding Doors o Autumn in New York e lasciava che la parte di lui che era evidentemente una donna in preda agli ormoni si sentisse appagata.
A volte chiamava Will, per vendetta, per rivalsa, per qualcosa che gli lacerava il petto, ma non erano mai realmente arrivati a farlo, si fermavano sempre prima e Will lo guardava e roteava gli occhi, compatendolo.
«Questo Arthur,» diceva ogni singola volta «non è buono per te,» come se conoscesse tutto, come se sapesse. Non sapeva nulla, ovviamente e Merlin avrebbe voluto ricordarglielo, avrebbe voluto dirgli che doveva starsi zitto, che non sapeva cosa volesse dire.
Come al solito, però, Will era un po’ un coglione, ma aveva incredibilmente ragione.
Quella di cui aveva più paura, lì in mezzo, era Morgana. Morgana che sembrava sempre guardarlo un po’ troppo a lungo, che adorava Gwen con tutta sé stessa e che amava Arthur, certo, ma sembrava sempre aspettare con ansia un modo per rovinargli la vita.
Morgana che era intelligente e furba e avrebbe capito tutto se Arthur non avesse smesso di bisbigliargli all’orecchio come una fottuta porno star ad una festa del cavolo. Una festa a cui Merlin non sarebbe nemmeno voluto venire.
Si ritrasse velocemente quando vide lo sguardo di Morgana, freddo e calcolatore, su di loro. Avrebbe capito tutto, come avrebbe potuto non farlo? E corse via, da qualsiasi parte non fosse lì, con Arthur.
Perché magari sì, magari Arthur una volta gli aveva leccato la fottuta guancia e nessuno ci aveva fatto nemmeno caso, ma c’erano limiti e linee e Arthur a volte le superava tutte con una tranquillità disarmante.
«Che cazzo ti è pre-» stava per cominciare Arthur, che l’aveva seguito e Merlin non riuscì a controllarsi.
«È tua sorella, maledizione!» gli urlò contro, senza sapere esattamente cosa volesse dirgli, capendo solo che aveva bisogno di buttarlo fuori, di urlare contro Arthur con tutte le sue forze perché Dio, Dio, se Arthur non fosse mai arrivato nella sua vita sarebbe stato tutto incredibilmente più facile. «È tua sorella e scoprirà tutto e devi smetterla, Dio, smettila smettila smettila!» continuò.
Arthur era rimasto bloccato, davanti alla porta finestra del balcone su cui Merlin si era rifugiato. Non sembrava particolarmente impressionato e Merlin sapeva che aveva già detto queste cose mille e più volte, che avevano affrontato questo argomento per così tanto tempo… ma ogni volta risaliva a galla, come una malattia, come veleno e gli otturava i polmoni e le arterie.
E nel suo sangue c’era solo acido che corrodeva tutto.
«Non capirà niente, Merlin,» provò Arthur, avvicinandosi. Non sarebbe servito, lo sapevano entrambi, ma Arthur provava sempre. Provava sempre a calmarlo, a farlo tornare a respirare normalmente.
Merlin non lo ascoltava, perché non poteva, semplicemente non poteva.
«Stiamo attendi, noi stiamo-» stava continuando Arthur, camminando lentamente come se Merlin fosse un animale feroce.
«Non lo siamo,» gli urlò invece contro Merlin, indietreggiando verso il balcone, appoggiandosi con la schiena alla protezione di ferro «non lo siamo e dovremmo esserlo! Dovremmo esserlo perché Dio, quello che facciamo è sbagliato, quello che…»
Merlin aveva voglia di piangere, ma non lo fece. Non lo fece perché non sarebbe stato giusto piangere davanti ad Arthur, non sarebbe stato giusto perché quando l’altro piangeva non lo faceva mai davanti a lui.
E Merlin lo sapeva perché l’aveva visto, accucciato da qualche parte (in bagno, spesso) qualche lacrima che scendeva dai suoi occhi e il viso devastato dalla sconfitta.
Quindi non pianse, ma continuò a urlare, continuò a urlare e a lasciare che la rabbia e l’odio e la stanchezza avessero il sopravvento.
Quando Arthur provò a toccarlo si ritrasse e scappò via, prese le chiavi della macchina e tornò a casa.
Arthur non si fece né vedere né sentire per una settimana e quattro giorni fino a quando Merlin, tornando a casa, non l’aveva trovato accovacciato davanti alla sua porta, una busta di take-away tra le gambe.
Non sapeva come facesse l’altro a sapere esattamente quando era pronto a rivederlo, ma non appena Merlin pensava che okay, okay, ora poteva ricominciare, Arthur si materializzava davanti al suo appartamento.
Ormai era diventato un po’ una routine che Arthur lo aspettasse davanti casa, come il giorno di mesi prima quando tutta questa follia era cominciata.
Le prime volte Merlin era stato troppo impegnato a rendersi conto che sì, sì, Arthur stava tornando da lui, che potevano farcela, per rendersene conto.
Ma più andavano avanti e più Merlin era indeciso se trovare incredibilmente adorabile questa abitudine di Arthur o trovarla incredibilmente divertente. In qualche modo ora era fermo ad una specie di compromesso che non sapeva come definire.
«Hai qualcosa per la mia porta, vero?» gli chiese dunque, quella volta, guardando Arthur alzarle lo sguardo su di lui e ridere «cioè fino ad ora credevo venissi per me, o per il cibo gratis che ti offro, ma era la porta, giusto?»
Arthur era teso, certo, ma Merlin poteva vederlo cominciare a rilassarsi «Esattamente, Merlin. Hai una porta incredibilmente piacente, devo dire,» lo informò, e in quei minuti Merlin si chiedeva come fosse possibile che quello che avevano, quello che provavano, portasse loro così tanto dolore. Erano due stupidi trentenni con il cervello di due diciassettenni e davvero, forse se si fossero incontrati prima avrebbero avuto una storia d’amore senza problemi.
O magari no, perché dopotutto erano sempre loro.
«Sono stato informato che anche il mio divano è molto piacente, come dici tu,» disse, allungando la mano ed aiutando l’altro ad alzarsi in piedi.
«Vorrà dire che dovrò controllare,» annuì a sua volta Arthur, ed entrarono in casa, senza parlare della notte di una settimana e mezza prima, sapendo benissimo che presto ce ne sarebbe stata un’altra e che sì, avrebbero superato anche quella.
La cosa peggiore di tutta quella situazione era Gwen.
Gwen che lo chiamava per chiedergli se, secondo lui, l’accoppiata bianco e lavanda stesse bene; che lo veniva a trovare in farmacia per raccontargli la sua giornata, giocando con uno dei suoi riccioli; che continuava a cercare di presentargli tutte, ma proprio tutte, le sue amiche come se fosse il suo mestiere. E tutti i suoi amici, sì.
E Merlin la guardava negli occhi mentre lei gli chiedeva se avesse qualcuno che gli interessava, se in realtà non avesse una qualche relazione segreta e le mentiva. Le mentiva come non aveva mai mentito a nessun altro.
Le mentiva e Gwen rideva e gli passava una mano sul braccio e Merlin si odiava sempre un poco di più ogni volta che la vedeva.
Arthur non avrebbe potuto sposare quella maledetta ragazza che stava davanti a lui in Biologia? Quella che non gli passava mai i compiti e che Merlin avrebbe voluto strozzare? No, doveva essere sposato alla sua migliore amica.
A volte Gwen si appoggiava al bancone della farmacia e non diceva nulla, lo guardava lavorare con un sorriso dolce sul viso e Merlin sentiva il bisogno di dirle tutto. Sentiva il bisogno di raccontarle ogni singolo dettaglio, di dividere con lei quello che provava e poi prostrarsi ai suoi piedi e chiederle scusa. Poi il momento passava e Merlin si sentiva un poco più vuoto.
Quello era uno dei giorni brutti, Merlin lo sapeva. Merlin lo sapeva perché Arthur non gli aveva ancora mandato nessun messaggio stupido, nonostante Gwen fosse partita quella mattina e Arthur normalmente lo chiamava non appena Gwen usciva di casa.
Resistette fino alle tre di pomeriggio prima di chiamarlo a casa - perché magari Arthur aveva davvero fatto esplodere il microonde e ora era morto e magari Merlin era un poco preoccupato - e quando l’altro rispose Merlin seppe immediatamente che avrebbero litigato.
Lo sentiva nel tono della sua voce (che sembrava tanto quella di uno che aveva appena finito di piangere o urlare così tanto da arrossarsi la gola) e dal modo in cui aveva parlato, veloce, freddo. Merlin odiava quella voce più di qualsiasi altra cosa.
«Arthur…» provò, ma non sapeva esattamente cosa dirgli. Probabilmente sarebbe stato meglio non farlo al telefono (perché Merlin sapeva per esperienza che si sarebbero urlati molto addosso e che, possibilmente, Arthur avrebbe lanciato qualcosa e Merlin avrebbe dato un calcio a qualcos’altro e tutto questo veniva incredibilmente meglio quando erano uno davanti all’altro) ma Merlin non aveva voglia di vederlo, non aveva voglia di litigare ed urlare. Non ne aveva le forze.
Però, invece di urlare, Arthur sospirò «Merlin,» bisbigliò e ora Merlin era sicuro che l’altro stesse piangendo. Arthur stava piangendo davanti a lui (beh, non proprio davanti, ma Merlin non si attaccava a queste sottigliezze) e gli si strinse il cuore a pensarlo da solo, a casa.
Qualunque remora avesse sparì dalla sua mente, la stanchezza che sembrava essere svanita dalle sue ossa e prima di rendersene conto Merlin aveva mormorato un “Sto arrivando!” al telefono, aveva detto a Gaius che se ne sarebbe andato prima e poi aveva cominciato a correre.
Casa di Arthur era a sei fermate di metropolitana dalla farmacia e Merlin passò l’intera corsa a pensare a cosa avrebbe mai potuto dirgli, cosa avrebbe mai potuto fare.
Non lo sapeva, non sapeva mai cosa fosse giusto fare in tutto quel casino.
Scese dalla metropolitana spintonando un poco la gente che aveva intorno. Non stava esattamente correndo, ma camminando a passo molto veloce (okay, magari stava correndo, ma nella versione ufficiale Merlin avrebbe descritto una camminata leggermente agitata).
Quando bussò alla porta di Arthur questo non rispose per qualche minuto, lasciando Merlin a guardare la porta con preoccupazione.
Suonò di nuovo, cercando di imprimere nel suono del campanello tutta la sua preoccupazione (come se, pressandolo in una certa maniera, il suo cambiasse per rispecchiare il suo umore. Era totalmente possibile… più o meno) e stava per suonare una terza volta o andare dal portiere e chiedergli le chiavi (perché sì, Merlin era decisamente molto preoccupato) quando Arthur aprì.
Per un attimo Merlin si lasciò conquistare dal senso di tranquillità che l’aveva inondato al pensiero che sì, Arthur stava bene, poi si gettò in avanti e prese l’altro uomo per le braccia, senza lasciarlo andare quando questo cominciò a divincolarsi.
Merlin c’era abituato, Arthur diventava intrattabile durante le sue crisi e normalmente gli dava il suo spazio, ma questa era diversa. Poteva sentire la tensione e la rabbia e la tristezza che Arthur emanava con una chiarezza preoccupante.
Quindi lo strinse a sé più forte, senza muoversi, mentre Arthur cominciava a calmarsi.
Voleva chiederli cosa era successo, voleva, ma non sapeva se fosse la mossa giusta, si sentiva come circondato da pezzi di vetro taglienti, incapace di muoversi.
Poi Arthur cominciò a parlare: «Quando Gwen è uscita dalla porta, questa mattina,» mormorò, poggiando la testa sulla spalla di Merlin. «Ho pensato… ho pensato “finalmente”, capisci? Come posso…» Merlin non sapeva se stava per mettersi a piangere di nuovo, ma cominciò ad accarezzargli i capelli, lentamente.
«Come posso aver pensato una cosa simile…» riprese Arthur, aggrappandosi alla maglietta di Merlin un po’ troppo forte «lei è mia moglie e Dio, io la amo, Merlin, la amo ma… ma…» e Merlin lo sapeva, lo sapeva che Arthur la amava, non era stupido.
Ancora ora c’erano volte in cui Arthur si voltava verso Gwen e la completa adorazione che vedeva nel suo sguardo lo facevano contorcere dalla gelosia. Avrebbe voluto rassicurarlo perché lo sapeva, lo sapeva benissimo, lo sapevano tutti, ma Arthur non gliene lasciò il tempo.
«Io la amo,» ripetè Arthur, prima di staccarsi dall’abbraccio e guardarlo dritto negli occhi. Aveva il viso stanco, sconvolto e Merlin si rese conto che Arthur stava per far finire tutto. Ovviamente, ovviamente.
Non aveva mai pensato sarebbe durata per sempre, quindi era pronto, si era preparato (anche se non era vero, anche se il solo pensiero che fosse finita lo spezzava in così tanti punti che non era certo sarebbe mai riuscito a mettersi a posto completamente) quindi chiuse gli occhi e si preparò al colpo.
«Ma amo anche te,» disse invece il biondo, con una tale sincerità nello sguardo che per un secondo Merlin si perse a guardarli e non registrò cosa gli avesse detto l’altro.
«T-tu… che?» balbettò, guardando Arthur ma non vedendolo.
L’altro non ripetè quello che aveva appena detto, ma Merlin non aveva davvero creduto l’avrebbe fatto. Fu proprio il fatto che non lo ridisse a convincerlo che l’altro non stava scherzando, che davvero… davvero…
Oddio Arthur gli aveva appena detto che l’amava.
Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, cercando di trovare qualcosa da dire ma riuscendo a pensare solo a cose che somigliavano molto a “Oh, Io… tu… noi… gh” e non particolarmente appropriate, dunque, per la situazione.
«Oh certo, Merlin,» borbottò Arthur, a quel punto, allontanandosi del tutto e incamminandosi verso la cucina. Merlin lo seguì automaticamente «ovviamente decidi di ridiventare un povero, inarticolato cretino in situazioni del genere. Ovviamente.»
Merlin non lo riteneva corretto: era tutta colpa di Arthur se ora non era in grado di formare una frase di senso compiuto, quel bastardo avrebbe dovuto imparare a prendersi le sue respirabilità uno di quei giorni. Magari non oggi, però, perché oggi non credeva davvero di poter cominciare un litigio con Arthur.
Il padrone di casa si versò un bicchiere d’acqua (senza offrirne, ovviamente, a Merlin, ma c’era abituato) e lo bevette velocemente, come se avesse la gola che andava a fuoco.
«Dì qualcosa, Merlin!» urlò infine, voltandosi verso di lui.
Aveva i capelli in tutte le direzioni, le occhiaie e gli occhi rossi, il suo alito puzzava leggermente e Merlin non era esattamente certo sullo stato di pulizia della maglietta che indossava. E Dio, Merlin non l’aveva mai amato così tanto in vita sua.
«Anche io,» disse dunque, senza riflettere e dopo avere detto quelle due semplici parole il resto venne da sé «anche io, Dio anche io! Ti amo quando fai l’idiota, quando te ne esci con una delle tue idee assurde, quando cerchi di convincermi a cantare lo stupido inno dei tuoi hotel e quando mi porti a vedere film adatti a dodicenni e… e…» poi non poté dire più nulla perché Arthur lo stava baciando.
«Era così difficile? » gli chiese l’altro, sulle labbra e Merlin rise.
Non stavano bene e Merlin poteva ancora vedere un leggero tremito nel corpo di Arthur e sapeva che non avrebbero retto a lungo, che non importava quanto lo amasse, Arthur non avrebbe mai potuto farcela ancora a lungo.
Ma in quel minuto lo strinse tra le braccia, fregandosene di tutto il resto, mentre il mondo continuava a scorrere.
Il giorno dopo era ancora un po’ scosso ed ancora un po’ dolorante (Gaius poteva anche smetterla di guardarlo a quel modo) quando Gwen entrò in negozio. Gwen che avrebbe dovuto essere in Tanzania o in Bulgaria o ovunque si mangiasse caviale.
«Gwen? Che ci fai qui? Il viaggio è stato cancellato?» chiese, guardando l’amica entrare nel negozio a passi svelti, un’espressione contrita in viso «Va tutto bene?»
Gwen scosse la testa a quel punto e Merlin cominciò a sentire la preoccupazione prendere il posto del senso di colpa che provava sempre quando guardava Gwen.
«Cosa succede? Va tutto bene?» e poi un pensiero gli attraversò la mente, veloce come un fulmine «Arthur sta bene?» chiese, prima di potersi fermare. E se gli era successo qualcosa? Avrebbero chiamato Gwen, certamente e Gwen sarebbe venuta ad avvertirlo perché lei era una persona incredibilmente carina e…
«No, no,» si affrettò a mormorare Gwen «Arthur sta bene… non… è un problema mio… io,» e poi si era zittita di nuovo, lasciandolo a crogiolarsi nella sua preoccupazione.
«Possiamo parlarne in privato?» gli chiese, guardandolo con i suoi occhi marroni e, davvero, come poteva rifiutarle qualcosa? Urlò a Gaius che si prendeva una pausa (e davvero, era fortunato che Gaius gli volesse troppo bene per licenziarlo, perché magari un po’ se lo meritava) e la portò al caffè all’angolo.
Gwen ordinò un po’ di tè mentre Merlin si prese del caffè.
«Ti sei messa nei guai?» chiese improvvisamente, incapace di tollerare il silenzio che si era creato intorno a loro. «O magari c’è qualcosa che non va con il servizio di catering? O…»
«No! No, Merlin!» e la voce di Gwen suonava un poco disperata. Oddio, oddio, stava piangendo? Merlin non poteva quasi crederci, due Pendragon piangenti in due giorni erano troppi per chiunque.
«Possiamo sistemare tutto!» disse, terrorizzato. Non gli era mai venuto in mente, ma magari… magari Gwen aveva scoperto tutto e oddio, oddio era lì per dirgli che sapeva?
«Io lo amo, Merlin,» mormorò Gwen, tra i singhiozzi e Merlin stava quasi per dire “Anche io, maledizione, mi dispiace così tanto,” ma si trattenne «lo amo, ma non… non riesco…»
«Di cosa stai parlando, Gwen?» le chiese, più deciso. Non avrebbe detto nulla fino a che lei non gli avesse sbattuto in faccia la verità.
Poi Gwen finalmente portò gli occhi sul suo viso e Merlin ebbe l’istinto di abbracciarla perché Dio, era così adorabile.
«Non è vero che… i viaggi, sono tutti falsi,» Merlin non era sicuro di avere appena sentito bene perché… come poteva essere? «Esistono, ma ci mando miei collaboratori, non vado mai io… io… vado da Lancelot,» c’era qualcosa di strano nel modo in cui Gwen si stava torturando le mani e Merlin avrebbe dovuto capirlo immediatamente (dopotutto aveva un’incredibile esperienza del problema, aveva ancora il culo dolorante come prova) ma rimase in silenzio, cercando di convogliare con lo sguardo la sua confuzione.
«Mi vedo con Lancelot, Merlin, io…» e poi Gwen, le lacrime che le rigavano il viso, disse l’ultima cosa che Merlin si sarebbe mai aspettato di sentire: «Tradisco Arthur con Lancelot.»
C’erano momenti della sua vita che gli piaceva ricordare come quelli da mozzare il fiato, tra questi c’erano la prima volta che aveva visto dei fuochi d’artificio, quella volta in cui aveva baciato Jenny a undici anni e sebbene avesse fatto un po’ schifo era stato anche incredibilmente bellissimo e la prima volta in cui aveva visto Arthur dormire dopo che avevano fatto sesso.
Poi c’erano i momenti che gli facevano venire voglia di piangere, come quando era morto Skippy, il cane che aveva a dodici anni o la volta in cui aveva visto sua madre in ginocchio piangere per la morte di un uomo che non vedeva da diciassette anni.
Poi c’erano i momenti in cui il mondo diventava particolarmente assurdo, in cui il sotto diventava sopra e in cui, apparentemente, la moglie dell’uomo con cui aveva una relazione aveva una storia clandestina a sua volta.
Merlin avrebbe dovuto essere arrabbiato probabilmente, perché un bravo amico lo sarebbe stato. Il problema era che Merlin non era solo un amico e che c’erano così tante cose sbagliate in tutta quella situazione che non era certo di sapere con chi dovesse arrabbiarti esattamente.
Con Gwen? Sarebbe stato un ipocrita. Con sé stesso? No, si rifiutava. Con Arthur? Non avrebbe potuto nemmeno volendolo. Con Lancelot? Ora come ora sentiva solo una profonda connessione.
Grazie al cielo Gwen non prese il suo silenzio come un “Sto pensando a come questa situazione sia fottutamente strana perché tuo marito ti tradisce con me” ma come “Sto pensando a come questa situazione sia fottutamente disgustosa perché tu sei un po’ una puttana”. Merlin avrebbe voluto correggerla, ma non aveva altre scuse.
«Lo so cosa stai pensando, Merlin,» mormorò lei, abbassando lo sguardo (non lo sapeva, ma era meglio così) «ma davvero io… io li amo entrambi, è possibile? È possibile?»
C’erano così tante persone che dicevano che non era possibile amare più di una persona alla volta, che si trovava la persona giusta e allora era amore per sempre e Merlin ci aveva creduto, per un po’ di tempo. Poi aveva incontrato Arthur e tutte le sue convinzioni erano andate a quel paese.
Arthur amava Gwen e amava Merlin e non c’era modo di negare nessuna delle due cose e ora… ora Gwen amava Arthur e amava Lancelot e paradossalmente questo dimostrava quanto i Pendragon fossero perfetti l’uno per l’altro.
«Arthur è l’amore della mia vita, è mio marito, ma Lancelot è…» e poi si fermò, aggrottando le sopracciglia.
«Lancelot è l’amore della tua vita,» supplì per lei Merlin, guardandola mentre sorrideva leggermente, un sorriso stanco e disperato che non raggiungeva i suoi occhi.
C’era una parte di Merlin che era indignata, ma non sapeva bene da chi. Era indignata per Arthur, che aveva quasi pianto sulla sua spalla fino al giorno prima, ma era assurdo e lo sapeva perfettamente perché ora Gwen gli piangeva davanti.
C’era un’altra parte di lui che voleva urlare, trovare chiunque fosse responsabile per tutto quello e dargli un pugno.
Invece si prese la testa tra le mani e sospirò.
«Cosa devo fare?» gli chiese Gwen, ma Merlin non sapeva nemmeno cosa avrebbe dovuto fare lui.
Quando l’aveva raccontato a Will questo aveva riso così forte da farsi venire il mal di pancia.
«Dio santo,» aveva detto, tra le risate «siete una fottuta manica di matti! Ma quando siete nati vi hanno per caso iniettato il gene della pazzia?» e Merlin si era alzato e se ne era andato.
Perché Will era un coglione (e come al solito aveva anche un po’ ragione).
In due giorni lui ed Arthur si erano detti che si amavano (che era un grande, grandissimo passo avanti e uno di quei giorni che, se Merlin fosse stato una ragazzina di sedici anni, avrebbe segnato sul calendario con un piccolo cuore) e poi Gwen gli era venuta a dire che aveva una storia con Lancelot.
Merlin avrebbe potuto reagire in molti modi a tutto quello.
Decise di andare a nascondersi a casa di sua madre. Molto maturo, gli aveva scritto Will in un messaggio (Merlin l’aveva cancellato immediatamente, perché non aveva bisogno di sarcasmo in quel minuto).
Sua madre l’aveva accolto come un Re, con un pranzo che non aveva nulla a che fare con il cinese che lui e Arthur mangiavano a letto o davanti alla TV (perché nonostante Arthur avesse una quantità di soldi imbarazzante non la usava mai per qualcosa come, per dire, portarlo in un ristorante in cui un’insalata costava più del suo appartamento) e un letto fatto e pulito, privo dell’odore di Arthur Pendragon.
Abitavano in campagna, un poco fuori da un paesino che nessuno al mondo aveva mai sentito nominare e Merlin, seduto sul portico poteva sentire il cinguettio degli uccelli e il rumore delle foglie e il silenzio che il non avere Arthur attorno portava.
Merlin odiava tutto quanto con passione.
Te l’avevo detto io, era stato l’sms incoraggiante con cui gli aveva risposto Will e Merlin aveva sentito l’incredibile voglia di strozzarlo.
L’unica cosa che non odiava erano gli sms di Arthur. Aveva cominciato a mandargliene dal giorno dopo l’arrivo di Merlin in scozia e se all’inizio parevano avere una qualche parvenza di normalità (“Mi sto annoiando,” “Quando torni dobbiamo finire la partita a Mass Effect!”) a lungo andare erano scesi in livelli di demenza a cui nemmeno Merlin riusciva a credere (“In una lotta tra un canguro rosa shocking e un pesce zebrato chi vincerebbe, secondo te?” e davvero, cosa avrebbe mai potuto rispondere ad una cosa del genere?).
Merlin si alzava controllando il telefono e andava a dormire guardando il telefono e sapere che nonostante la lontananza Arthur continuava a rendere la sua vita impossibile lo faceva sentire stranamente felice.
Poi i messaggi si erano interrotti, improvvisamente e Merlin era riuscito a fingere di non essere preoccupato esattamente per tre giorni (okay, due giorni e mezzo, ma non era quello il punto).
Dopo tre giorni aveva chiamato Arthur, ma nessuno aveva risposto. Quindi aveva chiamato a casa, ma nemmeno lì aveva avuto fortuna.
Poi aveva chiamato Gwen.
«Mi dispiace così tanto,» aveva detto lei, senza nemmeno salutarlo e Merlin non capiva. «Ha scoperto tutto e non riesco a rintracciarlo, non so dove sia e… oddio, Merlin, sono così preoccupata!»
«Come ha fatto a scoprirlo?» chiese, muovendosi per andare in camera e fare le valigie.
«Aveva una riunione di lavoro, doveva stare fuori tutto il giorno!» e Merlin avrebbe voluto essere arrabbiato con loro, perché avevano fatto una cosa stupida e ora Arthur era sparito, ma lui e Arthur avevano fatto la stessa cosa tante di quelle volte. «Merlin, dov’è andato?» chiese Gwen, la voce piccola e fragile (ma Merlin la odiava un poco in quel minuto e non poteva farci niente).
«Lo troverò,» disse semplicemente. Perché era vero.
Arrivò a Londra distrutto e Arthur aveva tre giorni di vantaggio e, per quanto ne sapesse, poteva anche essere scappato in Italia (perché il bastardo aveva soldi che gli uscivano anche dai calzini e no, non era un modo di dire dato che il cretino teneva dei soldi dentro il cassetto dei calzini), ma se fosse stato a Londra l’avrebbe trovato, assolutamente.
Cercò al parco dove portavano Drago a passeggiare, al pub infondo alla strada, al ristorante cinese, al negozio di videogame e a tutti gli hotel del circuito di Albion. Poi chiamò Morgana e le chiese se Arthur si stesse nascondendo da lei e che se avesse anche solo pensato che stava mentendo sarebbe piombato a casa sua, ma Morgana era preoccupata e non l’aveva mai sentita così.
«Tre giorni, Merlin! Dove può essere andato?» e lui non sapeva cosa dirle, perché non ne aveva idea.
Aveva cercato alla farmacia, da Gaius (anche se si erano scambiati tipo solo quattro parole), da Gwaine e poi aveva chiamato Will sperando che lui potesse dimostrarsi un coglione, ma avere comunque ragione, ma l’unica cosa che l’altro gli disse fu di tornare a casa, posare la valigia e calmarsi (Merlin gli aveva chiuso il telefono in faccia).
Aveva cercato alla sala giochi, in palestra, in piscina e poi era andato al museo delle cere perché Arthur aveva una strana ossessione per quel posto, ma lui non era da nessuna parte.
Aveva continuato a cercare fino a mezzanotte quando, distrutto, aveva capito che avrebbe dovuto rassegnarsi a fare il giro del mondo.
Tornò a casa che quasi non si reggeva in piedi, ma teso per la preoccupazione e per l’ansia e per il senso di colpa (perché Merlin avrebbe dovuto esserci per Arthur, avrebbe dovuto…) e aprì la porta del suo appartamento pigramente. E poi si ritrovò a guardare Arthur negli occhi.
«Il mio fottuto appartamento?» urlò, incapace di trattenersi. «Ti sei nascosto nel mio fottuto appartamento?» e perché non ci aveva pensato? Mh? Era logico!
Arthur lo guardò, preso in contropiede ed evidentemente sorpreso di vederlo e Merlin si rese conto di avere Arthur davanti e che stava bene e Dio, Dio! Si lanciò in avanti, prendendolo tra le braccia e stringendolo così forte da fargli mancare il respiro.
Non gli interessava, non gli interessava per nulla.
«Oh,» mormorò Arthur, una nota di qualcosa di velenoso nella voce «quindi hai saputo…»
Merlin non lo lasciò andare (non l’avrebbe lasciato andare per giorni, maledizione) e si limitò ad annuire. Arthur non stava ricambiando l’abbraccio ed era rigido come un tronco e probabilmente tra poco avrebbe cominciato ad urlare e scalpitare, ma Merlin era pronto.
E per l’ennesima volta il biondo reagì in maniera completamente inaspettata. Lì dove Merlin si era aspettato rabbia e furia cieca e incontrollata c’erano… tristezza e rimorso.
«Non sarei dovuto andare via a quel modo,» cominciò Arthur, «sono uscito di scena come una fottuta diva! E con che diritto? Guardaci Merlin! Che diritto avevo di fare quella scenata?» si morse il labbro dopo averlo detto e Merlin avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non sapeva cosa.
«La faccia di Gwen, Merlin,» aveva ripreso, quasi in trance «era… non riesco a descrivertela era…» e poi si zittì, improvvisamente.
Merlin aspettò per secondi che sembravano ore e poi finalmente l’altro parlò di nuovo.
«Che cosa ci siamo fatti, Merlin…» bisbigliò, piano. E non era una domanda, ma lo sembrava.
Merlin non sapeva cosa rispondere.
«Domani lo dirò a Gwen,» gli disse improvvisamente. Non avevano fatto altro che stare abbracciati tutta la serata ed era esattamente quello di cui entrambi avevano bisogno.
Morgana aveva chiamato, ad un certo punto, e aveva urlato al telefono con Arthur per venti minuti buoni, ma quella era stata l’unica interruzione che avevano avuto.
Non avevano nemmeno dormito troppo, erano rimasti svegli ed in silenzio, appisolandosi a volte per qualche minuto.
Almeno fino a quando Arthur non aveva parlato. Erano probabilmente le cinque, ma Merlin non aveva voglia di dormire.
Rimase in silenzio, comunque, perché Arthur non gli stava chiedendo nulla, lo stava semplicemente informando. Non era giusto, perché quella era anche la sua vita, era anche il suo cuore, ma non disse comunque nulla.
«Io la amo, Merlin,» continuò e quante volte lo aveva ripetuto da quanto stavano assieme? «ma quello che stiamo facendo… è autodistruttivo,» era vero, ovviamente era vero.
«Domani glielo dirò, Merlin,» ripetè, stringendolo più forte (forse per rassicurare Merlin, forse per rassicurare sé stesso).
«Okay,» disse Merlin, perché magari, dopotutto Arthur glielo stava chiedendo in una maniera strana ed arthuresca che non aveva il minimo senso. L’altro si rilassò impercettibilmente a quella parola e Merlin si complimentò con sé stesso.
«Ho bisogno di un po’ di tempo, Merlin,» disse poi e Merlin avrebbe potuto chiedergli cosa intendesse, ma lo sapeva già. Lo sapeva già e, ancora una volta, Arthur non gli stava chiedendo qualcosa, ma magari lo stava facendo comunque. Dio, era così difficile capirlo, a volte.
«Okay,» ripetè dunque, sentendo lingua pesante e le parole che si impastavano tra loro «posso… possiamo evitare di vederci per un po’, o per sempre o per qualche anno o…»
«No,» lo interruppe Arthur, piano, ma Merlin che aveva sperato che l’altro lo fermasse si zittì immediatamente. «Ho solo bisogno di tempo per… per risolvere la situazione. Non ho bisogno di tempo da solo,» spiegò, piano.
Questa volta fu il turno di Merlin di rilassarsi.
«Ce la faremo, vero?» chiese infine Arthur e quella era probabilmente la prima reale domanda che gli aveva fatto da quando si erano rivisti. E la prima domanda alla quale Merlin sapeva rispondere.
Perché era un po’ come quel “Ne vale la pena?” che Will gli aveva chiesto qualche tempo prima, perché era una delle poche cose a cui Merlin voleva credere con tutto il cuore.
«Sì,» rispose, piano. «Sì, ce la faremo.»
Sì, ne vale la pena.
E non importava altro.
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