Titolo: Capodanno (festeggiamento in due parti)
Fandom: Original
Pairing: M/M
Rating: NC17
Word Count: 962 la prima parte, 2831 la seconda.
Avvertimenti: Sesso omosessuale descrittivo, vago dom/sub play (ma molto vago).
Note: Storie scritte per il
P0rn Fest, quarta edizione, con i prompt Original, M/M, "Non fare rumore" e Original, M/M, "Mi accompagni a casa?".
Le due storie sono collegate, nel senso che vedono come protagonisti gli stessi personaggi nell'arco della stessa sera: i festeggiamenti dell'anno nuovo, appunto. Tuttavia possono tranquillamente essere lette separatamente.
Ringrazio
ellepi per aver supplito anche in questo caso all'avversità della tecnologia al p0rn e averci dato anche un occhio con i suoi quattro. Ogni errore, ripetizione e schifezza stilistica è opera mia.
“Non fare rumore.”
Un sospiro sussurrato sulle sue labbra prima che ricominciasse a baciarlo. Fuori, al di là del vetro spesso delle finestre, impazzava il Capodanno, coi suoi fuochi, botti e colori. Dall’altra parte della sottile parete di cartongesso, attraversata la porta dello studio e il breve corridoietto che dava sulle scale, gli amici facevano baldoria. Tre scoppi avevano accompagnato l’apertura di altrettante bottiglie di spumante, che ora venivano passate dall’uno all’altro tra le risate, gli auguri e la musica cubana di sottofondo. All’interno del guardaroba risuonò, rumoroso in modo quasi allarmante alle sue orecchie, il sibilo metallico della zip dei pantaloni che veniva abbassata.
“Sta’ zitto,” ribadì, mordendogli il labbro inferiore e sbuffando una mezza risatina. “Non vuoi che ci becchino…”
“Si… Si accorgeranno che manchiamo, di là,” balbettò faticosamente, il semplice atto di respirare reso più arduo dal locale stretto e dalla mano che si era infilata a forza al di sotto dei suoi vestiti, impugnando l’erezione che aveva tenuto schiacciata nella patta dei pantaloni da quando l’altro l’aveva trascinato in quell’angolo buio e remoto. Così buio che faticava a vederne i lineamenti anche da così vicino, così remoto che gli pareva di aver abbandonato la festa e di essersi isolato abbastanza da concedersi al più sordido dei piaceri - ma gli sembrava soltanto, e parte del suo cervello lo sapeva; per questo, quando lui gli disse di tacere, si guardò bene dall’emettere un fiato.
“No… Non ci vedranno soltanto per un attimo; quando se ne accorgeranno saremo già tornati,” ribatté l’altro, con fare svagato.
Avrebbe voluto chiedergli come pensava che sarebbe durato soltanto un attimo, ma quando quello si inginocchiò di fronte a lui senza ulteriori indugi non ebbe la forza di articolare una tale menzogna, per quanto pungolasse il suo orgoglio di maschio. Si limitò a deglutire il groppo di ansia ed eccitazione che gli chiudeva la gola e a concentrarsi sulla sua missione: non doveva fare rumore, nessuno se ne sarebbe accorto.
L’alito caldo dell’altro lo accarezzò per un solo momento. Non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di ciò che stava succedendo prima che la sua bocca si chiudesse sull’erezione appena liberata, succhiandone la punta con decisione. Sentì le gambe farglisi molli e si addossò maggiormente contro la parete alle sue spalle, che scricchiolò e riverberò di un eco cupo. Non fare rumore, si ripeté nella mente, muovendo in modo inconscio le labbra ad articolare ogni parola. Ingoiò un respiro tremante mentre l’altro ingoiava lui, lo faceva affondare nella sua bocca calda e umida con una naturalezza inverosimile, per poi ritrarre le labbra e concentrare le attenzioni della sua lingua sulla cappella. Vi si dedicava con dedizione e fine arte; un virtuoso del pompino, pensò, e chi l’avrebbe mai detto che l’avrebbe incontrato a una festa di Capodanno da amici che prevedeva al massimo un cenone e la tombolata a mezzanotte?
Una mano andò ad accarezzargli i testicoli, abbassandogli pantaloni e mutande, esponendo un po’ più di pelle nuda all’ambiente esterno. Un brivido gli percorse le gambe e si diffuse al suo addome, facendogli stringere le natiche in una contrazione muscolare dettata in parte dal piacere. E poi il suo gentile intrattenitore fece qualcosa con quella sua lingua capace che gli fece vedere le stelle. Spalancò gli occhi al buio che lo circondava, poi li strizzò con forza, riportando tutta la sua attenzione sulla respirazione. L’altro lo succhiava e lo leccava con famelica velocità, imponendogli un ritmo incalzante che si sentiva nelle vene e nella pressione che gli stringeva i testicoli, ansiosa di essere liberata. Cazzo che pompino! Porco cazzo, che cazzo di pompino di buon anno! Avrebbe voluto dirglielo, perché meritava complimenti, ma la sua mente fece eco a questi pensieri ricordandogli di non fare rumore e quindi si morse la lingua, limitandosi a succhiarsi le labbra per trattenere l’orgasmo ancora un attimo, per poter godere di quelle attenzioni ancora un po’, perché facesse di nuovo quella cosa con la lingua che…
Lo rifece, sì, e le dighe che aveva costruito con tanta fatica si aprirono con un rombo scrosciante nelle sue orecchie. Venne prima ancora di accorgersene lui stesso, e fu violento e veloce e così intenso da strappargli il fiato; e meno male, perché quando aprì la bocca ciò che uscì non fu l’urlo che li avrebbe smascherati, ma un gemito rauco che proveniva dal profondo della gola, l’ultimo respiro prima della pace dei sensi. Rimase lì, addossato alla parete, con il petto che si alzava e si abbassava furiosamente, i palmi sudati appiccicati alla parete alle sue spalle che, per grazia di dio, lo sosteneva silenziosa.
L’altro si rialzò, non agile quanto un gatto e quanto avrebbe voluto, probabilmente; nondimeno poteva intravvedere sul suo viso il ghigno soddisfatto di chi sapeva di aver portato a termine un buon lavoro - proprio ciò che intendeva ottenere.
“Bravo. Proprio come avevo immaginato, veloce e silenzioso.” Gli diede una carezza su una guancia, poi un bacetto leggero, quasi un soffio, e gli parve di avvertire il proprio odore sulle sue labbra arricciate. “Non mi seguire subito di là, se no se ne accorgono,” lo ammonì, e senza attendere un altro secondo si scostò da lui e se ne andò, varcando con pochi passi lunghi e rilassati la porta dello studio.
Restò solo e frastornato, l’uccello che gli si ammosciava tra le gambe e il sudore che, se ne accorgeva solo ora, gli imperlava leggermente la fronte, facendolo rabbrividire. Si rivestì come un automa, veloce ma assente, la mente totalmente concentrata sulla follia di ciò che gli era appena successo. Poi un ghigno sognante si dipinse sul suo volto.
Buon Capodanno a me!, si disse, e asciugandosi la fronte con una manica della camicia raddrizzò un po’ la schiena e si avviò, tronfio, ad affrontare i festeggiamenti.
§§§
I festeggiamenti avevano lasciato sul campo le proprie povere vittime. Bottiglie di spumante vuote, piatti e bicchieri sporchi accatastati in pile malferme, brillantini sul pavimento e sui divani, ma soprattutto i corpi molli e accaldati di chi vi si era accasciato, stremato dall’alcool e dalla stanchezza, per poi cedere al sonno dei giusti. Le ragazze, addormentate e dimentiche dei loro capelli arruffati e del trucco sbavato, lo fecero sorridere. Erano così buffe, ancora strizzate nei loro vestitini striminziti, ma a piedi nudi e nascoste per metà dalle coperte di lana che avevano rintracciato per la casa… Gli uomini si erano accomodati dove capitava, dove avevano trovato un angolo libero. Matteo, il padrone di casa, aveva riesumato per l’occasione il sacco a pelo dei tempi in cui faceva parte dei boy scout e ci dormiva accucciato sopra, un barbone in casa propria.
Simone si strofinò gli occhi, sopprimendo uno sbadiglio. La luce del mattino già illuminava il mondo al di fuori del salotto e, dopo un paio d’ore passate accasciato sul tavolo con uno spiffero malvagio a insinuarglisi sotto la camicia, aveva deciso di aver dormito a sufficienza. Era ora di tornare a casa, ad innamorarsi da capo del proprio letto.
Si guardò intorno, attonito e sperso, indeciso sul da farsi. Doveva svegliare Matteo per salutarlo e permettergli di richiudere la porta a chiave o sarebbe stato meglio andarsene alla chetichella come un ladro e lasciare l’accesso libero a chi l’avesse voluto imitare?
Un movimento alle sue spalle attirò la sua attenzione. Si voltò e gli ci volle qualche istante per mettere a fuoco le fattezze della persona che gli stava di fronte, assonnato e alticcio com’era.
“Vai a casa?” gli domandò quello, passandosi una mano tra i capelli mossi. Gli si erano gonfiati su un lato, probabile conseguenza di un paio d’ore di riposo mal posizionato, ma non gli fu difficile riconoscerlo.
“Sì,” rispose. Fece per biascicare qualcos’altro, un invito, una giustificazione, ma le sue labbra si mossero senza che ne uscisse alcun suono. “Sì,” ripeté, schiarendosi la voce. “Mi pare ora. Sono le…” Controllò l’orologio che portava al polso. Le 8 e 20.
“Mi accompagni a casa?” lo interruppe l’altro.
Simone alzò gli occhi sul suo interlocutore. Sbatté le palpebre un paio di volte, stupito, poi si rese conto che doveva proprio avere una faccia da cretino e si riscosse leggermente. Si leccò le labbra, nervoso.
“Certo.” Annuì tra sé. “Sei a piedi?”
L’altro alzò un sopracciglio e non rispose. Simone tornò ad annuire.
“Vado a prendere la mia roba,” disse lui, allontanandosi con passo sorprendentemente silenzioso in direzione del guardaroba.
Simone ripensò a ciò che era successo poche ore prima in quello stesso luogo angusto e sentì il sangue defluire verso le sue parti basse.
“Oh, porco cazzo, non iniziamo…” si ammonì a mezza voce.
“Cosa?” Era ritornato e neanche se n’era accorto. Ora indossava giubbotto e sciarpa, ma i capelli erano ancora un disastro. Simone si incantò a fissargli la bocca, la mente che divagava senza controllo alcuno.
“Vado a prendere il cappotto anch’io,” borbottò con voce meccanica, un po’ assente. “Arrivo subito.”
Al suo ritorno Matteo era in piedi accanto alla porta, gli occhi mezzi chiusi e le chiavi in mano.
“Oh, belli, grazie di essere venuti,” li salutò con la voce cavernosa di chi è stato strappato all’oltretomba.
“Figurati. Grazie a te. Festa magnifica,” lo ringraziò Simone, abbracciandolo brevemente e dandogli due colpetti veloce sulla spalla.
“Saluti tu Elisa?” fece l’altro, imitando i suoi gesti. Un amico di Elisa, la fidanzata di Matteo: ecco com’era arrivato a quella festa.
“Certo.”
“Ancora auguri.”
Matteo annuì, ansioso di sbatterli fuori.
“State attenti, che fuori sarà gelato,” raccomandò loro, mentre già richiudeva la porta.
“Sì, mamma,” rispose ironico Simone, ma la serratura scattò sulla sua ultima sillaba.
L’altro era già oltre il cancello e lo aspettava fissandolo torvo, le braccia strette attorno al torso per ripararsi dal freddo.
“Mh… La mia macchina è quella,” disse Simone, facendogli strada.
Fuori l’aria era fredda, ma non gelida. Dopo il caldo e la mancanza di ossigeno quasi asfissiante del salotto era quasi gradevole. A Simone sembrò che la mente gli si schiarisse passo dopo passo.
Si rese conto di non avere una meta solo quando fermò la macchina al primo stop.
“Dove vado?” domandò, guardando di sfuggita il suo compagno.
“A destra,” lo indirizzò l’altro, che teneva lo sguardo fisso sulla strada.
Simone si rimise in marcia, proseguendo a passo d’uomo. Amava guidare la mattina presto, o nei giorni in cui le strade erano completamente sgombre anche quando la mattinata era già inoltrata. Amava procedere piano e godersi la calma silenziosa della città dormiente e il leggero tremito della macchina che lo cullava. Era come guidare di notte, ma con la luce, quindi era meglio.
“A sinistra qui allo stop,” lo riscosse l’altro.
Simone svoltò. Si sentiva vagamente a disagio, con questo passeggero silenzioso che a malapena conosceva, ma col quale aveva consumato un momento decisamente intimo. Sorrise, cercando di assumere un’aria di normalità.
“Con chi sei venuto alla festa?” domandò, la prima domanda che gli era balenata in mente.
“Da solo,” rispose l’altro, telegrafico ma non ostile.
“Da solo?” ripeté Simone, aggrottando la fronte perplesso. “Come?”
“A piedi.”
Simone si voltò per un istante e intravide sul volto dell’altro un’espressione divertita.
“Abito qui,” disse poi quello, indicando il primo palazzo sulla sinistra.
Simone rallentò. C’era un posto libero proprio di fronte al cancello.
“Davvero vicino,” commentò ridacchiando, accostando per parcheggiare. Non ti serviva un passaggio, gli rimbombò nella mente.
“Sì, lo so,” rispose lui.
“Cosa?”
“Non mi serviva un passaggio.”
Simone lo fissò allarmato.
“Non… Non l’ho detto,” balbettò. In effetti non ne era del tutto certo.
Il suo accompagnatore rise e per qualche astratto motivo Simone si sentì un po’ sollevato.
“No, non l’hai detto,” lo rassicurò. “Ma l’hai pensato. Non fa niente, hai ragione.”
“Non c’è mica problema,” si affrettò a minimizzare Simone, colto in castagna. “Nemmeno io ho le gambe troppo salde, stamattina. Non credo che avrei affrontato la passeggiatina a cuor leggero…”
“Oh, no, non sono minimamente ubriaco.”
Simone si fermò a guardarlo, preso in contropiede. Gli sembrava che l’altro volesse dirgli qualcosa, con quel suo sorrisetto ambiguo, ma il succo del discorso continuava a sfuggirgli.
“E allora…”
Quello riprese a ridere.
“Sei fidanzato o solo molto timido?” gli chiese a bruciapelo, e il sangue di Simone tornò a scorrere in direzione del basso ventre prima ancora che il suo cervello riuscisse a cogliere in toto il messaggio.
“Eh? No, io…” Si bloccò, rendendosi conto di quanto doveva sembrare stupido, e fece un profondo respiro. “No, libero come l’aria,” snocciolò poi con scioltezza, rilassandosi in un sorriso.
L’altro si fece silenzioso, intento a fissarlo con uno sguardo magnetico che gli toglieva un po’ il fiato; poi si chinò in avanti, con una mossa sicura e decisa, e appoggiò le labbra sulle sue, baciandolo. Simone si perse nel modo in cui quel semplice contatto lo scaldava, e quando quello si allontanò, trattenendo un attimo ancora il suo labbro inferiore, il ricordo di quella stessa bocca su un’altra parte del suo corpo lo fece quasi gemere di eccitazione.
“Allora sali da me,” sussurrò, accarezzandogli la guancia e dandogli una tiratina ai capelli, e non era una domanda.
Simone deglutì, pensò alla follia di seguire un uomo conosciuto poche ore prima in casa sua, alla follia di essersi fatto fare quel servizietto durante la nottata, e rise.
“Chi è pazzo a Capodanno…” mormorò a mezza voce, sganciandosi la cintura di sicurezza.
“Eh?”
“Niente, parlo da solo,” buttò lì Simone, aprendo la portiera. “Dai, che fa freddo.”
L’appartamento al secondo piano era silenzioso e avvolto in una semioscurità fredda ma non ostile. Simone fece in tempo a sganciarsi il cappotto che le mani dell’altro gli furono addosso. Chiuse gli occhi, sprofondando nel calore della lingua che premeva per impossessarsi della sua bocca, e con molle arrendevolezza si fece trascinare per la casa. Lasciò cadere il cappotto a terra e strascicò i piedi per quello che doveva essere un breve corridoio; non aprì gli occhi finché non urtò qualcosa con la punta della scarpa e quasi perse l’equilibrio.
“Ma che…”
“Ehi, attento! Mi uccidi Alberta…” lo rimproverò il padrone di casa.
Simone abbassò lo sguardo, convinto di trovarci un qualche animaletto spaventato, ma ai suoi piedi c’era solo una pianta. Alzò un sopracciglio, perplesso.
“Il mio ficus,” spiegò l’altro divertito. “Dai, muoviti,” lo incitò quindi, riprendendo a spingerlo verso quella che, ora Simone ne era sicuro, doveva essere la camera da letto.
Ripresero a baciarsi sulla porta della camera, mentre lui iniziava a slacciarsi la camicia e il suo compagno si occupava dei propri pantaloni, fino a che la mano che ancora lo guidava non si staccò da lui con una spinta decisa. Perse l’equilibrio e ringraziò svariati santi per il materasso morbido su cui atterrò il suo fondoschiena.
“Spogliati, che aspetti?” ordinò l’altro, scivolando elegantemente e con sorprendente rapidità fuori dai propri vestiti.
Simone cercò di sfilarsi la camicia senza finire di sbottonarla, ma gli rimase incastrata per una manica. Imprecò a denti stretti, strattonandola; poi le mani del suo compagno afferrarono l’indumento e con uno strappo deciso fecero saltare il bottone, liberandolo. Simone si sentì spinto indietro, con la schiena sul letto, e il brivido spaventoso dell’essere dominato lo attraversò da capo a piedi.
“Non mi sembrava un’impresa tanto complicata…” mormorò l’altro, abbassandogli con pochi gesti spicci pantaloni e mutande. Simone scalciò via le scarpe e si liberò di tutto ciò che ancora indossava senza fiatare, completamente ammagliato dal carisma del giovane uomo di fronte a lui. “Ecco, meglio,” commentò quello, soppesando il suo fisico con occhio malizioso e indagatore. Simone si sentì quasi in imbarazzo, nudo sotto il faro di quello sguardo. Carne da macello, si disse. Il pensiero suonava bene, però, e si sentì ringalluzzire. Oh sì, carne da macello, si ripeté, godendosi il momento.
L’altro finì di spogliarsi e Simone poté ammirarlo mentre si afferrava l’erezione, piena e di ragguardevoli dimensioni, e iniziava a masturbarsi. Fa’ che sia passivo, pregò, deglutendo. Non stava sotto da una vita e non aveva proprio voglia di riprovarci per Capodanno.
“Mettiti seduto contro il muro. Là,” gli fece cenno il compagno, indicandogli la testata del letto.
Simone scivolò indietro, accomodandosi tra i due cuscini. Il muro era gelato contro la sua schiena, ma non osò proferire una parola. L’altro salì sul letto con le ginocchia e, senza smettere di toccarsi o di fissarlo famelico nemmeno per un attimo, si avvicinò a lui fino a poterlo toccare. Ridacchiò, sbatacchiandogli delicatamente la punta dell’erezione contro il mento.
“Credo sia ora che mi ricambi il favore…” sussurrò con voce calda e roca, una voce che, se mai ce ne fosse stato bisogno, avrebbe acceso ogni istinto sessuale nel suo corpo.
Non c’era nemmeno bisogno di chiedere. Simone trasse un sospiro di sollievo, quasi gli fosse stata concessa una benedizione, e afferrando il membro dell’altro con una mano si chinò su di lui, guidando la punta alle sue labbra. Era salato, ma a suo modo eccitante, quasi…goloso. Aveva un buon odore, un profumo fresco ma penetrante che gli riempì le narici, facendo sussultare la sua erezione trascurata. Avvolse la cappella tra le labbra, accarezzandola con la lingua. L’altro muoveva i fianchi dolcemente avanti e indietro, così da sfuggire un po’ al calore della sua bocca per poi risprofondarci dentro per un paio di centimetri. Una delle sue mani si annidò tra i suoi capelli corti, tenendogli la testa e guidandolo nei movimenti, suggerendogli quando osare di più, quando sollecitarlo e quando lasciargli un attimo di respiro. Simone non aveva mai amato quel genere di trattamento, era abituato a fare di testa sua, perché non aveva certo bisogno di direttive, ma quel mattino andava così. Era lui, quell’uomo sconosciuto e sconvolgente, che lo eccitava in un modo che lo faceva sentire così strano…
L’altro gemette, aumentando il ritmo dei fianchi. Simone, che ora era troppo impegnato a rilassare i muscoli attorno all’erezione che gli scopava la bocca, pensò che gli sarebbe venuto in gola, soffocandolo per qualche attimo, mentre il compagno godeva in un modo indifferente ed egoista che gli si accordava alla perfezione; e invece di un sano panico sentì l’eccitazione sorgere in lui come un’onda, portandolo quasi al culmine. Decisamente gli stava capitando qualcosa di strano, quella mattina. Anno nuovo, uomo nuovo…
“No!”
Il suo compagno si strappò da lui con tanta bruschezza che Simone ci rimase male. Per un istante si sentì vuoto e inutile mentre fissava con occhi sgranati il volto dell’altro, contratto in una smorfia quasi dolorosa, e la mano stretta alla base dell’erezione con decisione, a impedire l’orgasmo.
“Perché…?” sussurrò, i muscoli della mandibola che rispondevano appena e la voce roca per lo sforzo.
L’altro aprì gli occhi di uno spiraglio e lo fissò. Le sue labbra si tesero in un sorriso divertito e malizioso.
“È tutta sera che fantastico su quel tuo bel cazzo. Dopo avermelo fatto assaggiare non vorrai negarmi l’ebbrezza di sentirmelo dentro…”
Il respiro si bloccò nel petto di Simone e quasi si strozzò. Dovette fare un’espressione davvero buffa, perché quello si mise a ridacchiare, seppure affannato.
“Resta lì,” gli ordinò. “Lasciami fare…”
Simone non aveva intenzione di muoversi. Era una bambola, un oggetto sessuale di pura masturbazione nelle sue mani, quasi, e la cosa lo faceva godere da morire. Lasciò che l’altro si allungasse a recuperare un preservativo e glielo infilasse, poi lo osservò mentre prendeva il lubrificante e, sostenendosi sulle ginocchia, iniziava a prepararsi con due dita. Simone si sentiva la gola riarsa e le pulsazioni a mille, ma deglutì a vuoto e non disse niente, liberando la mente nella speranza di calmarsi un po’. Ma come poteva riguadagnare un po’ di controllo, se quello gemeva così, con quell’espressione di rapimento sul volto?
“Se hai intenzione di scoparmi… è meglio se ti dai una mossa…” balbettò ansimante, leccandosi le labbra nel tentativo di inumidirle.
L’altro sorrise diabolico ma continuò a stimolarsi ancora per qualche secondo. Poi, di colpo, la sua mano fu nuovamente sull’erezione di Simone. La percorse su e giù, tastandolo e strappandogli un grugnito di frustrazione.
“Non ce la fai più, eh?” lo stuzzicò, divertito. “Vuoi che me lo prenda tutto dentro, eh?”
Simone annuì.
“Come hai detto?”
“Sì…” gemette Simone, strizzando gli occhi.
“E come si dice?”
Simone sbatté gli occhi, confuso. Non era in grado di connettere, decisamente.
“Che…?”
La mano del compagno andò ad afferrargli con forza i capelli, tirandoglieli, senza che il ghigno, che ora Simone riconosceva come sadico, sparisse dal suo volto.
“Come si dice?” insisté, pur con voce leggermente tremante per l’eccitazione.
Simone deglutì.
“Non…”
“Per…” lo imbeccò l’altro, benevolo.
“Per… favore…” boccheggiò Simone, sconvolto.
“Oh sì… Bravo…” gemette quello, con una punta di godimento, quasi, e senza aggiungere altro si impalò su di lui.
Simone rimase senza fiato, incapace di opporre resistenza alle mille stimolazioni che contemporaneamente invasero il suo corpo. Portò entrambe le mani sui glutei dell’altro, stringendoli vigorosamente, e strizzando le palpebre così forte da vedere una miriade di colori esplodere davanti alla propria retina. Il suo compagno prese a muoversi su di lui a ritmo sostenuto, prendendolo centimetro dopo centimetro dentro di sé, facendolo affondare come volesse mangiarselo. I suoi ansiti riempivano l’aria nella stanza, assordandolo e disorientandolo al punto che gli ci volle quasi un minuto per accorgersi che era anche la sua voce, che si alzava vibrando ad ogni colpo netto di reni dell’altro. E poi fu oltre, oltre ogni limite e ogni sopportazione umana: non venne, ma esplose, stringendo il compagno tra le braccia, affondando un’ultima volta in quel calore ustionante che lo spremeva, ora più lentamente, fino a fermarsi.
Simone trasse un profondo respiro e aprì timidamente gli occhi. L’altro se ne stava seduto sul suo bacino, la testa reclinata in avanti, il mento abbandonato sul petto. Sembrava spossato ed era proprio così che si sentiva anche Simone: prosciugato di ogni briciola di forza, totalmente annientato e appagato. Sospirò, passandosi una mano sugli occhi per asciugarsi il sudore, e poi sulla pancia nuda, dove scoprì con un formicolio di piacere l’appiccicume dell’orgasmo dell’altro. Sorrise, sentendosi davvero in pace col mondo.
E fu solo allora, forse per quell’improvvisa ondata di sangue tornato al cervello, che Simone si rese conto di una cosa.
“Ehi,” mormorò, richiamando l’attenzione dell’altro che, con manifesta fatica, alzò gli occhi per guardarlo. “So che non è proprio il momento migliore, ma… Non mi ricordo come ti chiami.”
L’altro scoppiò a ridere, una risata come sussurrata per il fiato corto, ma spontanea e sinceramente divertita. Simone si sentì per l’ennesima volta uno scemo, ma anche stranamente felice.
“Mi spiace, davvero,” si difese. “Cioè, so che il tuo ficus si chiama Alberta, ma non…”
“Roberto,” lo interruppe quello, sorridendogli solare.
Lui rispose con lo stesso entusiasmo.
“Simone,” si presentò, tendendo una mano.
Roberto gliela schiaffeggiò via e si chinò in avanti per baciarlo, e Simone chiuse gli occhi. Se fosse stato un gatto, avrebbe fatto le fusa.