Fandom: Natsume Yuujinchou
Pairing: Natsume/Tanuma
Rating: PG13
Parole: 21.000 e rotte
Genere: fluff, yaoi, AU
Avvertimenti: Uomini d’altri tempi che si scambiano liquidi per via orale, presenze soprannaturali e poteri paranormali, corteggiamento vittoriano. Uh, e sedicenni che amoreggiano (non che ai loro tempi fosse considerata minore età per fare le cose sconce…)
Disclaimer: I personaggi di questa storia non mi appartengono, ma sono frutto della mente di Midorikawa Yuki, e io non traggo alcun profitto dalla stesura di tali puttanate se non il mio gioiarmi di me.
Note: Questa storia necessita lunghe note perché tratta di un fandom che conta in Italia credo…tre fan. So che vi ho già annoiato in passato, ma magari qualcuno si è perso delle puntate e vado a spiegarvi velocemente in cosa consiste.
Il protagonista di questo bellissimo manga/anime è il caro Natsume Takashi, ragazzo di quindici/sedici anni dotato del potere, ereditato dalla nonna, di vedere gli youkai, cioè gli spiriti. Questo l’ha reso, fin da bambino, molto insicuro e solo, perché veniva tacciato di pazzia o stranezza; se a questo aggiungiamo il fatto che è rimasto orfano da piccolo e che da allora ha cambiato in continuazione famiglia di affidamento capiamo i suoi ragionevoli problemi di relazione interpersonale e la sua poca eloquenza. Per canon è un ragazzo molto gentile e sensibile e per questo risulta spesso un po’ effemminato per modo di fare e gestualità.
Il giovane con cui lo accoppio è Tanuma Kaname, ragazzo della stessa età, che vive col padre monaco buddista all’interno di un tempio nelle vicinanze della città in cui vive Natsume. Anche lui è nato con la capacità di vedere gli spiriti, ma il suo potere è infinitamente meno sviluppato di quello di Natsume, dunque riesce a distinguere solo quelli molto potenti. Tra i due ragazzi, dal loro primo incontro, si sviluppa subito una certa complicità e silenziosa intimità, dovuta probabilmente al carattere schivo di entrambi e alle esperienze di vita simili.
Altri personaggi spesso presenti sono gli youkai, appunto, che girano attorno a Natsume. Il più importante è senza dubbio Nyanko-sensei, soprannominato da Tanuma “Ponta” (che suona un po’ come ciccione…). Questi altro non è che lo spirito “guardia del corpo” di Natsume, che lo segue quasi sempre e lo protegge (teoricamente) dagli spiriti malvagi che potrebbero volerlo uccidere. Assume varie forma: nella vita di tutti i giorni si mostra come un gatto bianco e macchie grigie e arancioni eccezionalmente grasso; la sua forma vera, tuttavia, è quella di un enorme lupo (o bestia simile) bianco e molto molto bello. Citati nella storia troverete anche Hinoe, uno spirito femminile dall’aspetto di una geisha, profondamente lesbica e innamorata per l’eternità della nonna di Natsume, e Kai, un dio delle montagne dall’aspetto di un bambino (e anche il carattere, aggiungerei), che si è affezionato a Natsume perché lui, basilarmente, gli ha dato corda e ha giocato con lui a intrecciare coroncine di fiori (…).
Per chi volesse saperne di più sulla serie di Natsume vi offro un paio di link: la
pagina di Wikipedia (in inglese, perché quella c’è) e uno
spezzone dell’anime (se guardate dal terzo minuto in poi, oltre a notare che Natsume è molto molto etero capirete da dove ho tratto l’idea per questa storia). Ok, ve ne fornisco un altro:
qui potete vedere il fidanzato Tanuma (che è quello alto e figo che al minuto 2:20 lo prende al volo mentre sviene) e Hinoe (entra in scena attorno al secondo minuto). E poi non dite che non sono carina e gentile…
Ecco, ora che avete letto e guardato tutto ciò vi dico che in fondo in fondo le informazioni sono un tantino superflue, perché la storia è un’AU ambientata in uno pseudo-antico Giappone, e dunque ho cambiato parecchi particolari. Mi volete bene lo stesso? Suvvia, se ci pensate è anche meglio, per voi. Così potrete leggerla come un’originale e gustarvela appieno. Non vi vedo convinti e non so perché…
Con questo direi che ho finito. Ringrazio Keity per l’aiuto e il sostegno che mi ha fornito durante la stesura e per la prima betatura; Anne per la beta finale. Spero non faccia orrore e abbia un minimo di senso. Qualsiasi dubbio abbiate sarò felice di scioglierlo. Buona lettura!
Il sarto degli spiriti
La campagna in cui stavano avanzando si presentava piuttosto desolata, senza costruzioni né campi coltivati a vista d’occhio. Sapevano che doveva esserci un villaggio, non troppo distante da dove si trovavano, ma ancora non erano riusciti ad avvistarlo ed il sole cominciava ad abbassarsi sulle montagne a ovest. Presto avrebbe fatto buio e viaggiare di notte non era mai una buona idea.
“Non arriveremo per oggi,” disse quindi Kaname, scrutando sospettoso ancora una volta l’orizzonte.
Suo padre, di fronte a lui, rallentò il passo fino a fermarsi.
“Lo so,” disse infine, “ma sono certo che ci sia un ruscello qui vicino. Ci fermeremo quando l’avremo raggiunto e lì ci accamperemo per la notte.”
Kaname annuì tra sé, tendendo l’orecchio alla ricerca dello sciacquio tranquillo di un corso d’acqua. Camminarono ancora per quasi un’ora prima di vedere un piccolo fiume che, sbucando dal bosco che si estendeva alla loro sinistra, percorreva tortuoso la spianata di fronte a loro, allontanandosi a sud-ovest.
“Il villaggio dev’essere da quella parte,” notò Kaname.
“Sì. Ci saremo domattina,” rispose suo padre, sedendosi per terra sotto un albero leggermente isolato e disponendosi alla meditazione.
Kaname lo fissò deluso. Sperava di poter continuare la marcia ancora per un po’, nonostante il buio, e di raggiungere così il centro abitato. Non amava trascorrere le notti all’addiaccio, per quanto gli capitasse piuttosto spesso seguendo suo padre nelle sue peregrinazioni, e anche se non li avessero ospitati in una locanda o in una casa privata si sarebbe sentito più al sicuro sulla piazza di un villaggio piuttosto che sotto un albero ai margini di un bosco in cui, sicuramente, giravano indisturbate chissà quali belve feroci. Tuttavia suo padre si trovava bene in mezzo alla natura, forse più che tra le persone, e il suo meditare era un chiaro segno del fatto che la decisione era presa: Kaname avrebbe fatto bene a predisporre le cose per il fuoco e a prendere un po’ d’acqua prima che la notte calasse del tutto.
Tanuma era diventato un hijiri dopo la prematura scomparsa della moglie, che l’aveva lasciato solo al mondo con un figlio ancora in fasce da accudire. Portando il piccolo Kaname con sé aveva attraversato le terre del suo Paese vivendo della generosità della popolazione e fornendo in cambio piccoli servigi legati alla sua professione: benedizioni, riti propiziatori e qualche esorcismo, nei rari casi in cui aveva incontrato sulla propria strada spiriti maligni. Kaname era cresciuto sotto i suoi occhi e i suoi continui insegnamenti, diventando in fretta il giovane uomo sedicenne che lo accompagnava, ed era un figlio devoto e silenzioso, di animo semplice ma dal cuore profondo. Il ragazzo sapeva che suo padre si rattristava, talvolta, di non avergli offerto una vita più stabile e normale, una casa sicura e degli amici con cui giocare, ma Kaname non si era mai lamentato: era forte e per natura riservato, anche a causa del suo piccolo problema. Fin da quando era piccolo, infatti, era dotato di un dono inusuale: quello di vedere gli spiriti. Questo gli aveva permesso svariate volte di individuare esseri ultraterreni che affliggevano gli uomini. Kaname, tuttavia, sembrava temere questo suo potere più che apprezzarlo e Tanuma si era guardato bene dal mettere mai qualcuno al corrente delle sue visioni, onde evitare a suo figlio incidenti e imbarazzi.
“Che cosa c’è rimasto da mangiare?” domandò Kaname a suo padre, quando lo vide ridestarsi dal suo stato meditativo.
“Mmm… Non molto, temo. Abbiamo due focacce e forse sono rimaste un paio di quelle ottime nespole…” annunciò pacato il monaco, sorridendo.
Kaname sospirò, attizzando il piccolo fuoco che aveva acceso.
“Speriamo che il prossimo villaggio ci dia almeno un po’ di riso…” mormorò tra sé.
Il padre rise, allungandogli il lauto pasto. Si divisero il poco di cui disponevano in silenzio, osservando il mondo attorno a loro venir inghiottito dall’oscurità e i rumori e i profumi della notte riempire l’aria. Kaname si sdraiò soddisfatto sull’erba quando si apprestò a dormire. Forse non avevano molto da mangiare, ma qualcosa c’era sempre e l’acqua del ruscello era fresca e dolce. Appoggiò la testa sulle braccia incrociate, osservando le stelle che occhieggiavano una dopo l’altra nel mantello blu del cielo notturno, e lasciò che il suo corpo scivolasse velocemente in un profondo sonno ristoratore.
Si svegliò di soprassalto e si guardò intorno confuso. Era ancora notte fonda, o almeno così sembrava dall’oscurità che lo avvolgeva. Dalla posizione della luna crescente nel cielo mancavano ancora un paio d’ore all’alba. Si rimise sdraiato, cercando di riprendere sonno. Attorno a lui tutto era immerso nel silenzio; nemmeno il bosco alle sue spalle rivelava la sua presenza con qualche inquietante rumore. Sentiva solo il quieto scorrere del fiume a pochi passi da loro, monotono e imperturbabile. Chiuse gli occhi, concentrandosi su quel suono regolare, aspettando che favorisse il torpore, ma dopo qualche minuto sospirò. Era ancora perfettamente sveglio e, in aggiunta, gli era venuta anche sete.
Si tirò in piedi facendo attenzione a non svegliare suo padre e si diresse alla riva del ruscello. Non si fermò però dove aveva preso l’acqua qualche ora prima, ma seguì per qualche decina di shaku il corso del fiume, che si snodava tra gli sparuti alberi e la campagna. Risalì un pendio, curioso di vedere cos’avrebbe trovato sull’altro versante, e fu ricompensato con la sagoma, in lontananza, di un piccolo villaggio. Kaname sorrise, soddisfatto: per colazione, forse, avrebbero avuto qualcosa di fresco da mettere sotto i denti.
Si inginocchiò quindi sulla sponda e tuffò le mani nell’acqua fredda, portandosele alla bocca per bere. Questo lo ridestò ulteriormente, facendolo rabbrividire leggermente ma lasciandogli una piacevole sensazione di appagamento. Si asciugò la bocca, pronto a tornare sui propri passi, quando un rumore attirò la sua attenzione. Si era trattato di uno sciacquio leggero, come quello di un pesce che emerge dall’acqua per catturare un insetto e poi si rituffa sotto la superficie, alzando qualche spruzzo e nulla più. Kaname rimase immobile, guardando nella direzione da cui aveva udito provenire il rumore, e qualche secondo dopo il fenomeno si ripeté, ma questa volta lo vide: c’era qualcuno nel fiume, a non più di venti shaku da lui. Distinse chiaramente la testa far capolino dalle acque e sparire, poi la figura riapparve, emergendo fino alle spalle. Chiunque fosse gli dava la schiena e Kaname restò in perfetto silenzio, osservando come la persona misteriosa si passasse lentamente le mani nei capelli, strizzandoli. Quella vista gli seccò la gola: era inusuale che una donna portasse i capelli corti, così come lo era il fatto che se ne andasse in giro da sola in piena notte, ma i gesti aggraziati con cui si lavava non lasciavano molti dubbi.
Kaname si sentì avvampare leggermente, al pensiero di stare spiando una ragazza. Non aveva mai pensato di guardare di nascosto le giovani impegnate a farsi il bagno, ma ora che era successo per caso non riusciva a distogliere lo sguardo. C’era qualcosa in quella figura longilinea, nella delicatezza delle sue braccia lunghe e nei riflessi dorati dei capelli debolmente illuminati dalla luna, che la rendeva più che affascinante, quasi ammaliante. Kaname pensò che si potesse trattare, invero, di un essere ultraterreno, dello spirito di una fanciulla o di una creatura di natura divina, che i suoi occhi non avrebbero dovuto sfiorare nemmeno per errore, tanto più in un momento di nudità come quello. Se così fosse stato la sua punizione sarebbe stata terribile. Avrebbe fatto bene a darsela a gambe, frattanto che non aveva ancora attirato la sua attenzione, ma scoprì che non gli riusciva di muoversi. Osservò un’ombra strisciare furtiva sull’altra sponda, col cuore che gli batteva all’impazzata, e sospirò di sollievo scoprendo che si trattava solo di un grosso gatto. L’animale avanzò con passo dondolante verso la giovane, scomparendo pian piano dalla sua vista; poi, all’improvviso, lo udì: una voce sommessa, impossibile da intendere ma distintamente maschile, e un’altra, appena più squillante, che le rispondeva. Il tono sembrava sorpreso. Kaname spalancò gli occhi, allarmato, proprio mentre la figura nel fiume si ergeva in tutta la propria altezza, uscendo dall’acqua, e fece appena in tempo a cogliere il profilo del torso che si voltava prima di ritrovare l’uso delle gambe e di scappare velocemente oltre la collinetta e giù, verso il punto in cui aveva lasciato il padre dormiente.
Un uomo. Gli era bastato un attimo per rendersene conto. La persona nell’acqua che tanto l’aveva affascinato era un ragazzo, magro e dai modi gentili, ma pur sempre un maschio. Per tutto il tempo in cui ripercorse la riva del fiume di corsa non riuscì a cancellare dalla propria mente il profilo attraente di quel corpo simile al suo. Gli pareva quasi di averne visto perfino gli occhi, occhi da gatto, o da volpe, occhi da demone; tuttavia questa era certamente una sua suggestione, anche perché sarebbe stato impossibile scorgerli con tanta precisione nel buio e a quella distanza. Si buttò a terra ansante di fianco al corpo di suo padre e si gettò un braccio sugli occhi, cercando di cancellare le immagini che lo tormentavano. La figura del giovane misterioso sbiadì, perdendosi lentamente nel buio, e Kaname sprofondò nuovamente nel sonno prima ancora di rendersene conto.
Quando si risvegliò era già giorno e il sole splendeva su una giornata che si preannunciava tersa e temperata. Si tirò a sedere con cautela, la mente confusa che gli doleva. Il ricordo di ciò che era accaduto durante la notte si ripresentò vivo, destandolo completamente.
“Buongiorno,” gli augurò suo padre cordiale, già pronto a riprendere il cammino. “Dormito bene?”
Non poteva essere successo davvero, decise, mettendosi in piedi a fatica. Doveva essere stato un sogno, una fantasia notturna senza senso.
“Non molto. Devo aver fatto qualche incubo strano…” rispose, trascinandosi fino al ruscello e lavandosi il viso.
L’acqua era fredda e rivitalizzante proprio come nel ricordo delle ore notturne appena passate, ma con il sole tutta quella faccenda di giovani con gli occhi da gatto intenti a farsi il bagno in piena notte pareva assumere contorni ridicoli, al limite dell’incredibile. Decisamente doveva esserselo sognato, e poi, se anche ci fosse stato davvero un ragazzo nel fiume, a chi sarebbe appartenuta la seconda voce che aveva udito poco prima di essere scoperto? Non c’era nessun altro in vista e di certo non era stato quello strano gatto obeso a parlare. Si asciugò il viso sorridendo, sollevato.
“Andiamo subito,” disse. “Non vedo l’ora di arrivare al villaggio.”
“Tu pensi troppo col tuo stomaco, Kaname,” lo ammonì il padre serio, ma senza severità. “Ormai hai raggiunto un’età in cui dovresti aver imparato a sopportare le piccole privazioni della nostra vita senza dolore.”
“Le sopporto, padre, ma le eviterei volentieri, se possibile. Non credo di essere tagliato per questa vita di santità.”
Il monaco sbuffò con aria divertita, ma si accodò al figlio e, con passo deciso, ripresero il cammino interrotto.
Seguirono la riva del fiume e Kaname si stupì nel risalire la stessa collinetta del proprio sogno e nel vedere, nonostante la leggera nebbiolina che le avvolgeva, le prime case del villaggio ritagliare l’aria della campagna a poco più di dieci chou da loro. Giunti alle porte del paese non poterono però non notare l’aria desolata dei campi circostanti, la stessa che riconobbero sul viso dei pochi abitanti che incrociarono e che si fermarono a guardarli, sospettosi e curiosi insieme. I loro abiti usurati, persino per essere vesti contadine, facevano pensare che il villaggio gravasse in pessime condizioni economiche.
“Percepisci qualcosa di strano?” domandò sommessamente Tanuma, volgendo uno sguardo preoccupato sulle case dall’aspetto misero e travagliato.
“A parte il mio sogno di un pasto decente che sfuma?” ribattè il ragazzo ironicamente. “Non vedo niente, a parte questa strana foschia mattutina, ma qui c’è sicuramente qualcosa all’opera,” sussurrò, accigliandosi. L’atmosfera che attorniava il villaggio gli faceva venire la pelle d’oca.
Il monaco annuì, facendosi ancora più serio ora che avevano raggiunto lo spiazzo centrale del paese. Ad ogni passo la nebbia sottile che pareva innalzarsi come fumo dal terreno diveniva più densa e da lì faticavano a distinguere i particolari delle case che limitavano la zona. Kaname gettò un occhio all’interno del piccolo pozzo che ne occupava il centro, ma lo scoprì secco.
“Se siete venuto a portare benedizioni siete la risposta alle nostre preghiere,” disse una voce profonda e autoritaria alle loro spalle. Si voltarono e si trovarono davanti un uomo non molto alto ma dal cipiglio severo, vestito con abiti di buona fattura anche se leggermente logori per l’uso. “Sono il capo di questo villaggio. Il mio nome è Nishimura Satoya e vi do il benvenuto. Sono spiacente di annunciarvi, però, che questo posto è vittima di una terribile calamità, da qualche tempo.”
“Se possiamo esservi utili in qualsiasi modo saremo felici di ascoltare la vostra storia,” rispose cordiale Tanuma.
“Venite a casa mia, vi offrirò qualcosa da mangiare,” li invitò allora il capo villaggio con un breve inchino.
Kaname e suo padre accettarono la generosa offerta con un cenno del capo e lo seguirono fino alla più grande tra le case che componevano il piccolo centro abitato. La signora Nishimura, una donna ancora giovanile ma dallo sguardo triste, servì loro del tè e si ritirò, lasciandoli soli col marito.
“Tutto è iniziato dopo che il sarto se n’è andato,” disse grave il signor Nishimura.
“Il sarto?”
L’uomo annuì.
“Due anni fa questo villaggio era un’isola felice. Non era grande, certo, ma avevamo tutto ciò di cui potevamo avere bisogno. I raccolti andavano bene e spesso i mercanti passavano di qui per vendere ciò che da soli non potevamo produrre. Non c’era una sola persona che soffrisse la fame e ognuno aveva il proprio compito. Solo un ragazzo era isolato dal resto della comunità: il sarto, Natsume Takashi.”
Nishimura fece una pausa e a Kaname sembrò che quel nome, sibilato quasi con timore, aleggiasse per qualche tempo nell’aria all’interno della stanza.
“La famiglia Natsume era considerata strana da generazioni: sempre un po’ in disparte, non si erano mai inseriti nell’economia del villaggio. Ricordo la signora Reiko, sua nonna: quando ero bambino eravamo soliti dire che fosse un po’ matta, perché a volte si fermava a guardare per ore nel vuoto e poi scoppiava a ridere da sola. Crescendo ci convincemmo che fosse solo una donna un po’ strana che soffriva di solitudine. Molti pensavano che avesse perso il senno quando uno straniero l’aveva aggredita, da ragazza; altri che fosse impazzita dopo la morte prematura del figlio, quando Takashi era ancora in fasce. Ciò che è certo è che non era una donna normale e, crescendolo, trasmise questa sua particolarità al nipote, insieme al suo mestiere. Anche lei era una sarta e si dice che fosse molto abile. A volte cuciva i kimono delle giovani che si accingevano al matrimonio e le opere che uscivano dalle sue mani erano dei capolavori. Forse era per questo che la sua stranezza veniva scusata e ignorata.
“La signora Reiko, però, morì presto, lasciando Takashi completamente solo che ancora era un fanciullo. Gli abitanti del villaggio lo aiutarono come poterono, portandogli di tanto in tanto del cibo o controllando che stesse bene; anche mia moglie andava spesso a trovarlo. Tuttavia ognuno aveva la propria famiglia e il proprio lavoro a cui badare e il ragazzo dovette imparare a cavarsela da sé. La nonna gli aveva insegnato a cucire e lui sembrava aver intrapreso la medesima professione. Ci aspettavamo che diventasse il sarto del villaggio e che facesse amicizia con gli altri giovani, ma così non fu. Si rinchiuse anzi ancor più tenacemente in casa, uscendo solo per passare lunghe ore a passeggiare sfaccendatamente per la campagna qui attorno o lungo il fiume. Parlava poco e in generale aveva un’aria mesta e pensosa che non attirava la gente. Continuò così fino ai quindici anni; poi accadde il peggio.
“Non so chi ci fece caso per primo; probabilmente le donne, perché si sa, tra loro amano parlare. Sta di fatto che qualcuno notò una particolare stranezza nella vita di Takashi: lo si vedeva spesso lavorare nel suo laboratorio e ogni volta che i mercanti passavano di qui acquistava i tessuti più raffinati, le stoffe più ricche e sgargianti, preziose e delicate. Sembrava avere grandi risorse e che i suoi affari andassero a meraviglia, tuttavia nessuno nel villaggio aveva mai indossato un abito confezionato da lui, né l’aveva mai visto vendere a un mercante o a un compratore straniero le sue vesti. La voce di questa incomprensibile realtà fece il giro del paese in fretta e si decise di spiarlo. Ebbene, il ragazzo era sempre solo, in casa, fatta eccezione per il suo gatto, e mai era stato visto parlare con qualcuno che non fosse di questo villaggio; tuttavia i magnifici vestiti che confezionava con le sue mani sparivano inspiegabilmente dal laboratorio, e al loro posto Takashi sembrava venir ricompensato lautamente con cibo e oggetti di valore.
“Gli abitanti del villaggio iniziarono a sussurrare che si trattasse di uno stregone, che qualcosa non andasse nel ragazzo e che, ospitandolo tra noi, avremmo attirato sul villaggio la sventura. Io non prestai orecchio a queste dicerie inizialmente, perché mio figlio era coetaneo di Takashi e mi pareva assurdo che un ragazzo così giovane potesse essere tanto pericoloso. Mi dovetti però ricredere quando accertai di persona le stranezze che si raccontavano. Tenemmo una riunione segreta e, semplicemente, decidemmo che nel nostro villaggio non c’era più posto per la famiglia Natsume e che Takashi avrebbe dunque dovuto lasciare il paese.
“Ricordo ancora quando andammo a comunicargli la nostra risoluzione. Ci aprì la porta calmo, senza mostrare il minimo segno di paura, e di fronte al nostro ordine di andarsene fece solamente una faccia sorpresa; poi raccolse le sue cose e, senza protestare né batter ciglio, lasciò il villaggio. Si ritirò in una casupola abbandonata da anni a circa un’ora di cammino da qui, più ad est verso i boschi, e lì si stabilì. Per quanto riuscimmo a capire riprese la sua attività di sarto, anche se a quel punto i suoi mancati contatti con gli uomini resero ancora più misterioso il modo in cui si procurasse il materiale per lavorare e il necessario per vivere. Al villaggio la vita scorreva tranquilla e nel giro di qualche mese tutti sembrarono dimenticare che Natsume Takashi fosse mai anche solo esistito. Poi, una notte, iniziarono i problemi.”
Nishimura si interruppe e Kaname, che non si era accorto di pendere dalle sue labbra, richiuse la bocca, cercando di darsi un contegno più composto, come si addiceva al figlio di un bonzo.
“Che genere di problemi?” chiese suo padre, esortando il capo villaggio a proseguire.
“Problemi inspiegabili, all’inizio simili a scherzi di cattivo gusto, ma poi via via più drammatici. Iniziarono a sparire i viveri, al mattino trovavamo case e carri danneggiati; altre volte furono gli animali a subire i maggiori inconvenienti, venendo lasciati a vagare liberi per tutta notte e finendo vittime delle bestie selvatiche o scomparendo nel nulla, senza lasciare traccia. Col passare delle settimane i danni si fecero sempre più gravi. Trovammo i campi devastati, il raccolto distrutto e ci furono una serie di sgradevoli incidenti. La bruma del mattino iniziò a permanere per tutto il giorno, sottolineando agli occhi di chiunque passasse che questo posto era maledetto. Il villaggio si impoverì in fretta e, col tempo, non fummo più in grado di ripagare i mercanti, che ci tagliarono fuori dalle loro vie di commercio. Ormai sono due anni che versiamo in questa condizione e non sappiamo più come uscirne. Se va avanti così, probabilmente dovremo abbandonare il villaggio e partire alla ricerca di un posto più felice in cui ricominciare a vivere.”
Il monaco aveva ascoltato tutto con estrema attenzione, meditando la storia tra sé. Dopo un lungo silenzio, disse “Non riesco a capire, però, perché mi abbiate raccontato la storia del sarto.”
“Noi riteniamo che sia stato Natsume a mandarci la sventura,” rispose Nishimura. “I problemi sono iniziati poco dopo il suo allontanamento. Sicuramente è uno stregone potente e deve aver lanciato una maledizione sul villaggio oppure ordinato a degli spiriti maligni di vendicare il torto subito.”
“E come fate a dirlo? Avete prove?” chiese ancora il monaco.
Nishimura lo fissò scandalizzato, come se avesse detto un’oscenità.
“Chi altri potrebbe essere stato ad attirare una tale calamità su di noi? Un simile evento non è un caso e, visto che la prosperità del sarto non è minimamente diminuita in tutto questo tempo, è chiaro che lui debba esservi implicato. O ne è l’artefice, o ne è complice.”
Il monaco rimase di nuovo in silenzio per un lungo momento.
“Perché non l’avete affrontato, allora? Avete provato a parlargli?”
Il capo villaggio scosse la testa.
“Nessuno ha il coraggio di farlo. Nessuno si avvicina nemmeno alla casa. Abbiamo troppo timore di quali nuove maledizioni potrebbe mandare su di noi se lo accusassimo.”
“Così voi vorreste che noi andassimo da questo sarto e gli dicessimo di smettere di torturarvi, ho capito bene?” si intromise Kaname, guardando di sottecchi il genitore. La storia che aveva sentito non gli piaceva per nulla, ma sapeva che suo padre era un uomo giusto e amante della verità e, di fronte alla palese ingiustizia che si era verificata in quel villaggio, sicuramente avrebbe voluto intervenire per chiarire e appianare la faccenda.
Nishimura si piegò in avanti, prostrandosi di fronte a loro.
“Vi prego, fate questo per noi. Liberateci dalla maledizione, per amore degli dei.”
“Faremo così: andremo oggi stesso alla casa di questo ragazzo che voi chiamate il sarto e cercheremo di capire se egli realmente c’entri nelle vicende che mi avete narrato; dopodiché tornerò qui e vedrò di trovare una risoluzione al vostro problema,” annunciò Tanuma.
“Non so come ringraziarvi!” esclamò il capo villaggio, sorridendo per la prima volta da quando l’avevano incontrato. “Vi prego, finite di mangiare e ristoratevi per qualche tempo. Dopo l’ora nona comanderò a mio figlio che vi accompagni fino alla casa del sarto.”
Così fecero. L’accoglienza in casa Nishimura si fece ancor più cordiale e Kaname approfittò dell’occasione per mangiare quanto bastava a rendere un po’ di carne alle sue ossa martoriate dal lungo cammino. Suo padre, tuttavia, rimase serio e rinchiuso in un cupo silenzio di meditazione fino al momento della partenza.
Il figlio del signor Nishimura doveva avere, a occhio e croce, la stessa età di Kaname. Era un ragazzo dall’incarnato pallido e dallo sguardo vivace, ma anch’egli, come il giovane figlio del monaco, pareva avere bisogno di mangiare un po’ di più. Camminarono a lungo senza scambiarsi una parola, Nishimura davanti e gli altri due al seguito. Kaname approfittò della camminata per studiare ancora una volta la natura circostante: i campi avevano in effetti l’aria di essere seccati e in parte bruciati da tempo e l’innaturale trascuratezza delle case appariva il frutto di decine d’anni di abbandono. Attorno a tutto ciò vedeva aleggiare un sentore pestilenziale, come se lì fosse stata all’opera da poco una forza maligna.
“Non è Natsume la causa della disgrazia piombata sul nostro villaggio.”
La voce del giovane lo colse talmente impreparato che, per poco, non incespicò, cadendo per terra.
“Come avete detto?” chiese Tanuma, pacato, allungando un braccio per assestare la marcia del figlio.
“Conosco Natsume… Non sarebbe mai capace di una cosa simile.”
“Mmm…” Il monaco meditò quelle parole. “Conoscete Natsume? Volete dire che siete suo amico?”
“Ero suo amico,” rispose Nishimura, sottolineando il passato. “Abbiamo la stessa età e, per quanto fosse riservato, siamo cresciuti insieme. È sempre stato un ragazzo dolce e sensibile, terribilmente buono. Non si arrabbiava mai, non reagiva nemmeno agli scherzi; tutt’al più si rattristava. Era strano, è vero, ma non era cattivo. Sapeva essere un buon amico, la sua compagnia era piacevole.”
“Ciò che dite non concorda con la storia di vostro padre,” gli fece notare bonariamente il monaco.
“Mio padre si è fatto influenzare dalle malelingue del villaggio,” disse mestamente il giovane, che camminava tenendo lo sguardo fisso a terra. “La gente ha sempre visto male la famiglia di Natsume, anche prima che lui nascesse, perché…hanno davvero qualcosa di strano.”
“E cioè?”
Nishimura scosse la testa.
“Non lo so. È solo una sensazione, e poi quella storia degli abiti… Be’, è vera.”
“Ma se non è lui a provocare i problemi nel vostro villaggio allora chi sarebbe il colpevole?” chiese Kaname.
Di nuovo Nishimura scosse il capo.
“Niente di umano. Un demone, forse, uno spirito del bosco. Forse è la nostra punizione.”
“Punizione?”
“Per aver cacciato Natsume,” rispose. “Questo spiegherebbe perché tutto è cominciato poco dopo il suo allontanamento dal villaggio. Potremmo esserci inimicati un dio, che per questo ci ha puniti. Magari è per questo che Natsume è tanto strano: se nelle sue vene scorre in parte il sangue di un dio, allora il nostro villaggio è condannato.”
“Il sangue di un dio? Non credo sia possibile…” replicò Tanuma con leggerezza, ma a Kaname venne la pelle d’oca. Il figlio di un dio?
Nishimura scrollò le spalle, poi si bloccò in mezzo al sentiero.
“Eccola, è là,” disse, indicando un punto tra gli alberi.
I due viandanti guardarono in quella direzione e scorsero, effettivamente, una costruzione di legno al margine del bosco, seminascosta dai primi fusti.
“È là che vive Natsume?” domandò Kaname, fissando stupito la casupola. Non pareva strana, né gli trasmetteva un senso di repellenza.
Nishimura annuì.
“Scusatemi, ma da qui dovrete procedere da soli,” annunciò poi, facendo un passo indietro.
“Cosa? Perché mai?” chiese Tanuma.
“Noi del villaggio non ci avviciniamo a quella casa. È considerata di cattivo auspicio.”
“Ma avete detto che voi e Natsume eravate…”
“Mi dispiace, ma non posso. È la legge del mio villaggio e io mi ci devo attenere,” lo interruppe il giovane, incollando lo sguardo ai propri piedi.
“Ma…”
“Va bene,” tagliò corto il monaco, osservando i pugni chiusi con forza di Nishimura e il leggero tremore che ne scuoteva le braccia. “Proseguiremo da soli. Grazie per averci fatto da guida.”
“Grazie a voi. Spero davvero che riusciate a risolvere il mistero che ci circonda,” replicò sollevato il ragazzo. Si voltò, facendo qualche passo in direzione di casa, poi aggiunse, quasi sottovoce, “Se non vi dispiace, direste a Natsume che lo saluto?”
Tanuma annuì.
“Lo faremo sicuramente.”
“Grazie,” mormorò Nishimura, e con passo troppo svelto si allontanò, facendosi presto piccolo all’orizzonte.
“Questa faccenda è strana,” mugugnò Kaname, volgendo lo sguardo sulla casetta tra gli alberi.
“Molto, ma siamo stati guidati qui dalla mano divina per un motivo,” rispose il padre, incamminandosi. “Vieni. Sono curioso di conoscere questo Natsume, dopo tanto parlare di lui.”
Kaname poteva dire la stessa cosa, sebbene dentro di lui permanesse una certa incertezza. Poteva essere che si trattasse di suggestione dovuta alle parole dei Nishimura e al suo strano sogno, ma aveva la sensazione che l’incontro con questo Natsume avrebbe segnato un punto di svolta nella sua vita. Se questo poi fosse positivo o negativo, proprio non l’avrebbe saputo dire.
Si inerpicarono per un po’ lungo il pendio che conduceva alla casa e quando furono abbastanza vicini poterono scorgerne più chiaramente la fattura: era una costruzione povera ma ben tenuta, a differenza delle case che avevano visto al villaggio, e sembrava che fosse pulita e in ordine. Nel prato antistante la porta d’ingresso crescevano alcuni fiori variopinti e poco di lato c’era un piccolo appezzamento di terreno coltivato che sembrava essere un orto casalingo. Tutto trasmetteva un senso di pace e tranquillità.
“Questo posto non ha subito alcun danno,” constatò il monaco ad alta voce.
“Già, è molto rilassante,” concordò Kaname. “Però ho ancora una sensazione strana.”
“Strana?”
“Sì. È…come se mi sentissi osservato.”
Il padre lo scrutò brevemente, mugugnando, ma non disse nulla.
Fecero per accostarsi alla porta, ma Kaname vide qualcosa che lo paralizzò: qualche passo più in là, proprio vicino ai fiori che ornavano il prato verdeggiante, c’era un grosso gatto bianco, coperto di macchie rosse e grigie, che se ne stava immobile a fissarli. Lentamente, il felino si avvicinò di qualche passo, barcollando sulle gambe corte e troppo esili per trasportare un simile peso: non era semplicemente grasso, era obeso, e a Kaname tornò subito in mente il gatto che aveva visto la notte precedente in sogno, prima di essere scoperto dal misterioso uomo del fiume. Rabbrividì, pensando che quegli eventi potessero essere stati reali. Osservando il gatto con più attenzione, gli parve che lo stesse fissando di traverso, con manifesta ostilità. Di nuovo fu scosso da un brivido, ma si impose di essere razionale.
“Non c’è nessuno,” annunciò intanto suo padre, che aveva bussato alla porta.
“Forse non vive più qui,” ipotizzò Kaname, guardando ciononostante l’orto curato.
“No, più probabilmente è fuori casa,” disse Tanuma, affacciandosi a una delle finestre per spiare all’interno. “Questa dev’essere la stanza in cui lavora, ci sono ritagli di stoffa sul tavolo, e per il resto è abbastanza ordinata. È chiaro che qualcuno ci vive da tempo.”
Kaname sospirò, avvicinandosi al gatto con finta casualità.
“Ehi, Ponta,” lo chiamò, accucciandosi vicino a lui e muovendo un dito di fronte agli occhi gialli. “Dov’è il tuo padrone?”
Il gatto lo fissò con odio.
“Non…”
“State cercando me, per caso?”
La voce era giunta dalle loro spalle. Kaname girò la testa per vedere il nuovo venuto e rimase di stucco, gli occhi spalancati e la mente completamente annebbiata: quello era, senza ombra di dubbio, l’uomo del fiume. La luce era diversa, ora, e lo poteva vedere bene in viso, ma quegli occhi strani, ammalianti, non sarebbe mai riuscito a dimenticarli o a confonderli con quelli di un altro. E la voce, ora che ci faceva caso, ricordava una delle due che aveva udito poco prima che lo sconosciuto si voltasse…
“Ahi!”urlò Kaname, ritraendo il braccio e stringendosi un dito al petto. Il gatto, approfittando della sua distrazione, l’aveva morso con tutte le sue forze.
“Nyanko-sensei!” lo richiamò Natsume, mostrando un cipiglio severo che contrastava con l’espressione rilassata e un po’ sorpresa di prima. Quando tornò a rivolgersi a loro, però, sul suo volto troneggiava un sorriso gentile. “Vi prego, entrate. Potremo bere una tazza di tè mentre mi spiegherete chi siete e cosa vi ha condotti fin qui.”
“Volentieri,” accettò Tanuma, rispondendo con benevolenza a tanta gentilezza.
“Prego,” ripeté Natsume, tenendo la porta aperta per il monaco, che entrò in casa con un breve inchino di cortesia. Kaname stava per seguirlo quando vide lo sguardo del giovane di fronte a sé farsi triste e distante e i suoi occhi cercare l’orizzonte in direzione del villaggio.
“Ci avete visti arrivare?” domandò timidamente.
“Oh?” sussultò Natsume, come se in quei pochi istanti si fosse già perso in altri pensieri. “Sì,” confermò poi, annuendo. “Era Nishimura Satoru, quello che se n’è andato?”
Kaname fece un cenno affermativo con la testa.
“Ci ha accompagnati fin qui. Ha detto di salutarvi.”
Sul viso di Natsume comparve un sorriso, ma era di un’amarezza tale che a Kaname si strinse il cuore.
“Entriamo,” lo esortò infine Natsume, riprendendosi da quell’improvviso stato di malinconia, “un buon tè ci farà bene.”
Kaname lo osservò titubante, ma lo seguì senza dire niente all’interno dell’abitazione.
La casa era davvero piuttosto piccola, ma tenuta con estremo gusto e attenzione. Qua e là troneggiavano strani oggetti sulla cui funzione Kaname nutriva grossi dubbi e che, per certi versi, avevano un che di esotico, ma nel complesso l’impressione che dava il salotto era molto più che accogliente. Lui e il padre si accomodarono al tavolo, inginocchiandosi su alcuni larghi cuscini che si rivelarono molto morbidi, mentre Natsume si ritirò in cucina per mettere a bollire l’acqua. Ricomparve poco dopo, sedendosi dirimpetto al monaco.
“Ci vorrà solo un attimo,” disse, sorridendo.
Aveva un modo dolce di sorridere, naturale e trasparente, che rendeva ancor più aggraziato il suo viso dai tratti delicati. Era per natura dotato di un’aura quasi impalpabile ma luminosa. Non era propriamente bello, ma aveva un garbo e una gentilezza quasi femminili che lo rendevano a suo modo attraente e che spiegavano, per certi versi, l’impressione che la sua visione gli aveva fatto la notte precedente. Persino il kimono che indossava colpiva per i colori vivaci e la fantasia che ne adornava il tessuto, decisamente inusuali e poco adatti a un uomo; tuttavia su di lui non risultavano minimamente inappropriati. E poi c’erano gli occhi. Kaname ebbe l’occasione, finalmente, di osservarli per bene da vicino e non poté che rimanerne ammirato quanto le volte precedenti. Erano davvero occhi strani, grandi e di un marrone acceso, ma che per taglio o proporzioni - la pupilla sembrava la responsabile di quell’effetto particolare - ricordavano quelli di un gatto. Occhi da demone, ripeté la sua testa contro la sua volontà; eppure quel pensiero gli parve così sciocco e insensato da indurlo quasi a ridere. Capiva ora cosa intendesse dire Nishimura durante il cammino e non poteva che concordare: chiunque fosse Natsume e qualunque segreto nascondesse, di certo doveva essere una persona di buon cuore, incapace di fare del male a una mosca.
“Siamo stati maleducati a venir fin qui ed entrare in casa vostra senza nemmeno presentarci,” esordì Tanuma. “Il mio nome è Tanuma Kaoru e questo è mio figlio, Tanuma Kaname. Come può vedere sono un hijiri; mio figlio viaggia con me e mi fa da assistente.”
“Natsume Takashi. È un piacere conoscervi,” rispose cortesemente l’altro.
“Siamo capitati per caso sulla strada del villaggio qui vicino ed è stato Nishimura-san a chiederci di venire ad incontrarvi.”
Natsume li guardò stupito.
“Nishimura-san? Non capisco,” mormorò, confuso. “Perché vi ha mandato da me? Come posso aiutarvi?”
“In verità è il villaggio stesso ad avere bisogno di aiuto,” spiegò Tanuma. “Sicuramente voi sapete di cosa sto parlando.”
Di nuovo lo sguardo di Natsume vagò incerto tra i suoi due ospiti.
“Io davvero non capisco… Cos’è successo al villaggio?”
“Voi non sapete niente dei problemi dei vostri compaesani?” domandò d’istinto Kaname, stupito.
L’espressione di Natsume si rattristò all’istante.
“Io… Sono successe cose che mi hanno impedito di mantenere i contatti con il villaggio negli ultimi due anni.”
“Sappiamo tutto, o meglio, sappiamo ciò che Nishimura-san ci ha raccontato. Tuttavia saremmo interessati a sentire anche il vostro parere al riguardo,” disse Tanuma, disponendosi all’ascolto.
“Ma…non mi avete ancora detto cos’è successo e perché vi hanno mandati qui!” obiettò Natsume. Sembrava sinceramente preoccupato, tanto che Kaname lanciò un’occhiata di traverso a suo padre, cercando di intuirne le intenzioni. Era crudele tenere quel ragazzo sulle spine, se davvero la sorte delle persone che aveva lasciato al villaggio gli stava tanto a cuore.
“Tutto a suo tempo,” si limitò però a replicare il monaco, imperturbabile.
Natsume abbassò lo sguardo sulle proprie mani magre e bianche, dotate di dita lunghe e fini sicuramente agili con ago e filo.
“Aspettate un secondo solo,” li invitò alla fine, alzandosi con un breve cenno di scuse. “Vado a prendere il tè.”
Tornò dopo poco più di un minuto, portando un vassoio su cui aveva posto tre tazze e una teiera fumante. Con la grazia di una saburuko versò la bevanda fumante e la porse loro; dopodiché si preparò a parlare.
“Non credo di avere molto da aggiungere a ciò che già vi è stato raccontato. Io sono un sarto e come vedete esercito ancora il mio lavoro, ma gli altri abitanti non hanno mai capito la mia professione. La mia famiglia aveva già avuto problemi in passato, per questo, e mia nonna mi aveva messo in guardia. Questo è il motivo per cui non è stata una sorpresa, per me, sentirmi dire che non ero più benaccetto al villaggio. Mi sono trasferito qui non appena me l’hanno chiesto, perché non volevo alzare clamore. Certo, è stato difficile lasciare la mia casa e gli amici, ma la tranquillità delle persone che vivevano là era più importante.” Fece una pausa e guardò fuori da una delle finestre, sorridendo tra sé. “Qui mi trovo bene, comunque, e ho tutto ciò che mi serve. E se mi sento solo c’è sempre il mio gatto…” concluse allegramente.
Kaname gli sorrise, meditando tra sé quanto, a differenza dei suoi precedenti sorrisi, quell’improvvisa spensieratezza sembrasse falsa e forzata.
“Tuttavia io non riesco a comprendere…” intervenne Tanuma. “Perché mandare via un semplice sarto? Non sarebbe anzi utile il vostro lavoro per la comunità?”
Natsume abbassò lo sguardo.
“Non sono un sarto comune. Non faccio abiti per la gente, a meno che non si tratti di occasioni speciali.”
“E che genere di sarto siete, allora?”
“Io… Confeziono kimono particolari.”
“Particolari?”
“Sì,” mugugnò solamente Natsume, rinchiudendosi in un progressivo silenzio.
“Ci è stato detto che la vostra clientela, o meglio, la misteriosa mancanza di clientela e la scomparsa dei vostri abiti sono state la causa scatenante dell’ostilità degli abitanti del villaggio,” insisté il monaco, fissando il giovane con occhi sereni ma inquisitivi.
Natsume serrò le labbra.
“Solo perché le persone che abitavano vicino a me non hanno mai visto uno dei miei clienti questo non vuol dire che non ne avessi,” rispose. “Chi compra i miei kimono è estremamente riservato.”
“Clientela particolare, dunque,” osservò Tanuma.
Natsume sorrise di nuovo in quella strana maniera artefatta.
“Già.”
Tanuma rifletté a lungo tra sé, avvolto dal vapore del proprio tè.
“Mi sembra naturale che dei lavori di sartoria speciali abbiano acquirenti altrettanto particolari,” concluse infine.
Natsume parve subito rilassarsi.
“Sì,” confermò, portandosi subito dopo la tazza alle labbra.
Rimasero in silenzio per un po’, assaporando il tè. Era fragrante e aveva un sapore deciso ma gradevole; ricordava il tè che Kaname e suo padre avevano bevuto tempo prima in una grossa cittadina del sud, ma era più buono.
“Il tè è ottimo,” si complimentò il ragazzo, mostrando il proprio apprezzamento e la propria gratitudine.
“Oh, grazie,” rispose timidamente Natsume. “Me l’ha regalato uno dei miei clienti. Veniva da piuttosto lontano…”
Tanuma ascoltò attentamente, annuendo poi fra sé.
“Dunque voi non avete più avuto alcun tipo di contatto col villaggio da quando l’avete lasciato,” riprese il discorso con naturalezza. “Non avete avuto notizie nemmeno tramite i vostri clienti.”
“No,” fece il sarto.
“Non è difficile crederlo. Abbiamo notato che persino i vostri vecchi amici non osano avvicinarsi troppo a questa casa per paura della reazione degli altri abitanti,” intervenne Kaname, sperando che un gesto di fiducia potesse donare un po’ di tranquillità a Natsume.
Il giovane tenne gli occhi bassi e non disse niente. Dentro di sé Kaname si maledisse per aver risollevato l’argomento, evidentemente spinoso.
“Vi stupirà allora di sapere che, pochi mesi dopo la vostra partenza, il villaggio è stato colpito da una terribile calamità.”
Gli occhi di Natsume si sgranarono di colpo.
“Una calamità? Di che tipo? Ci sono state vittime?” chiese con frenesia, protendendosi persino in avanti.
“No, niente di tutto ciò. Almeno, non ancora, che io sappia. Ma la popolazione versa in condizioni critiche.”
“Vi prego, ditemi che sta succedendo,” lo implorò Natsume. Aveva sfoderato un’energia completamente nuova e diversa da prima, che gli illuminava gli occhi e rendeva più determinate le linee del suo volto senza che queste perdessero la naturale grazia.
“La gente crede che uno spirito maligno abbia preso di mira il villaggio e stia facendo di tutto per distruggerlo fino a che non verrà abbandonato.”
Natsume rimase a bocca aperta.
“Uno…uno spirito maligno, avete detto?” ripeté con un filo di voce. “Ma…non è possibile.”
“Perché no?” domandò il monaco. “Non sarebbe la prima volta che mi capita di intervenire in una faccenda simile.”
“Non intendevo questo,” si affrettò a mettere in chiaro Natsume. “È che…” Si interruppe bruscamente, tornando a sedere composto e a fissare la propria tazza di tè. “Siete certo che sia questo il caso?”
Tanuma sospirò.
“Non abbiamo ancora avuto prove della presenza maligna nel villaggio, ma i segni sono evidenti e mio figlio mi ha garantito che qualcosa di innaturale sta, in effetti, accadendo.”
Natsume si voltò a guardare Kaname, sorpreso. Il giovane abbassò gli occhi, imbarazzato, quanto mai a disagio per quelle poche parole che mettevano a nudo così tanto di lui.
“Non ne sapevo niente,” commentò a mezza voce Natsume dopo qualche secondo. “È terribile.”
“Non voglio essere ipocrita con voi. Nishimura-san è convinto, così come altri abitanti del villaggio, che voi siate implicato in questa storia. Che in qualche modo abbiate evocato uno spirito maligno per vendicarvi di loro.”
Natsume parve sconcertato dalla rivelazione.
“Io?”
“Sono altrettanto sincero nel dirvi che non credo affatto che voi siate responsabile di ciò che sta accadendo. Certo c’è di più in voi di quanto ci abbiate detto finora, ma capisco la vostra reticenza e il vostro desiderio di mantenere la riservatezza. Quindi non preoccupatevi: la nostra visita qui è stata solo uno scrupolo per accontentare Nishimura-san. Stanotte torneremo al villaggio e veglieremo, in attesa che il vero responsabile si faccia vedere.”
“No.” Sia Tanuma che il figlio rimasero a fissare Natsume senza parole. Il tono con cui aveva pronunciato quel No era irremovibile, nonostante il giovane tenesse ancora gli occhi abbassati e l’espressione sul suo viso fosse immutata. Lentamente, Natsume si alzò in piedi, lo sguardo assorto e distante. “Aspettate qui, vi prego,” disse loro. “Devo controllare una cosa. Ci metterò solo un attimo.”
Kaname lo osservò uscire dalla porta e, attraverso la finestra, scorse la sua figura avventurarsi tra gli alberi più vicini.
“Che starà facendo?” si domandò ad alta voce, coinvolgendo inconsciamente il padre nei propri ragionamenti.
“Quel ragazzo ha qualcosa di strano davvero, ma non in negativo. Forse abbiamo fatto bene a venire fin qui. Credo che ci aiuterà,” disse infatti il monaco. Sorbì un po’ di tè e si abbandonò a un sospiro. “Buono, vero?”
“Ottimo,” ripeté Kaname, sorridendogli.
Tanuma annuì.
“Il regalo di un cliente…” mormorò fra sé ironico, talmente piano che il figlio non lo sentì nemmeno.
Parte seconda