Titolo: La tua promessa, sotto quell’albero
Fandom: Hey!Say!Jump
Pairing: Yabu Kota x Inoo Kei ; Arioka Daiki ; Yaotome Hikaru
Rating: R
Avvertenze: Slash, AU!, NonCon
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: //
Note: Scritta per
24ore con il prompt “Ramo di pesco”
WordCount: 1828
fiumidiparole **
Faceva male. Fottutamente male.
E Kei non era mai stato un mostro nella sopportazione del dolore. Loro dovevano averlo intuito abbastanza presto perché, evidentemente, si divertivano realmente solo quando sentivano le sue urla.
E Kei aveva urlato. Aveva perso la voce sperando che qualcuno lo sentisse, ma nessuno si era mai avvicinato a loro, nel tentativo di farli smettere.
Né altri alunni, né altri insegnanti.
Avrebbe voluto capirli. Avrebbe voluto davvero cercare di trovare una giustificazione per il loro interesse, ma non ci riusciva.
Avrebbe voluto e dire che al loro posto avrebbe agito nella stessa identica maniera, ma sapeva che non era così.
Perché Kei non era mai stato molto altruista, ma capiva quando era il caso di fare qualcosa.
E quello era decisamente il momento di fare qualcosa.
Arioka si avvicinò a lui, puntandogli il coltello alla gola, facendolo scivolare poi lungo il suo petto, iniziando a tagliarlo. Kei urlò, come sempre. Sentiva la pelle lacerarsi sotto la lama e il sangue scivolare lungo la pelle.
Yaotome, dietro il compagno, ridacchiava e Kei sentiva l’odio scorrere lungo le sue vene. Lo odiava così tanto, che non pensava di poter raggiungere quei livelli.
Il biondo si avvicinò, aprendogli con forza le gambe e iniziando a toccarlo con la scarpe, pestandogli leggermente l’erezione. Kei si morse un labbro, sentendo gli occhi pieni di lacrime.
Odiava quel posto con tutto sé stesso. Odiava quelle persone, odiava quel luogo, odiava il suo stesso corpo.
Era stanco di alzarsi ogni mattina sapendo che poteva essere una giornata peggiore della precedente ed era stanco di osservare il proprio corpo pieno di lividi e graffi, dopo essere stato picchiato, ferito e stuprato.
Ansimò quando Arioka lo ferì di nuovo, questa volta su una costola, mentre Yaotome si apprestava a togliergli i pantaloni.
Kei scalciò, cercando di colpirlo, ma il dolore delle nuove ferite era troppo forte per poterlo sopportare. Yaotome gli diede un pugno e Kei sentì le guance riempirsi di lacrime. Lo vide sorridere, mentre continuava a spogliarlo, prima di afferrargli le gambe e spingersi brutalmente dentro di lui.
Avrebbe voluto urlare, ma Arioka gli aveva stretto una mano fra i capelli, infilando la propria erezione dentro la sua bocca, impedendogli di emettere fiato.
Kei ansimò di dolore, cercando di respirare, mentre il dolore lo stava facendo impazzire. Cercò di muovere i polsi, legati dietro le spalle, ma senza riuscirci. Si accasciò senza forze contro il muro, sentendo Yaotome che spingeva con forza dentro di lui, mentre Arioka continuava a muoversi dentro e fuori la sua bocca.
Quando li sentì venire, chiuse gli occhi, cercando di reprimere il disgusto.
Si faceva schifo.
Terribilmente schifo. E sentiva che quei sentimenti non lo avrebbero mai abbandonato.
**
Quello era un giorno come un altro. Niente di diverso dal solito.
L’unica differenza è che probabilmente sia Arioka che Yaotome non avevano un particolare voglia di portarselo a letto, quindi si erano limitati a ferirlo e a farselo prendere in bocca.
Era appena uscito dal bagno, dopo essersi tolto il loro sperma dalla faccia e cercando di eliminare anche il loro odore dalla loro pelle, convinto che non ci sarebbe mai riuscito.
Di fronte alla porta, appoggiato al corridoio che si guardava intorno, c’era un ragazzo che non conosceva.
Cioè.
Era arrivato nella loro scuola, più precisamente nella sua classe, un paio di settimane prima, ma Kei non era mai stato dell’umore adatto per iniziare nuove amicizie.
Alzò lo sguardo dai suoi piedi, osservandolo.
Non valeva nemmeno la pena sprecare energia per sorprendersi della sua presenza o per vergognarsi.
Chiunque fosse passato per quel corridoio negli ultimi trenta minuti, li aveva sicuramente sentiti.
L’altro ricambiò lo sguardo, solo per qualche secondo. Kei sbuffò.
« Non c’è bisogno che tu ti senta in colpa. E’ normale qua. » scosse le spalle.
« …avrei potuto fare qualcosa, ma… non ho capito subito quello che stava succedendo e mentre stavo entrando loro sono usciti. » s’inchinò davanti a lui « Mi dispiace. » ripeté.
Kei scosse ancora una volta le spalle.
« Non fa niente. » disse ancora.
Si avviò lungo il corridoio, desiderando solo tornare a casa, quando vide il ragazzo al suo fianco.
« Io devo andare ancora a pranzo. Vuoi venirci con me? » chiese.
Kei si fermò, sbuffando. Si passò le mani sul volto e poi si voltò verso il ragazzo.
« Senti, non so che cosa ti passa per la testa, ma no, grazie. » iniziò « Non so nemmeno come ti chiami e, credimi, se non vuoi rovinarti la vita, inizia a starmi alla larga, ok? » riprese a camminare, nervoso.
Ma non aveva fatto ancora i conti con il compagno, che questa volta si mise davanti a lui, porgendogli una mano.
« Bene. Se questo è il problema, allora mi chiamo Yabu Kota. Che ne dici se diventassimo amici? »
« Cos… tu sei pazzo, fattelo dire. »
« Non m’interessa quello che tu pensi di me. Voglio esserti amico e aiutarti il più possibile. E credimi, so essere molto testardo. »
L’altro sbuffò, di nuovo e osservò la mano tesa del ragazzo. Sospirò. Alla fine, che cosa poteva esserci di sbagliato in tutto quello.
Gli strinse la mano.
« Mi chiamo Inoo Kei. E, ricordatelo, questo non significa nulla. » commentò superandolo.
Il più grande ridacchiò, camminandogli accanto.
« Quindi ci stai per l’invito a pranzo? » chiese.
« Se mi prometti che non parlerai, sì. »
« Bocca cucita. » promise ridendo ancora prima di entrare nella sala mensa.
**
Le cose non erano cambiate. Ma di certo non si aspettava nemmeno che quello accadesse. Sarebbe stato impossibile, Kei ne era perfettamente convinto.
Aveva smesso di provare qualunque cose. Arioka e Yaotome avevano finalmente vinto e lui aveva iniziato a provare indifferenza nei confronti delle ore passate come loro schiavo.
Era stanco di lottare, era stanco di provare anche solo a cercare di avere un po’ di dignità, perché tanto in ogni caso avrebbe fallito.
Ci aveva provato a denunciarli, a dire a qualcuno quello che succedeva. Nessuno, preside o insegnanti, gli aveva dato retta.
E lui sapeva che era perché sia Arioka che Yaotome erano ricchi. Erano incredibilmente ricchi e potevano fare qualunque cosa volessero. Anche ucciderlo se avessero voluto e nessuno, ne era convinto, avrebbe mosso un dito per difenderlo.
Lui invece non era nessuno. Anzi, era il motivo per il quale se la prendevano sempre con lui.
Rientrò in casa, stanco, come ogni giorno.
Si tolse le scarpe, dirigendosi in camera sua per poi farsi una doccia. Salutò con un gesto veloce la madre, altrettanto codarda, ma non aveva le forze per odiare anche lui.
Ignorò il piccolo altare per il padre, in ingresso.
Lo odiava.
Era lui la causa di tutti i suoi problemi e non lo avrebbe mai perdonato. Perché era solo per colpa del suo suicidio e delle truffe che aveva messo in atto quando era ancora in vita se lui si trovava ad essere il giocattolo sessuale di due folle e se era costretto a vivere in un monolocale dove a malapena ci entravano lui e sua madre.
Era a causa sua se avevano perso tutto quanto e la madre si ammazzava di lavoro per permettergli di studiare.
Era solo a causa della sua codardia se adesso loro erano ancora in vita, privi di qualunque energia per continuare ad andare avanti.
E lui la vedeva la madre, tutti i giorni. Vedeva i segni del tempo sul suo volto, vedeva la rabbia e la disperazione, vedeva il suo odio, verso quell’uomo che aveva sposato e che l’aveva tradita.
Era stanca, anche sua madre. Troppo impegnata a pensare ai suoi problemi che a quelli del figlio.
Ma Kei non riusciva a fargliene una colpa.
In fondo, non erano nemmeno così tanto diversi. L’indifferenza che la madre aveva nei suoi confronti, veniva riflessa di nuovo su di lei.
Kei non si ricordava quanti mesi, o anni, erano passati dall’ultima volta che avevano cenato insieme, parlando e ridendo come una vera famiglia.
E Kei non aveva più voglia di lottare.
Quindi aveva deciso di ignorare. Ignorare come il suo corpo venisse sfruttato, giorno dopo giorno.
Ignorare come tornasse in una casa che era per la maggior parte delle volte vuota e di come vivesse con quella che era diventata un’estranea.
Ignorare come il mondo che lo circondava, cercasse continuamente dei modi per fargli del male, riuscendoci pienamente.
Si immerse nella vasca da bagno e poi si immerse con la testa sott’acqua.
Ecco.
Sarebbe stato facile. Rimanere qualche secondo in più senza respiro e poi tutte i suoi tormenti sarebbero scomparsi.
Liberarsi della vita alla fine non era nemmeno così difficile. Ci voleva solo un po’ più di coraggio e Kei sapeva di averne.
All’improvviso sussultò, riprendendo violentemente aria. Il cellulare stava suonando.
Si asciugò una mano, prendendolo in mano e osservando il nome sul display.
Era Yabu.
Kei si scoprì a sorridere. Era invadente Yabu, troppo per i suoi gusti, ma Kei sentiva con quando stava con lui le cose sembravano più semplici.
Era tutto più semplice, perché con lui riusciva a ridere e a dimenticare per qualche secondo quello che subiva.
Lesse il messaggio.
Era un invito per andare al parco divertimenti, il giorno dopo. Kei si morse un labbro, asciugandosi anche l’altra mano per rispondere al messaggio.
Era indeciso.
Non aveva soldi per andarci, ma ci teneva. Sospirando, fu costretto a declinare l’invito, quando gli arrivò un nuovo messaggio.
Arrossì nel leggere che il più grande gli avrebbe pagato tutte le spese, perché aveva qualcosa da dirgli.
Sentiva il cuore battere più veloce mentre leggeva quei pochi kanji.
Stava bene con Yabu.
Forse anche troppo. E Kota era veramente troppo per uno come lui. Decise di non pensarci e gli disse che ci sarebbe stato.
A tutti i costi.
**
Era passato poco più di un anno dal suo incontro con Yabu e da quando la sua vita era cambiata, in meglio.
Quel lontano giorno, erano andati a Tokyo in treno, si erano divertiti a Disneyland e il più grande si era dichiarato, chiedendogli di essere il suo fidanzato.
Kei aveva cercato di ribattere, dicendogli che lui non era la persona adatta per farlo felice, ma l’altro aveva negato. Affermava che solo con lui poteva ridere davvero.
Si erano baciati, per la prima volta, sotto un albero di pesco e Yabu ne aveva staccato un piccolo pezzo, mettendogli i fiori fra i capelli.
Kei li aveva tolti quasi subito, imbarazzato e guardandosi intorno, perché non era mai abbastanza sicuro di chi potesse incontrare, ma Yabu gli aveva stretto il volto fra le mani e lo aveva baciato, ancora e ancora e Kei si era lasciato andare contro quelle labbra e quelle mani, le uniche che potevano farlo felice.
E in quel momento, dopo quasi un anno, erano ancora là, insieme, a festeggiare un diploma che li aveva liberati da mesi di sofferenze.
Era stato difficile, ma senza di lui sapeva che non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere, anzi, probabilmente sarebbe morto, annegato in quella vasca da bagno, quella sera, quando tutto gli sembrava perduto.
Gli strinse le mani, baciandogli dolcemente il dorso.
Erano ancora là, sotto quell’albero di pesco e Kei aveva di nuovo i fiori fra i capelli, ma questa volta non li scostò.
Era stanco di nascondersi.
Era finalmente arrivata l’ora di amare veramente e di non avere più paura di niente e di nessuno.
Perché Kota era con lui e niente li avrebbe mai separati.
Fine.