Titolo: Love me, kill me, breathe me
Fandom: Hunger Games
Pairing: Mellarck Peeta x Everdeen Katniss
Rating: R
Avvertenze: Violence
Disclaimer: I personaggi non sono miei, tutti i diritti riservati e i fatti narrati sono frutto della mia fantasia. La storia non è scritta con scopo di lucro.
Riassunto: Il viaggio dal Distretto 7 al Distretto 6 era uno dei più lunghi. Durava una notte e buona parte della giornata.
Peeta era sfinito e avrebbe voluto solo lasciarsi andare nel letto, tirarsi le coperte fino al collo e chiudere gli occhi.
Note: Scritta per la
500themes-ita con il prompt “02. Terrore nella notte;
WordCount: 2.289
fiumidiparole Il viaggio dal Distretto 7 al Distretto 6 era uno dei più lunghi. Durava una notte e buona parte della giornata.
Peeta era sfinito e avrebbe voluto solo lasciarsi andare nel letto, tirarsi le coperte fino al collo e chiudere gli occhi. Chiudergli e dimenticare le facce degli abitanti del Distretto di quella giornata, dimenticare gli occhi delusi, vuoti, arrabbiati, disgustati di tutte le persone che lo guardavano mentre parlava. Chiuderli finalmente e dimenticare tutto quello.
Sarebbe stato facile desiderarlo, ma se anche fosse stato possibile, Peeta era convinto che Capitol gli avrebbe negato tale piacere, anzi. Forse avrebbe trovato un modo per fargli rivivere costantemente l’Arena, giusto per assicurarsi che nulla, nemmeno un secondo, venisse rimosso dalla sua mente.
Si sedette sul divano, permettendo ai nervi e ai muscoli della schiena di distendersi e il sorriso svanì finalmente dal suo volto, facendo sì che anche il suo viso tornasse ad una fisionomia normale.
Dopo ore e ore di sorrisi, si sentiva una paralisi al posto del viso. Sorridere quando era felice era già difficile per lui. Sorridere di fronte ai genitori delle persone che hai ucciso, era ancora peggio. Era quasi impossibile, ma doveva.
Esalò un respiro profondo, e finalmente si concesse un secondo di riposo. Socchiuse gli occhi e immaginò di potersi risvegliare in un altro posto, in un altro mondo, in un altro universo. Magari nemmeno in un altro mondo. A poco prima dell’ingresso nell’Arena. Farsi violenza in un modo o nell’altro, dirsi che non avrebbe dovuto farsi coinvolgere così tanto da Katniss. Non farsi coinvolgere nel perfido gioco di Capitol, non diventare una loro pedina.
Quella sera, sul tetto dopo le intervista, mentre il popolo di Capitol City richiedeva la loro annuale dose di violenza, sangue e chissà che altro ancora, mischiate in una poltiglia disgustosa che era l’Arena, aveva detto a Katniss che nulla sarebbe riuscito a piegarlo, che non sarebbe diventato una loro pedina.
Aveva mentito. Solo in quel momento se ne rendeva conto. Era stato solo un modo per mascherare la paura, per non farsi prendere dall’ansia dell’avere una spada di Damocle sul collo, un modo per affrontare a viso aperto la morte, pur sapendo che, quando sarebbe arrivata, non sarebbe stata gentile con lui. Aveva giurato alla ragazza, o forse, egoisticamente, solo a sé stesso, che sarebbe rimasto sé stesso, in ogni modo possibile, ma non ci era riuscito.
Dopo essere uscito quasi incolume dall’Arena - se non si contava la mancanza di un piede e buona parte del polpaccio, abilmente sostituiti da una protesi meccanica - si era ritrovato catapultato in un mondo che non gli apparteneva.
Un mondo contorto, pieno di intrighi, di slealtà e di cattiveria. Un mondo dove nascevano serpi immonde, ricoperte di odio e di malvagità. Un mondo che era diverso dal suo, senza nessuna via d’uscita. Un mondo che lo costringeva a fingere, a soffrire, a pugnalarsi quotidianamente il cuore e a vederli spillare sangue, senza avere nessun modo per farlo guarire.
E poi c’era Katniss, con tutti i suoi pro e i contro. Con i suoi tanti contro e i suoi non molti pro.
Avrebbe voluto tornare indietro solo per impedirsi di dire quelle cose all’intervista, per evitare di essere così ossessionata da lei, ogni ora che aveva passato in quell’Arena. E anche dopo. E dopo ancora.
Fino a chiudersi da solo, con le proprie mani, in una maglia di spine che lo strozzavano, giorno dopo giorno.
C’era Katniss, di cui, maledizione a lui, non riusciva a fare a meno. Anelava i suoi sorrisi, i suoi sguardi, i momenti in cui potevano stare insieme anche se il solo averla vicino gli ricordava che lei non lo amava.
O almeno, i suoi sentimenti non erano profondi quanto i propri. E, probabilmente, non sarebbero mai più usciti da quella situazione di stallo, come un vortice nero che li lasciava perennemente in bilico l’uno di fronte all’altro, costringendoli a guardarsi, senza avere nessuna possibilità di muoversi. Senza poter andare avanti. Senza poter andare avanti.
Immobili l’uno di fronte all’altra, le loro mani tese, senza riuscire a stringersele a vicenda.
Perché era quella la sua punizione divina.
Averla così vicino eppure sentirla così lontana. Aveva lei a nemmeno un metro, gli bastava allungare le dita per sfiorare le sue, per sfiorare la sua pelle morbida, per tenerla ancora più vicino. Eppure, i suoi occhi e la sua mente erano altrove e Peeta sapeva dove si trovavano.
Erano fissi su un altro ragazzo. Su un'altra persona… su qualcuno, in fondo, che non era lui e ciò lo feriva più di quanto avrebbe mai voluto, e dovuto, ammettere.
Si portò le dita alle tempie, tentando di far passare il principio di mal di testa che stava nascendo. Non voleva andare a letto in quelle condizioni. La giornata di domani sarebbe stata impegnativa e piena e lui non voleva ritrovarsi su un palco, a guardare uomini e donne che avevano perduto i figli proprio a causa di quella malvagità che ormai impregnava ogni cellula di Capitol, senza aver dormito.
Non voleva stare fermo là, a palesare la propria vittoria, come a dire “Ah, io sono vivo mentre tuo figlio è morto. Forse l’ho ucciso io, con le mie stesse mani.”
Non se la sentiva. Doveva riposarsi, cercando di liberare la mente da ogni altro pensiero negativo, da ogni peso che gli gravava sulle spalle.
Si alzò in piedi, stiracchiandosi, quando all’improvviso un urlo squarciò il silenzio placido della notte.
Immediatamente i nervi di Peeta si tesero in un unico fascio e si rese conto che le urla venivano dal vagone letto di Katniss. I suoi incubi si rovesciarono quasi subito nella propria mente e non riuscì a concentrarsi su altro che sulla ragazza, tanto che quasi non si rese conto di essere già nella sua stanza.
Katniss era seduta nel letto, le gambe incrociate e il viso stretto fra le mani, piegata sulle ginocchia, mentre ansimava e piangeva.
Parlava in modo sconnesso, stringendo le lunghe dita fra i capelli, tirandoli così forte che sembrava quasi stesse per strapparseli. Si avvicinò a lei, poggiando un ginocchio sul materasso e fu a quel punto che lei parve accorgersi della sua presenza.
Peeta vide solo la sua mano stretta a pugno, piantarsi direttamente sul viso, facendolo rotolare a terra, sbilanciato. Soffocò un gemito, portandosi una mano sul volto, premendo forte come se potesse far scomparire immediatamente il dolore e nel giro di una manciata di secondo la ragazza fu sopra di lui, mentre gli stringeva la mano sul colletto della camicia, un coltello stretto fra le dita, pronto a calarlo su di lui, probabilmente con l’intento di ucciderlo e nel più breve tempo possibile.
« Katniss! » ansimò Peeta con il fiato corpo, tentando di farla tornare lucida e fu a quel punto che Katniss parve tornare in sé.
Osservò il suo viso rigato dalle lacrime, serrato in una smorfia di rabbia e di paura e si chiese quando quel volto che tanto amava si era trasfigurato in una maschera di odio e dio chissà cos’altro. Il braccio tremava, gli occhi sbarrati e gonfi di lacrime, come se tentasse davvero di riconoscerlo oltre una nebbia che oscurava tutta la stanza, illudendola di chissà quali atrocità. Infine la stretta debolmente iniziò a sciogliersi e il coltello scivolò via dalle sue dita, cadendo accanto a loro.
Katniss iniziò a tremare con forza e fu a quel punto che Peeta si alzò a sedere, stringendola a sé, cingendo le sue braccia intorno a quel corpicino tremante e infreddolito, tentando di infonderle un coraggio che, alla fine, non possedeva nemmeno lui.
La ragazza iniziò ad ansimare parole sconnesse, riprendendo a piangere, tentando, senza riuscirci, di soffocare i singhiozzi fra le proprie mani.
Peeta tentò di sussurrare al suo orecchio qualunque cosa che riuscisse a calmarla e a farla smettere di piangere, ma non ci riuscì se non dopo molto tempo.
Quando finalmente la ragazza sembrò essersi calmata, Peeta intravide l’alba dal finestrino del treno e socchiuse gli occhi, appoggiandosi al letto, senza che Katniss desse cenno di volersi spostare da lui. Rimase ferma, appoggiata al suo petto, le braccia strette intorno alla vita, mentre fissava un punto vacuo davanti a sé, ricordandosi a malapena di respirare. Anzi, se non fosse stato un processo assolutamente meccanico, forse Katniss non lo avrebbe nemmeno fatto.
« Qualcuno stava tentando di ucciderti. » sussurrò all’improvviso la giovane « E io… ero davanti a te. E tu eri morto, forse. Non lo so. »
« Era solo un sogno. » sussurrò piano Peeta al suo orecchio.
Lei scosse le spalle, come se non ne fosse ancora sicura e come se anche il Peeta che stava stringendo non fosse reale, come se fosse anche lui solo una proiezione della sua mente malata.
« Lo so. Credo. » mormorò lei « Ma era così reale, così vivo che… quando ti sei avvicinato pensavo fossi quello che ti aveva ucciso. » rimasero in silenzio a lungo « Mi dispiace Peeta. »
Quelle tre parole rimasero ad aleggiare nell’aria intorno a loro per un lunghissimo momento, indecise se creare o meno un muro fra di loro, indecise sul loro stesso futuro.
Ma fu il ragazzo a decidere per loro e strinse semplicemente ancora le braccia intorno a lei.
« Non fa niente. Quello che importa è che tu alla fine mi abbia riconosciuto, no? »
Lei annuì, lentamente.
« E se non lo avessi fatto? Cosa sarebbe successo? »
« Perché pensarci adesso? Non è successo, no? » le accarezzò la pelle morbida delle braccia, come a riscaldarla o come se volesse imprimersi nella mente ogni singola sensazione che quella pelle poteva dargli.
« Dai. Adesso andiamo a sistemarci. E’ stata una lunga notte e fra poco Effie arriverà per svegliarti. »
Di nuovo, Katniss annuì, senza più commentare.
Era stanca, anche solo per pensare a ciò che doveva dire.
Peeta appoggiò la testa al materasso, chiudendo gli occhi. Se ripensava alla sua vita prima degli Hunger Games, decisamente, era molto più semplice.
Niente intrighi, niente sofferenza, niente paura e niente morte. Nella sua vita c’era solo il negozio di famiglia, la scuola e quell’amore covato di nascosto nel suo cuore, nel silenzio delle proprie notti.
Rimpiangeva quella vita.
Avrebbe voluto tornare a quando amava Katniss senza che lei lo sapesse, a quando tutto gli sembrava così maledettamente semplice, andare solo a scuola e guardarla, fino a farsi sanguinare gli occhi.
L’amava così tanto che a volte pensava che se fosse riuscito ad estirparsi dal petto quel sentimento, tutta la sua vita sarebbe stata più facile.
Invece si era ritrovato sbattuto in un’arena mortale, sopravvissuto per miracolo, spedito su un treno ad osservare giorno dopo giorno le famiglie di chi aveva ucciso e costretto a vivere in una relazione fatale che invece di alimentare il suo amore, lo stava avvelenando.
Desiderava solo dormire. Dormire e svegliarsi di nuovo il giorno della Mietitura. Fare scelte diverse.
Lasciarsi morire nell’Arena. Perché no?
Tutto in fondo era meglio che quella sofferenza continua, quello stare accanto a Katniss senza che lei lo volesse o desiderasse qualcun altro.
Oppure avrebbe potuto semplice lasciarsi trasportare dalla corrente. Muoversi per inerzia, che era molto più semplice.
Lasciarsi andare. E vivere, vivere fino al momento che il Destino aveva deciso per lui.
**
Quando Peeta si risvegliò, la stanza era completamente bianca. Oppure era bianca e ad accecarlo erano solo le potenti lampade appese al soffitto.
Gemette, serrandoli immediatamente. Gli facevano male. Anche solo pensare gli creava uno scompenso mentale di proporzioni enormi.
Li riaprì piano.
La stanza smise altrettanto lentamente di girare, causandogli un conato di vomito che riuscì a reprimere in tempo. Si alzò sui gomito, sentendo dolore lungo ogni articolazione e ogni terminazione nervosa.
Ogni cellula del suo corpo urlava, così come urlavano delle persone intorno a lui e il rumore incostante dei macchinari medici gli stavano trapanando il cervello.
Con uno sforzo sovrumano, urlò, la voce che gli raschiava lungo la gola, strappandosi di dosso ogni oggetto, ogni ago, ogni tampone,, recuperando finalmente un po’ di calma.
Le urla si erano interrotte, i suoni dei macchinari anche.
Il silenzio.
Era così bello il silenzio. Erano mesi che non lo sentiva così vivido, intenso. Era mesi che non sentiva altro che dolore, sofferenza, urla.
Il silenzio.
Era così bello il silenzio. Desiderava farsi avvolgere da lui come una calda mantella e accasciarcisi contro.
Ansimò, sentendo di nuovo come le sue braccia, le sue gambe e la sua testa riprendessero a fargli male, come se fosse circondato da fiamme vive.
Gemette, stringendosi le mani intorno alle tempie e il suo respiro si fece sempre più corpo, fino a che non si ritrovò di nuovo accasciato nel letto, il cuore che batteva fin troppo velocemente nel petto.
Quando perse i sensi, ringraziò sé stesso.
Il silenzio, era la cosa più bella a cui in quel momento poteva auspicare.
I giorni passavano lenti nella cella.
A causa dei medicinali non ricordava molto di quello che aveva fatto nemmeno un’ora prima. Però i dottori avevano stabilito, chissà su quale base si chiedeva Peeta, che poteva dipingere ed effettivamente quello lo aiutava a rilassarlo.
Capitol City, così gli avevano detto, gli aveva preso ogni ricordo, ogni emozione e gliel’aveva asportata, capovolta, distrutta, rimodellandolo come volevano loro, come se fosse solo un piccolo oggetto.
E lo era.
Quello che stupiva Peeta, nei vari sprazzi di lucidità che riusciva a racimolare e a stringere fra le dita, era che si sentiva davvero un oggetto.
Preso e strattonato da persone più potenti di lui o che amava più di sé stesso.
Come era successo con Katniss. Si era lasciato trascinare da lui, senza riuscire ad opporre resistenza.
Era stata lei la corrente che lo aveva trasportato fino a Capitol City.. Era stata lei la corrente che poi si era arenata sul bagnasciuga delle prigioni, delle torture, abbandonandolo come un pupazzo rotto che ormai ci ha annoiati.
La odiava.
Ma la odiava davvero oppure erano state le torture a farglielo credere.
Mosse più velocemente il pennello, senza riuscire a mettere a fuoco quello che aveva davanti agli occhi, perché i medicinali gli creavano una sonnolenza alla quale era impossibile resistere.